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N. 29 - Ottobre 2007

IL VERLAGSSYSTEM

Un modello economico nel Mediterraneo del XVI secolo

di Maria Siciliano

 

A partire dal 1520 – 40 ci fu nel Mediterraneo uno sviluppo decisivo delle industrie urbane, frutto di un  secondo slancio del capitalismo che coinvolse ad un tempo  Mediterraneo ed Europa, ragione per la quale il Cinquecento viene considerato un  secolo decisamente capitalistico, caratterizzato da potenti dinamismi economici.

 

Un capitalismo mercantile, le cui grandi ore erano passate, avrebbe avuto il cambio da un capitalismo industriale che fiorirà effettivamente con il secondo gettito metallico del secolo.

 

Il superamento dell’immobilismo e della ristrettezza dei mercati locali, l’ affermarsi di un sistema economico di dimensioni mondiali a lunga distanza ebbero come  immediata conseguenza la formazione del capitale che penetrò, per mezzo di una folla di mercanti, fino ai borghi agricoli dove anche l’attività di impresa ricevette grandi stimoli.

 

La rapidità e l’estensione di questo fenomeno furono tali che i termini di “prima rivoluzione industriale” che John U. Nef ha attribuito alla sola Inghilterra, a partire dal  1540, o  di sviluppo del “ grande capitalismo industriale” che J. Hartung ha segnalato per la  Germania dal 1550, sono perfettamente giustificati.

 

La Rivoluzione capitalistica fu opera di un tipo di “uomo nuovo”, partecipe dello spirito del Rinascimento, il borghese capitalista, dotato di spirito di intraprendenza, gusto del rischio e della conquista che applicò lo spirito razionalista all'impresa capitalistica in vista di considerevoli vantaggi commerciali.

 

Il nascente sistema protoindustriale si differenziava in maniera sostanziale da quello artigianale, in origine soprattutto urbano, in quanto coinvolgeva anche la popolazione rurale; ciò favorì la nascita di vere e proprie regioni protoindustriali  in cui le economie domestiche urbane e quelle rurali risultavano ugualmente integrate nel processo produttivo.

 

La transizione verso l’industrializzazione prese avvio, in ogni paese europeo, dal settore tessile ( della lana, lino, seta, cotone e in misura minore della canapa) e metallurgico (soprattutto quello relativo all'argento tedesco) i cui prodotti fino ad allora erano stati realizzati artigianalmente all’interno di botteghe le cui attività erano monitorate e regolamentate  dalle Corporazioni.

 

Dalla fine del XVI secolo, il notevole incremento demografico ed una aumentata   domanda  di prodotti , sia per il mercato interno che per l'esportazione, portò a modificare le tecniche di fabbricazione, votate alla produzione di massa.

 

Un maggior numero di prodotti divenne oggetto di grandi scambi internazionali e di nuove attività di intermediazione su lunga distanza: seta e industria artistica italiana, lane dei Paesi Bassi, di Francia e d'Inghilterra, prodotti minerari e metallurgici di Germania; vini ed acquaviti di Francia; cereali, lino, canapa, legname da costruzioni, bestiame dei paesi del Baltico, della Russia e dell'Ungheria.

 

 Le nuove forme produttive si affermarono malgrado l'opposizione delle corporazioni, molto forte soprattutto nelle antiche città artigiane ( Bruges, Gand, Bruxelles, Rouen, Firenze) che ammettevano unicamente il lavoro in bottega e impedivano ai maestri artigiani di fornire i prodotti in quantità sufficienti e della qualità voluta, costringendo i mercanti, almeno in un primo momento, a cercare la manodopera nei borghi, nelle campagne e nei sobborghi cittadini, dove nacquero  veri e propri “villaggi industriali” caratterizzati da un’alta concentrazione di opifici.

 

 L’ostilità al nuovo sistema da parte delle Corporazioni si tradusse, inoltre, nell’ energica avversione verso la significativa, quanto basilare,  introduzione di nuovi strumenti di lavoro,  che permettevano, a scapito della qualità,  di raddoppiare la produzione e  di abbassare i prezzi.

 

Quasi dovunque, questa industria fu di tipo capitalistico, conformemente allo schema del verlagssystem, termine degli storici tedeschi,  che si può tradurre con “sistema su anticipi” corrispondente a quello adottato dagli inglesi putting-out system o a quello più  generale, di industria disseminata: il mercante - imprenditore, il commendatario, il verleger, anticipava, con propri capitali ( o con quelli di una società commerciale da lui diretta)  all’artigiano la merce, la materia prima da trasformare  che poi  rivendeva come prodotto finito o semilavorato sul mercato, vicino e lontano, a prezzi molto competitivi.

 

Questo modello economico non fu del tutto nuovo; infatti, si era già diffuso durante il tardo Medioevo quando l’ampliarsi del grande commercio a lunga distanza tra Oriente e Nord aveva  determinato la nascita di forme capitalistiche  nelle città d'Italia e dei Paesi Bassi ( Firenze, Venezia, Bruges, Liegi, Gand ). In seguito, fiorì rapidamente là dove non era ancora conosciuto, affermandosi, soprattutto, nei centri urbani minori con tendenza ad estendersi nelle campagne.

