[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

196 / APRILE 2024 (CCXXVII)


turismo storico

SULLA VILLA ROMANA DI SANT’ANDREA
TRA MARE E ARCHEOLOGIA

di Viviana De Cecco

 

La Baia dei Pescatori è un tranquillo angolo della costa di Flumini di Quartu, a pochi chilometri dalla spiaggia del Poetto di Cagliari. Percorrendo in auto la trafficata litoranea che conduce verso la rinomata località turistica di Villasimius, solo un occhio attento riesce a cogliere al volo il simbolo di un cartello stradale che campeggia a pochi metri da un ristorante e che, sebbene sia stato deturpato di recente dalla mano dei vandali, indica la presenza di un sito archeologico tra le vie sulla destra. Svoltando in una stradina bianca, che corre tra villette per le vacanze e canne al vento, si giunge in una sorta di piazzola affacciata sul Golfo degli Angeli, dove alcune barche di pescatori locali giacciono in secca, accanto alle auto parcheggiate di fronte all’ingresso di un’associazione turistica.

 

È incredibile come ci si senta subito immersi in un’atmosfera quasi primordiale, dove storia e natura si fondono in un paesaggio suggestivo dominato dal fruscio della risacca e dai versi dei cormorani che riposano sulle rocce. A pochi passi dalla piazzetta, alcune panchine colorate d’azzurro offrono ombra e riposo ai turisti più stanchi, mentre un altro vialetto ghiaioso, delimitato a sinistra dal muro di cinta di un’abitazione privata e a destra da scogli ricoperti di finocchi selvatici dal pungente profumo, conduce verso una rotonda di cemento, costruita in tempi moderni per garantire ai visitatori di ammirare in completa sicurezza le rovine della Villa Romana di Sant’Andrea e di una Torre Spagnola cinquecentesca.

 

Una ringhiera in ferro consente di sporgersi senza timore a osservare l’affascinante gioco di luci che il sole mattutino crea sui resti dei muri che spuntano dall’acqua nel loro decadente splendore. In balia della danza incessante delle maree, a volte vengono inghiottiti quasi completamente dall’avanzare del mare, altre volte appaiono come strane visioni di pietra che si ergono sul basso fondale scoperto. Alcune pareti, sopravvissute all’erosione marina, superano di poco il metro di altezza e sembrano formare una sorta di edicola, a cui si affiancano due pozzi di forma circolare, di cui solo uno si distingue nitidamente. Sul versante ovest, invece, si può notare un’incredibile copertura con la volta a botte dove i lastroni in cotto sostengono ancora la pavimentazione di quello che un tempo doveva essere stato un piano superiore.

 

Sebbene sulla cartellonistica presente sul sito sia stata ricostruita una verosimile planimetria dell’edificio, esistono diverse ipotesi su quale fosse la reale disposizione degli ambienti. La presenza di piccole aree a cielo aperto, come l’edicola o i pozzi, e di altri spazi più chiusi, fanno pensare che la villa fosse stata organizzata secondo un variegato disegno di zone coperte e scoperte, a volte neppure collegate fra loro, e che si sviluppasse in maniera lineare, nello schema ricorrente delle ville marittime di età repubblicana o imperiale.

 

Nel 238 a.C., al termine della prima guerra punica, la Sardegna era passata dal dominio Cartaginese a quello Romano e la stessa Cagliari (Karales) era considerata sia un punto strategico militare che un importante crocevia commerciale. La stessa cittadina di Quartu prese il nome dalla distanza di quattro miglia che la separava dal capoluogo.

 

Finora, però, non è stato possibile risalire con esattezza al periodo in cui è stata costruita la villa, ma la tecnica utilizzata per la muratura, consistente nella tipica alternanza di mattoni e piccoli conci (blocchi) utilizzata in Sardegna tra il III e IV secolo d.C., è stata ritenuta come un prezioso indizio utile a collocarla in quest’arco temporale. Un’altra prova fondamentale è costituita dal rilevamento di paramenti murari in mattoni opus lateritium (dal latino later, crudo), composti da argilla o fango seccati al sole e legati con malta, che in età imperiale avevano iniziato a sostituire i blocchi di tufo e da quelli in opus vittatum mixtum, una tecnica in cui i mattoni vengono alternati a file di blocchetti in arenaria.

