N. 42 - Giugno 2011
(LXXIII)
iL VELO islamico
TRA TRADIZIONE E SOTTOMISSIONE
di Francesca Zamboni
Hijāb,
chādor
e
nikāb
sono
i
diversi
tipi
di
velo
che
contraddistinguono
i
paesi
arabo-musulmani
e
che
definiscono
l’intensità
del
livello
di
segregazione
e
sottomissione
della
donna
all’uomo.
L’hijāb
rappresentava,
in
principio,
il
drappo
di
seta
dietro
cui
si
celava
il
califfo
per
tutelarsi
dagli
sguardi
importuni
dei
propri
congiunti.
Il
termine
ha
acquistato,
in
seguito,
significati
diversi
nelle
differenti
culture
in
cui
si è
andato
a
divulgare.
Inizialmente
il
termine
era
estraneo
all’Islam
e
solo
con
gli
Omayadi,
dinastia
di
califfi,
è
riuscito
a
diffondersi
per
poi
espandersi
in
Egitto
con
i
Fatimidi
al
fine
di
glorificare
la
figura
del
Sovrano.
Per i Sufi l’hijāb era invece simbolo di invulnerabilità
e
vittoria
per
l’uomo
che
lo
avesse
indossato,
acquisendo
poteri
affini
alle
scienze
occulte.
Poi
la
sua
diffusione
nell’Islam
e
quindi
la
sua
estensione
a
tutto
l’universo
femminile.
L’hijāb è conosciuto in Occidente anche col sinonimo
chādor
o
chadar,
dal
persiano
ciâdar
(velo
o
mantello),
tipico
indumento
usato
dalle
donne
iraniane
e da
tenersi
distinto
dal
clasico
rūsāri,
ovvero
un
copricapo
o
copritesta.
In origine si trattava di un velo indossato solo per i momenti
di
meditazione,
praticamente
una
abito
unico
che
avvolgeva
tutto
il
corpo
e
che
gradualmente
divenne
la
veste
utilizzata
dalle
donne
dell’Iran
per
le
loro
passeggiate
quotidiane.
Ancora oggi il chādor costituisce il vestito tradizionale,
simile
a un
manto
o a
un
foulard,
che
le
donne
devono,
obbligatoriamente,
indossare
quando
devono
mostrarsi
in
pubblico.
Il
viso
resta
scoperto,
mentre
le
spalle
e il
capo
sono
rigorosamente
coperti,
incorniciando
l’ovale
del
volto.
Bisogna ovviamente sottolineare la differenza che sussisteva
tra
il
chādor
utilizzato
nelle
zone
urbane
e
quello
nelle
zone
rurali.
Nel
primo
caso
si
trattava
di
una
veste
chiara
o
colorata
che
veniva
abbinata
a un
foulard,
a
una
camicia
e a
una
gonna
indossata
sopra
un
paio
di
pantaloni
(shalwaar);
nel
secondo
caso
il
volto
veniva
avvolto
in
un
velo
che
lasciava
scoperti
gli
occhi.
Ancora oggi il chādor classico è rimasto l’indumento
intramontabile
delle
donne
delle
zone
rurali,
mentre
nelle
aree
urbane
il
posto
è
stato
lasciato
ad
abiti
più
comodi
e
meno
ingombranti.
Il
chādor,
solitamente
colorato
o
bianco
per
il
giorno,
veniva
sostituito
con
uno
nero
per
le
cerimonie
funebri.
Il nero, secondo l’ayatollah Khomeini, era il colore per
eccellenza
per
questo
tipo
di
velo,
che
le
donne
non
sono
costrette
a
vestire
se
non
per
attestare
il
proprio
consenso
al
potere
politico
o la
propria
devozione
nei
confronti
del
velo
stesso,
inteso
unicamente
come
indumento
religioso.
In origine il chādor indicava lo status sociale di
una
donna,
poiché
il
suo
impiego
serviva
loro
per
distinguersi
da
quelle
che
non
lo
adoperavano,
ovvero
le
prostitute
e le
serve.
