In Israele ci sono
stato diverse volte. Ho percepito le difficoltà di
vita del mondo palestinese ma, come dovere tornando
nel mio paese, ho sentito quello di cercare di
comprendere che cosa significasse per un paese con
un numero inferiore di abitanti come Israele, vivere
costantemente con la paura di sparire.
Talvolta certamente
questo timore può esser stato più una percezione che
un pericolo reale, ma il sentimento dell’en brerà,
cioè la percezione dell’assenza di ogni alternativa
e della necessità di difendersi come un’isola
circondata da un mare di nemici pronti a
distruggerla, ha non pochi fondamenti storici.
Molto oggi si parla
della vita del popolo palestinese e delle
problematiche che il muro causa alla loro vita. Mi
riesce difficile però comprendere come non si riesca
a capire come mai si sia arrivati a questa
situazione drammatica.
Nel 1993 e nel 1995
due importanti accordi internazionali permisero ai
palestinesi di autogovernate le loro città
principali. Per questo accordo storico Rabin fu
ucciso. Nel 2000 Barak, a Sharm el Sheik, accettò di
cedere il 96% del Territorio conquistato nel 1967
(una guerra che Israele fu costretta ad anticipare
evitando così di essere colta di sorpresa dai suoi
nemici confinanti) e di dividere Gerusalemme. La
risposta fu praticamente un secco no. Non solo.
Dall’inizio del nuovo millennio una serie di
attentati kamikaze sconvolse Israele e provocò
centinaia di morti.
L’idea del muro di
separazione nacque addirittura dal mondo pacifista
nella consapevolezza che ad una incapacità di
dialogare, per un periodo almeno, fosse preferibile
una separazione netta. Certamente il muro ha creato
non poche difficoltà. Ricordo però che, ben prima
della sentenza non vincolante della Corte dell’Aja
(una sentenza che, per l’incapacità del diritto
internazionale di prendere atto del fenomeno del
terrorismo suicida e di ciò che esso implica per uno
Stato, non ha tenuto conto delle riserve di
Israele), la Corte Suprema israeliana aveva imposto
una modificazione del tracciato sulle linee del
1967.
Certamente questo è
solo un palliativo e le problematiche per il popolo
palestinese persistono. Credo però che bisognerebbe
interrogarsi bene sul perché di questi drammi. E’
troppo facile incolpare quello che all’apparenza
appare il più forte.
La distruzione di
Israele è stata nello statuto dell’Olp sino al 1993.
Nello statuto di Hamas l’obiettivo che ci si propone
non è solo quello di riprendere tutta la Palestina
ma, cosa che al Ministro degli Esteri italiano e ad
altri non piace vedere e menzionare, l’eliminazione
di tutti gli ebrei in attesa del giudizio
universale. Il ritiro da Gaza del 2004 ha dimostrato
che in fondo il problema principale non risiedeva
nella guerra tra Israele e palestinesi, ma nella
stessa società palestinese.
Il controllo del
territorio e dei finanziamenti internazionali era
l’obiettivo primario. Non dimentichiamo che per
anni, giustamente, l’Anp ha ottenuto ingenti
finanziamenti per la società palestinese e il
risultato è stato corruzione e fame. Arafat teneva
la moglie a Parigi in alberghi di lusso e la sua
gente, tra le condanne dell’Onu a Israele, moriva
per la strada.
So bene che oggi nella
società palestinese la disoccupazione e la
difficoltà di mobilità stà causando gravissimi
problemi. Qui poco c’entra però la predicazione
contro Israele affinché non attui politiche di
ghettizzazione. La verità è che, nonostante tutti i
torti di Tel Aviv, nessuno Stato potrebbe mai
accettare di permettere al nemico (perché di una
guerra di tratta se l’abbiamo dimenticato) la libera
circolazione, quando questo prosegue con azione
suicide anche dopo accordi di pace. A meno chè certo
non si creda che, in considerazione del fatto che
gli ebrei sono stati massacrati nella storia,
debbano continuare a lasciarsi uccidere per far
felice l’Europa.
Forse Hezbollah, Hamas,
la Siria o l’Iran non bastano a giustificare un
senso di paura e isolamento? Le risposte
internazionali le conosciamo: belle parole e soldi.
Peccato che però, per anni, quei soldi siano serviti
a stampare libri di scuola dove si inneggiava alla
Jiahad e all’odio religioso.
Pochi mesi fa il
rappresentante del Vaticano in Palestina ha
lamentato l’impossibilità dei cristiani palestinesi
di professare liberamente la loro religione per la
presenza di fondamentalismo islamico. Sarebbe oggi
magari l’ora di cominciare a vedere i fantasmi lì
dove ci sono, e non solo lì dove è un classico
immaginarli. Non basta osservare un bambino che
piange e un soldato con un mitra per capire chi ha
torto o ragione. Ha volte non si sceglie di
indossare una divisa per anni, ci si è costretti.
Questo non toglie il
fatto che Israele debba interrogarsi su se stessa.
Sono profondamente convinto che un ritiro dalla
Cisgiordania insieme alla fine della costruzione
della barriera difensiva siano necessari. Israele si
deve concentrare sui pericolo imminenti (Sira, Iran,
Hezbollah e Hamas) ritirandosi in un territorio
sicuro e facilmente difendibile, come prima del
1967. Gerusalemme e il problema dei profughi
dovrebbero essere lasciati ad un negoziato finale
con la parte palestinese (ovviamente una parte che
riconosca Israele).
Alla Comunità
Internazionale e ai nostri osservatori sta il
compito di rimembrarsi che Israele è solo la punta
più avanzata dell’iceberg. Cellule dormienti
terroristiche proliferano nei nostri paesi.
Chissà che non si
debba imparare qualcosa, magari come far fronte alla
paura di morire senza cancellare i valori
democratici. Israele, con tutti i suoi ma, è una
democrazia che assicura libertà che in nessun paese
dell’area (o territorio) sono garantite. Se avesse
voluto avrebbe potuto, Israele si al contrario dei
palestinesi, fare “mambassa” dei suoi nemici. Una
soluzione alla cecena insomma, eppure siamo ancora
qui a parlare di questo conflitto. Della Cecenia
invece mi sembra non si parli più.
Della retorica araba
poi verso i palestinesi non ritengo sia utile
parlare. Se non fosse nato Israele, la Palestina
sarebbe stata spartita tra Egitto, Siria e
Giordania. