contemporanea
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STORIA DI 43 PATRIOTI
LA fucilazione di verbania del giugno
1944
di Francesco Marcelli
È il 20 giugno 1944 e un gruppo di
partigiani viene fatto sfilare tra le
vie di Verbania prima dell’esecuzione.
Per quarantatre persone è l’inizio della
fine.
La foto che segue è stata scattata a
Verbania, un paese che si trova in
Piemonte e si affaccia sulla riva
occidentale del Lago Maggiore. I
protagonisti di questa immagine sono
quarantatre partigiani catturati dai
nazifascisti che si apprestano a essere
condotti al macello. Ad oggi non
sappiamo chi fece questa foto, ma una
cosa è certa, chi la scattò era qualcuno
che era stato incaricato dalle autorità
fasciste. Infatti si può ben notare lo
scopo propagandistico di quest’immagine.
I primi due individui della colonna sono
costretti a portare un cartello che ha
il preciso fine di metterli in ridicolo
e mostrare alla popolazione locale che
quelli che si ritengono i liberatori
della patria non sono altro che dei
banditi malconci. Il cartello infatti
riporta questa precisa scritta: “Sono
questi i liberatori D’ITALIA oppure sono
i banditi?”. Siamo quindi davanti a un
chiaro tentativo di denigrare e umiliare
questi martiri della Resistenza,
delegittimandoli dal ruolo di eroi
patriottici.
Un altro aspetto importante da notare è
anche lo stato in cui essi si trovavano.
Tutti quanti sono abbastanza malconci e
indossano vestiti usurati. Sono
visibilmente stanchi, specie il primo
individuo a sinistra della colonna che
regge il cartello. Infatti, come
riportato dalle testimonianze in nostro
possesso (Orazio Barbieri, I
sopravvissuti), un po’ per il
rastrellamento e un po’ per le torture
ricevute, erano tutti quanti sfiniti.
Volutamente erano stati fatti sfilare
per Verbania prima di arrivare nella
piana di Fondotoce dove c’era un plotone
di esecuzione pronto lì ad aspettarli. È
impressionante il fatto che, malgrado
questi partigiani dovessero essere
giustiziati di lì a poco, ci sia stata
comunque la volontà di umiliarli fino
all’ultimo davanti agli occhi di mogli,
figli, parenti e amici. Nonostante tutto
però, è interessante notare che, quella
che doveva essere una foto fatta con il
preciso obiettivo di mostrare alla
popolazione che fine fa la gente che
abbraccia le armi contro il regime, si è
trasformata nel giro di poco tempo nel
simbolo del martirio partigiano davanti
alle barbarie nazifasciste. La Storia
infatti ci insegna che il significato di
una foto può spesso mutare molto
rapidamente fino a cambiare
completamente.
È quest’immagine una chiara
testimonianza del livello di grande
crudeltà a cui si era arrivati in quel
periodo nell’Italia
Centrosettentrionale. Periodo nel quale,
come sottolinea Claudio Pavone (Una
guerra civile), infuriava una guerra
che è stata sia patriottica, sia civile,
sia di classe. In tutto questo “la
violenza cruenta sta al centro di questo
discorso”, ripete lo storico. Non si può
infatti comprendere il fenomeno della
Resistenza, senza prima capire bene a
che grado di radicalità si era giunti in
quell’ultima fase del conflitto.
Nella foto, oltre ai quarantatre
partigiani, appaiono anche tre
carnefici, tutti e tre tedeschi. Due
all’estrema destra e l’altro a sinistra
in fondo alla colonna di prigionieri.
Stanno scortando a piedi a Fondotoce
questo corteo di “vittime sacrificali”,
immolate al fine di assicurarsi la
sottomissione della popolazione
attraverso il terrore. Infatti di lì a
poco sarebbe stato perpetrato uno dei
tanti eccidi nazisti di quella calda e
sanguinosa estate del 1944.
Erano circa le sei di pomeriggio quando
giunsero nel luogo dove ad aspettarli
c’era la morte. Furono fatti sdraiare
per terra e poi con una pioggia di
proiettili furono eliminati tre per
volta fine all’ultimo uomo. “I Tedeschi
compivano l’operazione come se fossero a
un mattatoio, e i partigiani non avevano
gesti di ribellione, preoccupati
soltanto di morire con dignità” (Orazio
Barbieri, I sopravvissuti).
Tutto questo avvenne sotto gli occhi
della popolazione civile, che era stata
chiamata dai Tedeschi con lo scopo di
mostrare a tutti che fine spettava a
quelli che loro chiamavano con disprezzo
“i banditi”. I lamenti di parenti e
amici dei condannati si intrecciavano
con le ciniche risate dei nazisti in
procinto di eliminare gli ultimi
partigiani che erano rimasti solo
feriti. Uno spettacolo straziante.