I sovrani persiani si servivano di questo mezzo di identificazione
così
come
era
abituale
tra
i
greci
e i
bizantini,
le
cui
mogli
non
potevano
mostrarsi
in
pubblico
con
il
viso
completamente
scoperto.
Una
pratica
pre-islamica,
questa,
che
ha
trovato
il
suo
seguito
sia
nel
chādor
che
nell’hijāb.
Il chādor fu abolito nel 1936 dallo Scià Reza Pahlavi,
poiché
non
fedele
al
processo
di
modernizzazione
che
aveva
intrapreso.
Non
solo,
le
donne
che
non
avessero
obbedito
a
tale
proibizione
sarebbero
state
arrestate;
un
provvedimento,
questo,
che
non
riscosse
la
simpatia
di
coloro
che
consideravano
il
velo
una
sorte
di
protezione,
mentre
per
i
liberali
e
coloro
che
si
erano
assimilati
all’occidente,
la
decisione
presa
dallo
Scià
rappresentava
un
primo
passo
verso
una
maggiore
considerazione
della
figura
femminile
e
verso
il
riconoscimento
dei
loro
diritti
civili.
L’uso del velo è stato nuovamente introdotto nel 1980 attraverso
una
legge
che
ha
irrigidito
le
norme
del
codice
anche
se
con
il
passare
degli
anni
l’imposizione
dello
chādor
è
divenuto
meno
predominante.
Il niqāb, altro tipo di velo appartenente alla tradizione
islamica
e
utilizzato
in
Arabia
Saudita,
Iran
e
Marocco,
copre,
differenza
dello
chādor,
tutto
il
corpo
della
donna,
lasciando
scoperti
solo
lo
sguardo.
L’abito è composto da un fazzoletto, posto sotto gli occhi,
al
fine
di
coprire
naso
e
bocca
e da
un
pezzo
di
stoffa
molto
ampio,
annodato
dietro
la
nuca
e
poi
lasciato
scendere
lungo
le
spalle
affinché
i
capelli
siano
ben
raccolti
e
nascosti.
Il niqāb è stato oggetto di molte diatribe, poiché
si
tratta
di
un
abito
che,
non
favorendo
l’identificazione
di
una
persona,
potrebbe
agevolare
atti
terroristici.
Per
questo
motivo
il
niqāb
ha
creato
molte
polemiche.
Tuttavia
il
suo
uso
è
stato
riconosciuto
nei
tribunali
britannici
e
alcuni
ospedali
hanno
addirittura
provveduto
a
creare
un
camice
niqāb
per
le
pazienti
musulmane.
L’apice della segregazione e sottomissione femminile è però
rappresentato
da
due
tipi
di
burqa:
il
primo,
di
colore
blu,
copre
completamente
il
corpo
e il
volto
della
donna
e
qualche
volta
è
provvisto
di
una
piccola
rete
per
favorire
la
visibilità,
il
secondo
è un
velo
che
copre
interamente
la
testa,
lasciando
scoperti
gli
occhi.
Si tratta di una estremizzazione dei precetti coranici classici,
poiché
il
Libro
Sacro
considera
il
velo
lo
strumento
tramite
cui
le
donne
possono
distinguersi
dalle
concubine.
Quindi
l’uso
del
velo
presuppone
la
possibilità,
per
il
testo
sacro,
di
essere
riconosciute.
Il burqa invece non permette l’identificazione e
quindi
la
distinzione
di
uno
stato
sociale
da
un
altro.
Questo
tipo
di
abito,
obbligatorio
in
Afghanistan,
è
stato
imposto
dai
Talebani,
che
nel
1996
stabilirono
che
le
bambine
dovevano
indossare
obbligatoriamente
il
chādor,
mentre
le
donne
il
burqa.
Quindi ancora una volta la tradizione vittimizza la figura
femminile,
che
spesso
indossa
il
velo
non
per
celebrare
la
propria
cultura,
ma
per
confermare
la
loro
sottomissione
alla
figura
maschile.