A partire dal 1520 –
40 ci fu nel Mediterraneo uno sviluppo decisivo
delle industrie urbane, frutto di un secondo
slancio del capitalismo che coinvolse ad un tempo
Mediterraneo ed Europa, ragione per la quale il
Cinquecento viene considerato un secolo decisamente
capitalistico, caratterizzato da potenti dinamismi
economici.
Un capitalismo
mercantile, le cui grandi ore erano passate, avrebbe
avuto il cambio da un capitalismo industriale che
fiorirà effettivamente con il secondo gettito
metallico del secolo.
Il superamento
dell’immobilismo e della ristrettezza dei mercati
locali, l’ affermarsi di un sistema economico di
dimensioni mondiali a lunga distanza ebbero come
immediata conseguenza la formazione del capitale
che penetrò, per mezzo di una folla di mercanti,
fino ai borghi agricoli dove anche l’attività di
impresa ricevette grandi stimoli.
La rapidità e
l’estensione di questo fenomeno furono tali che i
termini di “prima rivoluzione industriale” che John
U. Nef ha attribuito alla sola Inghilterra, a
partire dal 1540, o di sviluppo del “ grande
capitalismo industriale” che J. Hartung ha segnalato
per la Germania dal 1550, sono perfettamente
giustificati.
La Rivoluzione
capitalistica fu opera di un tipo di “uomo nuovo”,
partecipe dello spirito del Rinascimento, il
borghese capitalista, dotato di spirito di
intraprendenza, gusto del rischio e della conquista
che applicò lo spirito razionalista all'impresa
capitalistica in vista di considerevoli vantaggi
commerciali.
Il nascente sistema
protoindustriale si differenziava in maniera
sostanziale da quello artigianale, in origine
soprattutto urbano, in quanto coinvolgeva anche la
popolazione rurale; ciò favorì la nascita di vere e
proprie regioni protoindustriali in cui le economie
domestiche urbane e quelle rurali risultavano
ugualmente integrate nel processo produttivo.
La transizione verso
l’industrializzazione prese avvio, in ogni paese
europeo, dal settore tessile ( della lana, lino,
seta, cotone e in misura minore della canapa) e
metallurgico (soprattutto quello relativo
all'argento tedesco) i cui prodotti fino ad allora
erano stati realizzati artigianalmente all’interno
di botteghe le cui attività erano monitorate e
regolamentate dalle Corporazioni.
Dalla fine del XVI secolo,
il notevole incremento demografico ed una aumentata
domanda di prodotti , sia per il mercato interno
che per l'esportazione, portò a modificare le
tecniche di fabbricazione, votate alla produzione di
massa.
Un maggior numero di
prodotti divenne oggetto di grandi scambi
internazionali e di nuove attività di
intermediazione su lunga distanza: seta e industria
artistica italiana, lane dei Paesi Bassi, di Francia
e d'Inghilterra, prodotti minerari e metallurgici di
Germania; vini ed acquaviti di Francia; cereali,
lino, canapa, legname da costruzioni, bestiame dei
paesi del Baltico, della Russia e dell'Ungheria.
Le nuove forme produttive
si affermarono malgrado l'opposizione delle
corporazioni, molto forte soprattutto nelle antiche
città artigiane ( Bruges, Gand, Bruxelles, Rouen,
Firenze) che ammettevano unicamente il lavoro in
bottega e impedivano ai maestri artigiani di fornire
i prodotti in quantità sufficienti e della qualità
voluta, costringendo i mercanti, almeno in un primo
momento, a cercare la manodopera nei borghi, nelle
campagne e nei sobborghi cittadini, dove nacquero
veri e propri “villaggi industriali” caratterizzati
da un’alta concentrazione di opifici.
L’ostilità al nuovo
sistema da parte delle Corporazioni si tradusse,
inoltre, nell’ energica avversione verso la
significativa, quanto basilare, introduzione di
nuovi strumenti di lavoro, che permettevano, a
scapito della qualità, di raddoppiare la produzione
e di abbassare i prezzi.
Quasi dovunque, questa
industria fu di tipo capitalistico, conformemente
allo schema del verlagssystem, termine degli
storici tedeschi, che si può tradurre con “sistema
su anticipi” corrispondente a quello adottato dagli
inglesi putting-out system o a quello più
generale, di industria disseminata: il
mercante - imprenditore, il commendatario, il
verleger, anticipava, con propri capitali ( o con
quelli di una società commerciale da lui diretta)
all’artigiano la merce, la materia prima da
trasformare che poi
rivendeva come prodotto finito o semilavorato sul
mercato, vicino e lontano, a prezzi molto
competitivi.
Questo modello
economico non fu del tutto nuovo; infatti, si era
già diffuso durante il tardo Medioevo quando
l’ampliarsi del grande commercio a lunga distanza
tra Oriente e Nord aveva determinato la nascita di
forme capitalistiche
nelle città d'Italia e dei Paesi Bassi ( Firenze,
Venezia, Bruges, Liegi, Gand ). In seguito,
fiorì rapidamente là dove non era ancora conosciuto,
affermandosi, soprattutto, nei centri urbani minori
con tendenza ad estendersi nelle campagne.