 

Sulla mappa in scala, si deduce ovviamente che la villa non possedesse la stessa grandiosità delle sue più celebri “colleghe” pompeiane o di Anzio, ma l’andamento lineare su cui era stata sviluppata ricorda, almeno sulla carta, lo schema architettonico adottato di frequente in tutte le abitazioni marittime dell’epoca, che parevano voler seguire l’orientamento rettilineo della costa, senza eccessive sinuosità labirintiche.

 

Non è strano, dunque, concludere che, a differenza delle ville rustiche cittadine o situate quantomeno nell’entroterra, la villa di Sant’Andrea rappresenti un raro esempio di residenza estiva appartenente a qualche famiglia romana dell’età imperiale. Si sa che ai patrizi in vacanza piaceva godere di tutti i piaceri che la vita può offrire e viene da chiedersi se questa casa, ai tempi del suo massimo splendore, avesse racchiuso nel suo cuore pulsante la spensierata sfrenatezza delle grandiose feste a cui nessun membro delle classi agiate avrebbe mai rinunciato. Tuttavia, alcuni ritengono che non fosse un sito esclusivamente privato, ma che fosse anche adibito a uso termale o destinato in parte alla produzione e all’allevamento del pescato.

 

Di solito, le terme romane erano composte da frigidarium (vasca di acqua fredda), calidarium (vasca di acqua calda) e tepidarium (vasca a temperatura moderata). Durante un’ispezione archeologica subacquea sono state individuate alcune tegulae hamatae (ovvero tegole di terracotta dotate di sporgenze, usate per le intercapedini del calidarium in modo da garantire la circolazione di aria calda), che confermerebbero dunque la prima ipotesi. La seconda ipotesi, invece, sarebbe avvalorata dalla presenza di alcune strutture che appaiono come piccole stanze a pianta quadrata, dalle dimensioni alquanto ridotte. Quando si scende lungo una passerella di legno, che funge da percorso guida, è possibile rendersi conto concretamente di quanto fossero angusti questi vani che emergono sul versante nord-ovest del sito. Camminando a passo lento per osservarli con attenzione, si notano le linee che ne demarcano nettamente i confini e non è difficile comprendere perché gli archeologi abbiano dedotto che molto probabilmente non fossero destinati a un uso domestico, ma adibiti piuttosto a magazzini.

 

Per questo, dato che la villa di Sant’Andrea sembrerebbe rispondere a queste caratteristiche, potrebbe dimostrarsi un interessante esempio di come una parte della produzione ittica venisse riservata ai proprietari, mentre la fetta più grossa fosse messa in commercio nell’intero bacino del Mediterraneo. Non era raro trovare lungo le coste della penisola delle ville marittime che assomigliavano più che altro a una sorta di edificio ibrido, a metà tra un luogo di riposo estivo e un impianto per allevare pesci, conservarli sotto sale o inviarli direttamente nelle cucine per farne un garum, la salsa composta da interiora e pesce salato di cui erano ghiotti gli antichi romani e che in Sardegna era molto in voga.

 

Del resto, il sale non mancava. I Romani avevano scelto una zona di Quartu (chiamata Cepola) per insediare gli schiavi che lo avrebbero estratto nel vicino stagno di Molentargius. Dunque, la villa di Sant’Andrea avrebbe potuto inserirsi facilmente in questo contesto di sfruttamento per diventare un luogo di deposito.

 

Purtroppo, la maggior parte dei resti è stata in parte coperta da un terrazzamento a sostegno della vicina torre di avvistamento, innalzata nel XVI secolo dagli Spagnoli per difendere la costa soprattutto dalle incursioni corsare e demolita negli anni ’60 del Novecento. Da un lato, è un vero peccato che sia stata sovrapposta alle più antiche rovine, dall’altro ne ha in parte protetto l’erosione e la totale scomparsa. A deturpare il panorama, inoltre, è stata ancora una volta la cementificazione selvaggia dell’uomo contemporaneo che, nella sua ingordigia di rubare spazio a ciò che non gli appartiene di diritto, ha rovinato il volto incontaminato della costa.

 

Alla fine di questo breve tour è comunque d’obbligo prendersi un attimo di pausa. Quando ci si siede sui lunghi sedili rivestiti di assi di legno e posti a semicerchio l’uno di fronte all’altro al centro della rotonda, si prova una sensazione di pace e serenità. Forse, quasi duemila anni fa, una matrona romana ha passeggiato proprio nello stesso punto, godendosi il fresco di una serata di otium in cui il maestrale soffia impetuoso dal nord, mentre suo marito ha composto qualche carme di fronte all’infuocato tramonto, andato disperso tra le onde del mare insieme alle altre vestigia di un tempo perduto.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]