N. 3 - Marzo 2008
(XXXIV)
BLACKOUT DEI DIRITTI
Riflessione sulle
vicende birmane del
settembre 2007
di Laura Novak
Sono passati circa sei
mesi da quei giorni di vergogna, ma sembrano anni. Nessuno più ne ricorda lo sdegno,
le immagini senza pietà, le parole, le foto bloccate
nel flusso di informazione mondiale da una potenza
più grande, il pugno.
Le mie parole non saranno
analitiche, non faranno meramente cronaca nera, seppur
dovuta.
La Birmania è un luogo
lontano, fantastico e affascinante, che, nella
denominazione mondiale, è stato anche privato del suo
nome originario, Birmania dalla lingua parlata dal
popolo, per renderlo al popolo con la denominazione
Myanmar.
E’ un luogo dove il tempo
moderno non ha mai iniziato a scorrere, dove l’orologio
umano ha i tempi, i suoni e gli odori delle inalterate
usanze popolari in commistione con antichi rituali
religiosi.
Il buddismo è ancora la
loro linfa vitale, il monastero è ancora il centro della
vita di un centro abitato, è ancora il centro nella
sfera individuale e allo stesso tempo comunitaria. (La
Birmania è tra i primi posti per seguaci del Buddismo,
in particolare l’ala Theravada, quello degli anziani,
quello essenziale e reazionaria, rispetto alle nuove
correnti buddiste innovative).
Secondo più di una fonte
nello stato birmano, ad oggi controllato da un governo
fantoccio di estremisti restauratori di ordine e
disciplina di stampo comunista e di scuola cinese, non
vengono applicate condanne alla legge marziale dal 1993.
Dati ufficiosi, redatti da fonti ufficiali.
Ma allora sparare,
abbattere, calpestare e uccidere disarmati lungo strade
pubbliche, sequestrare e rendere invisibili uomini e
donne dalle mani vuote, senza abiti o scarpe, come lo si
può definire?
Ho cercato in questo mese
di leggere, mantenere la mia attenzione concentrata o
comunque aggiornata su cosa stesse ancora accadendo e
cosa invece fosse rimasto paralizzato, nel grande
blackout umanitario del mese scorso.
E’ stato quasi
impossibile; se non arrivano notizie attraverso mezzi di
informazioni liberi e indipendenti da poteri politici e
religiosi, se non arrivano piccoli stralci di misere
righe di agenzie di stampa senza cuore ed empatia, su
questi 30 giorni seguenti al sangue, è calato un velo.
All’inizio, ingenuamente,
credevo che si trattasse di indifferenza del mondo verso
un luogo senza aspirazioni economiche, né tanto meno
mezzi.
La Birmania (e continuerò
a chiamarlo così nonostante sia ormai una denominazione
errata) è una delle nazioni più povere del mondo.
Ma perché?
In realtà nel paese ci
sono riserve petrolifere ovunque, al centro e sulle
isole; ha pozzi profondi chilometri da cui, secondo
recenti stime, c’è greggio per un totale di 50 milioni
di barili e riserve per decenni e per miliardi (non
milioni, ma miliardi) di barili nei prossimi anni.
Se poi si aggiunge il più
grande quantitativo di tutta l’Estremo Oriente di gas (
si parla di miliardi e miliardi metri cubi), estrazioni
di enormi rubini, tra i più pregiati e quotati al mondo,
estrazione di piombo, zinco e stagno; si può comprendere
quanto la realtà sia distorta.
Nonostante l’enorme
capacità potenziale della nazione, il popolo muore di
stenti, senza acqua corrente (nonostante il fiume
Irrawaddy sia lungo più di 2000 km e percorra in
longitudine tutto il paese), senza servizi sanitari
basilari, senza sorriso.
Eppure attraverso qualche
canale, quelle ricchezze viaggiano e devono continuare a
viaggiare.
In effetti le casse di
molti stati dell’Oriente, in particolare la Cina, sono
strabordanti di meraviglie “made in birmania”. Stati
che, nonostante siano assolutamente atemporali e lontani
dalla contemporaneità, sono diventati intoccabili in
questo debole equilibrio mondiale, in cui la sfera di
competenze e la divisione del mondo nei due blocchi
politici creati nel post shock fascista, è diventata ora
più che mai evidente e concreta.
La modernità non è in sé
per sé un bene, una grande acquisizione mondiale,
qualcosa che renda la vita individuale migliore. Anzi;
la sterilizza, l’appiattisce a consumi costanti e
inquinanti, a dogmi commerciali, azzerando la libertà di
scelte personali.
Ma combattere il progresso
seppur anacronistico deve avere il suo percorso di
coerenza. Aggettivo non certamente politico.
E così di nuovo nella
storia un paese è schiavo politico di un altro, con
tutte le gravose conseguenze del caso.
In un solo secondo siamo
stati catapultati nell’orrore.
Abbiamo visto attraverso
pixel sterili delle nostre Tv volti di uomini di pace
incredibilmente contornati, seguiti, e sollevati da
uomini e donne qualunque, in un vortice di carne e
tessuto, in un vortice di uno splendido color arancio
scuro, un rosso non troppo acceso, non esuberante, ma
accattivante agl’occhi e al cuore.
E Poi dopo qualche giorno,
abbiamo visto di nuovo rosso, un rosso violento,
aggressivo, il rosso della violenza amorale e sudicia,
una violenza che ti acceca e ti lascia senza fiato.
Le ore passavano, le
informazioni diventavano sottili, leggere, senza corpo,
senza sostanza, di convenienza.
Per via traverse,
nascoste, abbiamo saputo di prigioni riempite con calci,
di teste e corpi lacerati, di identità calpestate e
cancellate, di uomini mai tornati e all’improvviso anche
mai esistiti.
E poi lui il simbolo di
questa carneficina.
Una macchina fotografica
davanti al petto, tenuta stretta nella mano destra, un
vestito grigio senza segni particolari, un corpo minuto
che cade, alza una mano, e senza più un altro giorno
davanti, crolla sotto un fucile di uomo in piedi e con
molti segni particolari: elmetto, tuta mimetica e
stivali.
E ci siamo chiesti, lì sì
io me lo sono chiesta, se in tutto quel buio di
informazioni e immagini della verità, fosse necessaria
alla nostra anima sconvolta e incredibilmente impotente,
la visione di un’uccisione tanto vile. Se quell’uomo,
reporter di vita reale, abbia avuto giustizia nel
diventare protagonista assoluto di una cronaca nera
infida e abbietta, lui che la cronaca probabilmente
l’amava.
Le voci ora si sono
definitivamente spente, e il non sapere, alimenta le
domande, accresce e crea nuove e vecchie riflessioni, le
rende croniche.
C’è chi afferma, uscito da
quell’inferno, che i corpi sono stati annientati anche
nella loro identità di morti, bruciati, smembrati,
seppelliti in fosse comuni, senza un ricordo di una vita
dignitosa.
E l’unica eco rimasta
nell’aria è quella di un addio in diretta, in 16:9,
piatto e senza dimensioni. Un addio esempio di tanti
addii senza il 16:9. |