VeNEZIA: non solo glamour
LA Mostra E LA solidarietà per TUTTI i
registi perseguitati
di Leila Tavi
Questa edizione della Mostra del
Cinema di Venezia sarà ricordata non
soltanto per l’eccellente selezione
di film e cortometraggi, ma anche
per la solidarietà nei confronti di
registi di tutto il mondo
perseguitati o, addirittura,
incarcerati nei loro Paesi, come
l’iraniano Jafar Panahi, l’egiziano
Motaz Atowab e la turca Çiğdem
Mater.
I primi a prendere posizione nei
confronti delle violazioni dei
diritti umani a cui i registi sono
sottoposti sono stati il direttore
della Mostra Alberto Barbera, Vanja
Kaludjercic (Croazia, direttrice del
Festival di Rotterdam), Sinem
Sakaoglu (Turchia, regista), Orwa
Nyrabia (direttrice dell’Amsterdam
Documentary Film Festival), Mike
Downey (presidente della European
Film Academy) e Kaveh Farnam (Iran,
produttore), che hanno preso parte a
una tavola rotonda sul tema, che si
è svolta nell’ambito della 79.
edizione della Mostra del Cinema di
Venezia, in cooperazione con
l’International Coalition for
Filmmakers at Risk (ICFR).
Vania Kaludjercic ha illustrato il
contesto in cui è stata fondata nel
2019 l’ICRF per iniziativa
dell’International Documentary
Filmfestival Amsterdam (IDFA),
nell’ambito dell’International Film
Festival Rotterdam (IFFR), in
collaborazione con la European Film
Academy (EFA). La coalizione è nata
da una preoccupazione comune nei
confronti dei filmmaker
indipendenti, la cui vita e i cui
mezzi di sostentamento sono a
rischio in Paesi dove sono i regimi
a governare. In questi due anni, l’ICFR
ha aiutato registi dall’Afghanistan
all’Egitto, dal Myanmar all’Iran e,
negli ultimi tempi, dall’Ucraina. La
direttrice del Festival di Rotterdam
ha spiegato come l’ICFR abbia
mobilitato la comunità
cinematografica internazionale per
raccogliere 420.000 euro, somma che
è stata devoluta in favore di
quattrocento registi ucraini, in
modo che potessero lasciare il loro
Paese in guerra, ottenere visti,
trovare un alloggio e provvedere al
loro sostentamento.
Orwa Nyrabia ha, invece, mostrato al
pubblico intervenuto alla tavola
rotonda come la campagna dell’ICFR
per i registi in Afghanistan sia
stata un successo: su ottocento
registi e le loro famiglie, il 60% è
stato trasferito in Paesi
democratici in cui possono vivere e
lavorare al sicuro. La direttrice
dell’Amsterdam Documentary Film
Festival ha, però, rimarcato che
bisogna sempre tenere la guardia
alta contro le violazioni dei
diritti umani in ambito artistico e
non bisogna assuefarsi a uccisioni e
torture, come nel tragico caso di
Mantas Kvedaravičius, un regista
lituano ucciso in Ucraina
nell’aprile scorso, mentre tentava
di lasciare Mariupol assediata dai
Russi. Secondo alcune fonti ucraine
Kvedaravičius stava filmando le
truppe russe in azione nella zona,
per testimoniare le atrocità
commesse nei confronti di civili
inermi.
Vanja Kaludjercic ha lanciato
un’azione volta ad accrescere la
sensibilizzazione dell’opinione
pubblica per aumentare le donazioni
per un fondo dell’ICFR da devolvere
in favore dei registi coinvolti
nella guerra in Ucraina.
L’iniziativa prevede sovvenzioni da
500 a 1.500 euro per aiutare a
sostenere costi quali le spese di
trasferimento e le spese legali e
amministrative, compresi i visti.
il produttore iraniano Kaveh Farnam
ha denunciato, poi, la critica
situazione dei suoi colleghi nel suo
Paese, che subiscono pesanti
persecuzioni, facendo riferimento ai
recenti arresti dei registi Jafar
Panahi, Mohammad Rasoulof e Mostafa
Aleahmad.
In particolar modo, Jafar Panahi,
già arrestato e condannato in
passato, non ha potuto prendere
parte alla Mostra del Cinema di
Venezia, perché lo scorso luglio è
stato nuovamente privato della
libertà personale per aver
protestato insieme a numerosi suoi
colleghi contro l’arresto degli
altri due registi, Mohammad Rasoulof
e Mostafa Aleahmad, avvenuto in
seguito alle proteste contro la
violenza sui civili in Iran. Panahi
è stato condannato a sei anni di
carcere a giugno, dopo essere stato
arrestato per aver criticato il
governo in merito all’arresto dei
suoi colleghi registi iraniani
sopracitati. Il regista è al momento
detenuto in un carcere di Teheran,
in custodia dal 12 luglio scorso,
dopo essersi recato presso l’ufficio
del procuratore di Teheran per
accertarsi delle condizioni in cui
versavano i suoi due colleghi
registi arrestati qualche giorno
prima. In seguito è emerso che le
autorità iraniane avevano deciso di
riattivare una condanna sospesa a
sei anni, originariamente comminata
a Panahi nel 2010 per aver girato un
film senza permesso. La pena per
questo reato è stata poi commutata
in arresti domiciliari, grazie alle
pressioni internazionali. Al regista
è vietato lasciare il Paese per
venti anni.