Soffermiamoci adesso in particolare su
due persone presenti in quel gruppo di
partigiani. La prima è una donna,
l’unica del gruppo. La figura che si
vede nella prima fila del corteo,
esattamente sotto il cartello
diffamatorio, è Cleonice Tommasetti, una
donna di trentadue anni che era stata
staffetta partigiana. Una persona che in
quei momenti bui “diede coraggio” agli
altri sventurati con il suo esempio di
donna decisa.
Infatti, secondo quanto raccontato da
Carlo Suzzi in un’intervista del 1983
presente nell’Archivio dell’Istituto
Storico della Resistenza nel novarese,
ella addirittura poco prima
dell’esecuzione esclamò: «Facciamo
vedere a questi sgherri che sappiamo
morire da Italiani!».
Una donna con un forte senso di dignità,
che conservò per tutto il tragitto fino
alla morte, malgrado la crudele opera
denigratoria dei nazisti. Proviamo
infatti solo per un istante a immaginare
l’imbarazzo che doveva provare per il
fatto di essere l’unica donna del
gruppo, per giunta in prima fila al
centro e per avere costantemente sopra
la sua testa quell’umiliante cartello.
Nonostante ciò, Cleonice Tommasetti con
la sua incredibile forza d’animo è stata
per i suoi compagni di sventura, così
come anche per noi oggi, un grande
esempio di dignità umana davanti alla
morte.
La seconda persona su cui vorrei
soffermarmi è invece un ragazzo di soli
diciassette anni presente nella seconda
fila sul lato destro del corteo. Il suo
nome è Carlo Suzzi, l’unico
sopravvissuto della strage, che quindi
per questo motivo sarà soprannominato il
“Quarantatre”, essendo tutti gli altri
quarantadue compagni morti in
quell’occasione (Adolfo Mignemi,
Storia fotografica della Resistenza).
Suzzi infatti racconta, sempre
nell’intervista del 1983, che, al
momento dell’esecuzione, lui e altri due
compagni si strinsero in un abbraccio
fraterno gridando insieme: «Viva
l’Italia!».
Poi giunse inesorabile la raffica di
proiettili che li colpì da parte a
parte. Suzzi cadde subito a terra come
gli altri, con la differenza però che
quelli che gli stavano vicino erano
morti, lui invece era stato solo ferito.
Non appena compreso cosa era accaduto,
egli “rimase immobile” sentendo uno dopo
l’altro “i colpi di grazia che (i
Tedeschi) davano agli altri”.
A un certo punto un soldato gli si
avvicinò e così racconta l’accaduto lo
stesso Suzzi nel già citato libro di
Barbieri: «Trattenni il respiro, ma
dentro il cuore mi batteva forte.
Attesi. Avevo l’occhio sempre aperto. Il
tedesco mi fu sopra a gambe divaricate.
Lo vedevo di sotto in su. Vidi il foro
nero della canna della pistola che
teneva abbassata. Sparò sul ragazzo di
Varese. Se ne andrà, pensai. Invece
sostò ancora, sentii che toccava a me.
Trattenni il fiato, pronto a morire. Il
colpo partì. Sentii un bruciore
irresistibile al capo e uno spruzzo di
terra mi cadde sul viso; la pallottola
aveva sfiorato solo la parte cutanea del
capo e si era conficcata al suolo. Sparò
ancora, poi rimise la pistola nella
fondina e se ne andò».
Qualche millimetro più in là e la Storia
sarebbe andata differentemente. Non
appena i carnefici se ne andarono, Suzzi
fece segno ai civili che avevano
assistito all’esecuzione. Essi subito
capirono che c’era un sopravvissuto e di
conseguenza lo aiutarono. Quando si
riprese, senza pensarci due volte, tornò
sulle montagne a combattere.
Il fato volle così che quel ragazzo
riuscisse a salvarsi e a continuare la
sua esistenza per altri settantaquattro
anni. Morì infatti all’età di novantuno
anni in Thailandia di morte naturale.
Qualcosa sfuggì all’efficiente e
spietata macchina repressiva nazista,
nonostante tutto infatti, la vita era
stata più forte della morte.
Si conclude così la storia di questi
martiri della Resistenza che pagarono
con il loro stesso sangue il prezzo che
la Libertà esige. Libertà che sgorga dal
sacrificio di migliaia di uomini e donne
come loro, che combatterono e morirono
con dignità per la patria. Libertà sopra
la quale si regge la nostra attuale
democrazia.
Mi sento quindi di rispondere a
quell’infamante domanda retorica del
cartello che i partigiani stessi sono
stati costretti a portare, dicendo che
questa è la storia di 43 “liberatori
d’Italia” e quindi di 43 patrioti. |