SULLA VILLA ROMANA DI SANT’ANDREA
TRA MARE E ARCHEOLOGIA
di
Viviana De Cecco
La Baia dei Pescatori è un
tranquillo angolo della costa di
Flumini di Quartu, a pochi
chilometri dalla spiaggia del Poetto
di Cagliari. Percorrendo in auto la
trafficata litoranea che conduce
verso la rinomata località turistica
di Villasimius, solo un occhio
attento riesce a cogliere al volo il
simbolo di un cartello stradale che
campeggia a pochi metri da un
ristorante e che, sebbene sia stato
deturpato di recente dalla mano dei
vandali, indica la presenza di un
sito archeologico tra le vie sulla
destra. Svoltando in una stradina
bianca, che corre tra villette per
le vacanze e canne al vento, si
giunge in una sorta di piazzola
affacciata sul Golfo degli Angeli,
dove alcune barche di pescatori
locali giacciono in secca, accanto
alle auto parcheggiate di fronte
all’ingresso di un’associazione
turistica.
È incredibile come ci si senta
subito immersi in un’atmosfera quasi
primordiale, dove storia e natura si
fondono in un paesaggio suggestivo
dominato dal fruscio della risacca e
dai versi dei cormorani che riposano
sulle rocce. A pochi passi dalla
piazzetta, alcune panchine colorate
d’azzurro offrono ombra e riposo ai
turisti più stanchi, mentre un altro
vialetto ghiaioso, delimitato a
sinistra dal muro di cinta di
un’abitazione privata e a destra da
scogli ricoperti di finocchi
selvatici dal pungente profumo,
conduce verso una rotonda di
cemento, costruita in tempi moderni
per garantire ai visitatori di
ammirare in completa sicurezza le
rovine della Villa Romana di
Sant’Andrea e di una Torre Spagnola
cinquecentesca.
Una ringhiera in ferro consente di
sporgersi senza timore a osservare
l’affascinante gioco di luci che il
sole mattutino crea sui resti dei
muri che spuntano dall’acqua nel
loro decadente splendore. In balia
della danza incessante delle maree,
a volte vengono inghiottiti quasi
completamente dall’avanzare del
mare, altre volte appaiono come
strane visioni di pietra che si
ergono sul basso fondale scoperto.
Alcune pareti, sopravvissute
all’erosione marina, superano di
poco il metro di altezza e sembrano
formare una sorta di edicola, a cui
si affiancano due pozzi di forma
circolare, di cui solo uno si
distingue nitidamente. Sul versante
ovest, invece, si può notare
un’incredibile copertura con la
volta a botte dove i lastroni in
cotto sostengono ancora la
pavimentazione di quello che un
tempo doveva essere stato un piano
superiore.
Sebbene sulla cartellonistica
presente sul sito sia stata
ricostruita una verosimile
planimetria dell’edificio, esistono
diverse ipotesi su quale fosse la
reale disposizione degli ambienti.
La presenza di piccole aree a cielo
aperto, come l’edicola o i pozzi, e
di altri spazi più chiusi, fanno
pensare che la villa fosse stata
organizzata secondo un variegato
disegno di zone coperte e scoperte,
a volte neppure collegate fra loro,
e che si sviluppasse in maniera
lineare, nello schema ricorrente
delle ville marittime di età
repubblicana o imperiale.
Nel
238 a.C., al termine della prima
guerra punica, la Sardegna era
passata dal dominio Cartaginese a
quello Romano e la stessa Cagliari (Karales)
era considerata sia un punto
strategico militare che un
importante crocevia commerciale. La
stessa cittadina di Quartu
prese il nome dalla distanza di
quattro miglia che la separava dal
capoluogo.
Finora, però, non è stato possibile
risalire con esattezza al periodo in
cui è stata costruita la villa, ma
la tecnica utilizzata per la
muratura, consistente nella tipica
alternanza di mattoni e piccoli
conci (blocchi) utilizzata in
Sardegna tra il III e IV secolo
d.C., è stata ritenuta come un
prezioso indizio utile a collocarla
in quest’arco temporale. Un’altra
prova fondamentale è costituita dal
rilevamento di paramenti murari in
mattoni opus lateritium (dal latino
later, crudo), composti da
argilla o fango seccati al sole
e legati con malta, che
in età
imperiale avevano iniziato a
sostituire i blocchi di tufo e da
quelli in opus vittatum
mixtum, una tecnica in cui i
mattoni vengono alternati
a
file di blocchetti in arenaria.
Sulla mappa in scala, si deduce
ovviamente che la villa non
possedesse la stessa grandiosità
delle sue più celebri “colleghe”
pompeiane o di Anzio, ma l’andamento
lineare su cui era stata sviluppata
ricorda, almeno sulla carta, lo
schema architettonico adottato di
frequente in tutte le abitazioni
marittime dell’epoca, che parevano
voler seguire l’orientamento
rettilineo della costa, senza
eccessive sinuosità labirintiche.