La sua detenzione si inserisce nel
contesto di un giro di vite sulla
libertà d’espressione in Iran,
mentre il governo tiene sotto
controllo un’ondata di proteste
popolari su una serie di questioni,
tra cui la crisi del costo della
vita, la gestione da parte del
governo di un crollo edilizio
mortale e codici di abbigliamento
più severi per le donne.
Panahi, che si è fatto apprezzare a
livello internazionale nel 1995,
grazie alla sua opera prima
Badkonake sefid (Il palloncino
bianco), vincendo la Caméra d’Or di
Cannes, ha trascorso gran parte
della sua carriera cinematografica
nel mirino delle autorità iraniane,
trascorrendo gli ultimi dodici anni
alternando brevi periodi di libertà
a lunghi arresti domiciliari.
È stato arrestato per la prima volta
nel luglio 2009, dopo aver
partecipato al funerale di Neda
Agha-Soltan, una studentessa di
filosofia uccisa a Teheran da
miliziani sostenuti dal governo,
mentre partecipava alle proteste
della Rivoluzione Verde.
Panahi è stato arrestato una seconda
volta nel marzo 2010, mentre girava
un film ambientato sullo sfondo
della Rivoluzione Verde. Nel
dicembre dello stesso anno gli è
stata inflitta una condanna a sei
anni di carcere con la condizionale,
che finora non ha scontato. Durante
tutti questi anni Panahi è stato
costretto a produrre i suoi film in
totale clandestinità. Tra i suoi
film noti al grande pubblico
ricordiamo il docu-comedy-drama
Taksojuht (Taxi Teheran),
vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino
nel 2015 e In film nist (This
Is Not A Film) del 2011, che è stato
realizzato mentre era agli arresti
domiciliari e poi fatto uscire in
modo clandestino dall’Iran.
Il suo nuovo film Khers NIst
(No Bears), in concorso a Venezia,
ha vinto il premio speciale della
giuria. Panahi racconta due storie
d’amore che si svolgono in
parallelo, i cui protagonisti devono
affrontare ostacoli che sembrano
insormontabili. La storia del film è
ambientata in un villaggio al
confine con l’Azerbaigian, dove una
coppia cerca di partire per Parigi
con passaporti rubati, con una
troupe cinematografica che li segue,
mentre una seconda giovane coppia
cerca di sfuggire da un matrimonio
forzato e da un villaggio pieno di
pettegolezzi e maldicenze.
Dalla finzione alla realtà, con
Panahi costretto a dirigere il suo
film da una stanza in affitto via
Zoom. La scelta di girare in un
anonimo villaggio di confine è stata
strategica, per evitare gli
oppressivi controlli che avrebbe
subito a Teheran, come per il suo
penultimo film del 2018, il
road-movie Se rokh (Tre
volti). Durante le riprese di No
Bears il regista usciva a
passeggiare soltanto dopo il
tramonto, in una zona montuosa dove,
come il titolo del suo nuovo film ci
annuncia, non ci sono orsi, ma
uomini sciacallo, come
contrabbandieri di merci e di
persone, approfittatori e poliziotti
corrotti.
A Venezia sono stati presentati
altri tre lungometraggi iraniani:
Beyond The Wall di Vahid
Jalilvand, sempre in Concorso,
World War III di Houman Seydei,
nella sezione Orizzonti, e il
thriller Without Her di Arian
Vazirdaftari, in Orizzonti Extra.
Il 9 settembre pomeriggio, in
occasione della proiezione del film
di Panahi, è stato organizzato un
flash mob sul red carpet, a cui ha
preso parte anche la Presidente
della giuria del festival, Julianne
Moore. Insieme a lei si sono uniti
alla protesta molti artisti e
addetti ai lavori del cinema, tra i
quali Audrey Diwan, membro della
giuria, la regista Sally Potter, la
Presidente della giuria della
sezione Orizzonti, Isabel Coixet, e
il Direttore del festival, Antonio
Barbera.
Critica è anche la condizione di
Motaz Atowab, detenuto in Egitto per
oltre un anno e mezzo. Çiğdem Mater,
invece, è una produttrice turca
condannata a diciotto anni di
detenzione che è stata arrestata
durante un’irruzione sul set del suo
ultimo film. La sua collega Sakaoglu
ha letto alla fine del suo
intervento durante la conferenza di
Venezia una nota scritta a mano da
Çiğdem Mater:
“Cara comunità di cineasti - Anche
se non sembrava, ci siamo imbarcati
in un compito difficile in tempi
difficili. La solidarietà e il
sostegno globale mi rassicurano
continuamente che siamo sulla strada
giusta e che stiamo facendo ciò che
è giusto. Con la speranza di essere
di nuovo liberi e di poterci
incontrare presto ai festival”.
La produttrice turca è stata
condannata a diciotto anni di
carcere dopo che, insieme ad alcuni
colleghi, è stata accusata di aver
cercato di rovesciare il governo
turco in relazione alle proteste
anti governative di Gezi Park del
2013.
Uno dei maggiori sostenitori della
causa è Mike Downey, produttore
cinematografico irlandese-britannico
cofondatore e amministratore
delegato di Film and Music
Entertainment e dal 2020 Presidente
della European Film Academy. Downey
ha concluso la conferenza di Venezia
citando le parole di Panahi,
pronunciate dal regista iraniano in
occasione della sua nomina ad
ambasciatore dell’ICFR: “Il sostegno
incondizionato dei registi è il
miglior supporto che un regista a
rischio possa ricevere”.