Il nuovo sistema di
produzione scardinava le regole delle Corporazioni
artigiane dei mestieri e trasformava i produttori
diretti in operai salariati, la cui paga, spesso,
altro non era che una parte del prodotto finito.
Il lavoratore da artigiano divenne operaio.
Tale forma di
organizzazione produttiva venne realizzata in
maniera decentrata, presso l’abitazione dei
lavoranti, a domicilio, dove l’imprenditore
trasferiva la materia prima per la lavorazione.
Gli strumenti adoperati
per la produzione dei beni industriali, rivolti
esclusivamente alla soddisfazione delle richieste
del mercato, erano generalmente di proprietà dei
lavoratori, oppure, molto spesso, venivano loro
concessi in affitto dallo stesso mercante –
imprenditore.
Così scrisse uno storico
del XVII, descrivendo la sfilata dei mestieri
tenutasi a Segovia nel 1570 e organizzata da Filippo
II: [...]
il popolo chiama impropriamente i fabbricanti di
panni mercaderes , mentre sono
veri padri di famiglia, che nelle loro case o fuori,
danno lavoro a un gran numero di persone ( alcuni
duecento, altri fino a trecento), fabbricando così,
con mani forestiere una grande varietà di panni
finissimi [...]
Tuttavia, non era
insolito il caso in cui l’acquirente stesso,
sostituendosi al mercante, anticipava la materia
prima e gli strumenti di lavoro sotto forma di
denaro. Eloquente, a tal proposito, ciò che si
verificò a Venezia nell’inverno del 1530.
L’ambasciatore di Carlo V, Rodrigo Nino, era stato
incaricato dal suo sovrano di comperare seterie:
damaschi verdi, blu, rossi e cremisi e velluti.
Manderà dei campioni, dice, e discuterà sul prezzo
ma bisognerà, tuttavia, anticipare al momento
dell’ordinazione 1000 ducati, rinviando il saldo
alla fine del lavoro. Il tessitore, infatti, doveva
acquistare la seta dal mercante, il quale l’avrebbe
fatta arrivare dalla Turchia in matasse per farla
poi lavorare per suo conto.
Il sistema, ogni
volta, favoriva i mercanti che finanziavano i lenti
processi produttivi e se ne riservano i benefici,
nella vendita e nell’ esportazione.
Il ruolo di questi
imprenditori, qui faciunt laborare, fu
particolarmente decisivo nella lavorazione della
seta e, non a caso, nel 1559, veniva segnalata
l’avidità di questi mercanti che,
facendo lavorare da 20 a 25 telai,
simultaneamente, erano stati la causa di evidenti
pregiudizi e, considerando che, già nel 1497,
una legge aveva proibito a ogni tessitore di seta di
tenere al suo servizio più di 6 tellatori,
la cosa venne considerata alquanto scandalosa.
Ciò nonostante, il
nuovo schema produttivo sostituendosi ampliamente
alla tradizionale economia di tipo artigianale e,
garantendosi sempre più di frequente il sostegno
delle autorità, portò avanti la sua affermazione a
svantaggio delle altre forme di produzione
finalizzate all’autoconsumo o all’autosussistenza,
per le quali divenne sempre più difficile sottrarsi
alle precise disposizioni governative in materia.
A tal proposito, si
può ricordare la condotta di alcuni “ filatogi” di
Cattaro che, disattendendo una legge del 1547, che
obbligava il filatore a non lavorare per conto suo
le sete grezze che possedeva, avevano preso
l’abitudine di lavorare in proprio la seta che
acquistavano loro direttamente.
Il Senato li obbligò
a filare le sete dei mercanti, affinché questi non
fossero costretti a comprare i filati al prezzo che
conveniva ai filatogi indipendenti.
L’espansione di questo
modello protoindustriale non si fondò solo sul
primato del mercante – imprenditore, ma altresì sul
successo economico del sistema e sulla resistenza
di cui fu capace anche quando le circostanze non
furono più favorevoli.
Dopo il 1560, infatti, lo
sviluppo del capitalismo subì un rallentamento: di
fatto, non si registrarono più operazioni
capitalistiche estese come quelle della prima metà
del secolo, tanto che, per questa ragione, alcuni
critici parlano addirittura di crisi e di decadenza.
Va detto, inoltre, che
i principi feudali e gran parte dell’aristocrazia
non seppero mai adeguarsi in modo favorevole allo
sviluppo capitalistico e borghese dell’economia
avviato nei rispettivi paesi, ma intesero
beneficiare dei vantaggi di tale sviluppo restando
ancorati alle classiche posizioni di privilegio
tipiche della rendita.
Ciò nonostante, in
seguito all’indiscusso dinamismo economico e
sociale, il legame tra capitalismo e Stato subì una
torsione radicale e definitiva, con un travaso di
potere verso l’impresa, determinando uno slittamento
dalla ragion di Stato “alla ratio economica”.
L’interesse non
mente fu una massima del ‘500 e, difatti, fu
l’interesse il criterio di regolazione universale e
il suo linguaggio costituì ed esaurì l’universo del
discorso sociale.
L’economia tendeva a
diventare non solo il supporto, ma la manifestazione
dell’incivilimento.