N. 115 - Luglio 2017
(CXLVI)
La
Tomba
delle
Anatre
e
dei
Leoni
Ruggenti
Le
più
antiche
pitture
del
mondo
etrusco
di
Paolo
Fundarò
Anche
i
tombaroli
hanno
un’anima,
se
si
tratta
poi
di
ricevere
uno
sconto
di
pena
l’anima
si
pente
candidamente.
Grazie
a
questa
“catarsi"
il
31
maggio
del
2006
il
comando
dei
Carabinieri
Tutela
Patrimonio
Culturale
ottiene
il
recupero
di
una
piccola
tomba
a
camera
all’interno
del
parco
archeologico
di
Veio
con
rilevanti
fregi
dipinti
dai
colori
ben
conservati.
Si
tratta
delle
più
antiche
pitture
etrusche,
risalenti
intorno
al
690/700
a.C.,
dove
spiccano
figure
di
fiere,
forse
leoni,
rese
con
una
semplice
e
quasi
infantile
linea
di
contorno
in
nero
carbone
e
definiti
con
una
incisione
preparatoria.
Questa
processione
di
tre
belve
strepitanti
pronte
all’attacco
a
cui
se
ne
oppone
un’altra
in
senso
inverso,
dalla
bocca
smisurata
coi
denti
ben
in
vista,
le
orecchie
aguzze
e la
coda
sollevata,
riporta
lo
schema
della
loro
vivace
rappresentazione
ai
versi
del
cerbero
dantesco:
"e
bocche
aperse,
e mostrocci
le
sannne.
Non
avea
membro
che
tenesse
fermo".
A
chi
è
rivolta
la
furia
belluina,
il
respiro
feroce
e
infuocato
dei
felini
stilizzati
che
sembrano
muoversi
nel
fondo
della
parete
lattiginosa
come
un
inquieto
fluido
vitale
che
rinasce
a
nuova
vita
o in
una
sorta
di
lotta
di
“preistorici
pac-man"
che
addentano
senza
sosta
l’aria
funebre?
Opposto
alla
serie
dei
leoni
una
processione
di
figure
dipinte
si
estende
nel
fregio
della
parete
di
destra
e
sul
registro
superiore
staccandosi
in
forme
di
figure
di
uccelli
acquatici
disposti
in
alternanza
su
due
file
in
movimento
verso
destra
e
delineati
in
ocra
rossa
e
nero
carbone;
anch’essi
incisi
nella
parete
con
una
tratto
sottile,
a
volte
incerto.
Nel
complesso
il
fregio
pittorico,
che
manifesta
affinità
stringenti
con
la
coeva
produzione
vascolare
etrusca
e
greca,
motivi
del
primo
periodo orientalizzante
e
influenze
geometriche euboiche-cicladiche
derivate
dell’antica
colonia
di
Pithecusa
(attuale
Ischia),
esprime
un
significato
simbolico
denso
di
allusioni:
gli
uccelli
acquatici
o
migratori
richiamano
il
passaggio
dalla
vita
alla
morte,
mentre
le
belve
strepitanti
rappresentano
il
timore
dell'Aldilà
evocando
gli
inferi
e
l’orrida
e
terrificante
dimora.
Il
soffitto
della
piccola
tomba,
la
parte
inferiore
delle
pareti
e
gli
stipiti
della
porta
ad
arco
sono
dipinti
in
un
rosso
brunito.
I
leoni
ruggenti
nel
fregio
inferiore
della
parete
sebbene
subiscano
le
stesse
influenze
tardo
geometriche
delle
anatre
dipinte,
sembrano
più
liberi
e
sciolti
nell’interpretazione
stilistica
di
un
decoratore
locale.
.
Veio,
particolare
della
tomba
dei
Leoni
Ruggenti
Le
fonti
classiche
ricordano
Veio
come
la
grande
nemica
di
Roma.
Già
all’età
mitica
di
Romolo
risalgono
i
primi
scontri
per
il
dominio
della
ripa
veiens,
la
sponda
destra
del
Tevere.
Nel
396
a.C.,
dopo
un
assedio
durato
dieci
anni, Veio
fu
la
prima
delle
città
etrusche
a
cadere
sotto
la
forza
inesorabile
di
Roma.