 

Il nuovo sistema di produzione scardinava le regole delle Corporazioni artigiane dei mestieri e trasformava i produttori diretti in operai salariati, la cui paga, spesso, altro non era che una parte del prodotto finito.  Il lavoratore da artigiano divenne operaio.

Tale forma di organizzazione produttiva venne realizzata  in maniera decentrata, presso l’abitazione dei lavoranti, a domicilio, dove l’imprenditore trasferiva la materia  prima per la lavorazione.

 

Gli strumenti adoperati per la produzione dei beni industriali, rivolti esclusivamente alla soddisfazione delle richieste del mercato, erano generalmente di proprietà dei lavoratori, oppure, molto spesso, venivano loro concessi in affitto dallo stesso mercante – imprenditore.

 

Così scrisse uno storico del XVII, descrivendo la sfilata dei mestieri tenutasi a Segovia nel 1570 e organizzata da Filippo II:  [...] il popolo chiama impropriamente i fabbricanti di panni mercaderes , mentre  sono veri padri di famiglia, che nelle loro case o fuori, danno lavoro a un gran numero di persone ( alcuni duecento, altri fino a trecento), fabbricando così, con mani forestiere una grande varietà di panni finissimi [...]

 

Tuttavia, non era insolito il caso in cui l’acquirente stesso, sostituendosi al mercante, anticipava  la materia prima e gli strumenti di lavoro sotto forma di denaro. Eloquente, a tal proposito, ciò che si verificò a Venezia nell’inverno del 1530.  L’ambasciatore di Carlo V, Rodrigo Nino, era stato incaricato dal suo sovrano di comperare seterie: damaschi verdi, blu, rossi e cremisi e velluti. Manderà dei campioni, dice, e discuterà sul prezzo ma bisognerà, tuttavia, anticipare al momento dell’ordinazione 1000 ducati, rinviando il saldo alla fine del lavoro. Il tessitore, infatti, doveva  acquistare la seta dal mercante, il quale l’avrebbe fatta arrivare dalla Turchia in matasse per farla poi lavorare per suo conto.

 

Il sistema, ogni volta, favoriva i mercanti che finanziavano i lenti processi produttivi e se ne riservano i benefici, nella vendita e nell’ esportazione.

 

Il ruolo di questi imprenditori, qui faciunt laborare, fu particolarmente decisivo nella lavorazione della seta e, non a caso, nel 1559, veniva segnalata l’avidità di questi mercanti che, facendo lavorare da 20 a 25 telai, simultaneamente, erano stati la causa di evidenti pregiudizi e, considerando che, già nel 1497, una legge aveva proibito a ogni tessitore di seta di tenere al suo servizio più di 6 tellatori,  la cosa venne considerata  alquanto scandalosa.

 

Ciò nonostante, il nuovo schema produttivo sostituendosi ampliamente alla tradizionale economia di tipo artigianale e, garantendosi sempre più di frequente il sostegno delle autorità, portò avanti la sua affermazione  a svantaggio delle altre forme di produzione finalizzate all’autoconsumo o all’autosussistenza, per le quali divenne sempre più difficile  sottrarsi alle  precise disposizioni governative in materia.

  

A tal proposito, si può ricordare  la condotta di alcuni “ filatogi” di Cattaro che, disattendendo una legge del  1547, che obbligava il filatore a non lavorare per conto suo le sete grezze che possedeva, avevano preso l’abitudine di lavorare in proprio la seta che acquistavano loro direttamente.

 

Il Senato li obbligò  a filare le sete dei mercanti, affinché questi non fossero costretti a comprare i filati al prezzo che conveniva ai filatogi indipendenti.

 

 L’espansione di questo modello protoindustriale non si fondò solo sul primato del mercante – imprenditore, ma altresì sul successo economico del sistema e sulla  resistenza di cui fu capace anche quando le circostanze non furono più favorevoli.

 

Dopo il 1560, infatti, lo sviluppo del capitalismo subì un rallentamento: di fatto, non si registrarono più operazioni capitalistiche estese come quelle della prima metà del secolo, tanto che,  per questa ragione, alcuni critici parlano addirittura di crisi e di decadenza.

Va detto, inoltre, che i principi feudali e gran parte dell’aristocrazia non seppero mai adeguarsi in modo favorevole allo sviluppo capitalistico e borghese dell’economia avviato nei rispettivi paesi, ma intesero beneficiare dei vantaggi di tale sviluppo restando ancorati alle classiche posizioni di privilegio tipiche della rendita.

 

Ciò nonostante, in seguito all’indiscusso dinamismo economico e sociale, il legame tra capitalismo e Stato subì una torsione radicale e definitiva, con un travaso di potere verso l’impresa, determinando uno slittamento dalla ragion di Stato “alla ratio economica”.

 

L’interesse non mente fu una massima del ‘500 e, difatti, fu l’interesse il criterio di regolazione universale e il suo linguaggio costituì ed esaurì l’universo del discorso sociale.

 

L’economia tendeva a diventare non solo il supporto, ma la manifestazione dell’incivilimento.



 

 

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