Non
è strano, dunque, concludere che, a
differenza delle ville
rustiche cittadine o situate
quantomeno nell’entroterra, la villa
di Sant’Andrea rappresenti un raro
esempio di residenza estiva
appartenente
a
qualche famiglia romana dell’età
imperiale. Si sa che ai
patrizi in vacanza piaceva godere di
tutti i piaceri che la vita può
offrire e viene da chiedersi se
questa casa, ai tempi del suo
massimo splendore, avesse racchiuso
nel suo cuore pulsante la
spensierata sfrenatezza delle
grandiose feste a cui nessun membro
delle classi agiate avrebbe mai
rinunciato. Tuttavia, alcuni
ritengono che non fosse un sito
esclusivamente privato, ma che fosse
anche adibito a uso termale o
destinato in parte alla produzione e
all’allevamento del pescato.
Di solito, le terme romane erano
composte da frigidarium
(vasca di acqua fredda),
calidarium (vasca di acqua calda)
e tepidarium (vasca a
temperatura moderata). Durante
un’ispezione archeologica
subacquea sono state individuate
alcune
tegulae hamatae (ovvero
tegole di terracotta dotate di
sporgenze, usate per le
intercapedini del calidarium
in modo da garantire la circolazione
di aria calda), che confermerebbero
dunque
la
prima ipotesi. La seconda ipotesi,
invece, sarebbe avvalorata dalla
presenza di alcune strutture
che appaiono come piccole stanze a
pianta quadrata, dalle dimensioni
alquanto ridotte. Quando si scende
lungo una passerella di legno, che
funge da percorso guida, è possibile
rendersi conto concretamente di
quanto fossero angusti questi vani
che emergono sul versante nord-ovest
del sito. Camminando a passo lento
per osservarli con attenzione, si
notano le linee che ne demarcano
nettamente i confini e non è
difficile comprendere perché gli
archeologi abbiano dedotto che molto
probabilmente non fossero destinati
a un uso domestico, ma adibiti
piuttosto a magazzini.
Per questo, dato che la villa di
Sant’Andrea sembrerebbe rispondere a
queste caratteristiche, potrebbe
dimostrarsi un interessante esempio
di come una parte della produzione
ittica venisse riservata ai
proprietari, mentre la fetta più
grossa fosse messa in commercio
nell’intero bacino del Mediterraneo.
Non era raro trovare lungo le coste
della penisola delle ville marittime
che assomigliavano più che altro a
una sorta di edificio ibrido, a metà
tra un luogo di riposo estivo e un
impianto per allevare pesci,
conservarli sotto sale o inviarli
direttamente nelle cucine per farne
un garum, la salsa composta
da interiora e pesce salato di cui
erano ghiotti gli antichi romani e
che in Sardegna era molto in voga.
Del resto, il sale non mancava. I
Romani avevano scelto una zona di
Quartu (chiamata Cepola) per
insediare gli schiavi che lo
avrebbero estratto nel vicino stagno
di Molentargius. Dunque, la villa di
Sant’Andrea avrebbe potuto inserirsi
facilmente in questo contesto di
sfruttamento per diventare un luogo
di deposito.
Purtroppo, la maggior parte dei
resti è stata in parte coperta da un
terrazzamento a sostegno della
vicina torre di avvistamento,
innalzata nel XVI secolo dagli
Spagnoli per difendere la costa
soprattutto dalle incursioni corsare
e demolita negli anni ’60 del
Novecento. Da un lato, è un vero
peccato che sia stata sovrapposta
alle più antiche rovine, dall’altro
ne ha in parte protetto l’erosione e
la totale scomparsa. A deturpare il
panorama, inoltre, è stata ancora
una volta la cementificazione
selvaggia dell’uomo contemporaneo
che, nella sua ingordigia di rubare
spazio a ciò che non gli appartiene
di diritto, ha rovinato il volto
incontaminato della costa.
Alla fine di questo breve tour è
comunque d’obbligo prendersi un
attimo di pausa. Quando ci si siede
sui lunghi sedili rivestiti di assi
di legno e posti a semicerchio l’uno
di fronte all’altro al centro della
rotonda, si prova una sensazione di
pace e serenità. Forse, quasi
duemila anni fa, una matrona romana
ha passeggiato proprio nello stesso
punto, godendosi il fresco di una
serata di otium in cui il
maestrale soffia impetuoso dal nord,
mentre suo marito ha composto
qualche carme di fronte
all’infuocato tramonto, andato
disperso tra le onde del mare
insieme alle altre vestigia di un
tempo perduto.