L’impresa
dalla
sfumature
epiche
che
si
richiama
alla
guerra
di
Troia
fu
condotta
da
Marco
Furio
Camillo.
Se
ci
si
avventura
nella
stessa
stagione
della
scoperta,
lungo
il
sepolcro
scavato
nella
terra
tufacea,
nella
parte
più
elevata
dell’altura
che
sfuma
sul
corso
delle
acque
sonanti
del
Crèmera,
dalla
strada
principale
si
arriva
dal
lato
opposto
dell’ampio
dromos
(corridoio)
dove
procedendo
sull’inclinazione
di
una
dolce
collina,
rapidi
e
improvvisi
saettano
in
volo
uccelli
custodi
delle
tombe.
Infine
si
attende
trepidanti
che
le
porte
dell’oltretomba
vengano
dischiuse
dal
custode
e i
catenacci
tintinnanti
disciolti;
non
ci
si
avvede
però
che
il
corpo
si
riempie
improvvisamente
di
moscerini,
respingimento
o
forse
difesa
dei
principi
etruschi
contro
la
profanazione
del
loro
eterno
riposo
tra
gli
immensi
campi
di
grano
falciato
e le
imponenti
auree
balle
di
fieno
che
si
stagliano
e si
confondono
coi
grandi
tumuli
di
Monte
Aguzzo
e di
Vaccareccia
a
nord
della
necropoli
villanoviana
di
Grotta
Gremiccia.
Al
momento
della
scoperta,
il
suolo
del
sepolcro
(quest'ultimo, scavato
a
circa
tre
metri
di
profondità,
presentava
un impianto
a
camera
rettangolare)
era
coperto
da
uno
spesso
strato
di
terra
fangosa,
mista
a
porzioni
di
tufo
dipinto
in
ocra
caduto
dal
soffitto,
mentre
sul
pavimento
si
distinguevano
frammenti del
corredo,
resti
di
lamine
metalliche,
chiodi
di
bronzo
e
parti
di
legno.
Già
in
epoca
antica sarebbero
avvenuti
alcuni
trafugamenti
relativi
ai
reperti
più
preziosi.
Della
ricca
suppellettile
originaria
si
sono
salvati
alcuni
frammenti
in
ceramica
i
cui
motivi
decorativi
geometrici
si
riflettono
direttamente
sulla
pittura
parietale
del
sepolcro.
Il
miracolo
di
queste
pitture,
che
ci
riportano
agli
incunaboli
della
storia
della
pittura
raccontata
da
Plinio
il
Vecchio,
sorta
dall’equilibrio
di
una
chiara
e
lieve
linea
di
contorno,
è
nella
loro
lunga
durata
e
conservazione.
Il
tempo
distruttore
infatti,
nonostante
i
ventisette
secoli,
non
ha
intaccato
le
pitture
grazie
alle
condizioni
ideali
di
umidità
dell’ambiente
argilloso
e
alla
tecnica
pittorica
utilizzata
all’epoca
della
realizzazione.
Le
pareti
è il
soffitto
sono
state
accuratamente
rese
piane
e
lisce
durante
la
preparazione
pittorica
con
strumenti
che
hanno
lasciato
segni
netti
e
distintivi.
Mentre
nel
soffitto
è
stata
stesa
da
subito
una
campitura
rosso
ocra,
le
pareti
sono
state
preparate
con
uno
strato
di
farina
fossile
prima
di
dipingere
le
figure.
Proprio
in
virtù
di
questa
sostanza
che
esercita
un’azione
agglutinante,
i
colori
si
sono
conservati
tuttora,
resistendo
all’azione
dilavante
e
corrosiva
dell’umidità.
Lasciando
a
malincuore
la
piccola
tomba
alle
nostre
spalle,
tra
l’ossessivo
canto
delle
cicale
–
le
sole
padrone
dell’ora
–
intravediamo
per
un'ultima
volta
la
fisionomia
immortale
dei
volatili
che
si
chiudono
nell’eterna
linea
di
contorno,
tra
l’ombra
di
due
semplici
colori:
il
rosso
e il
nero.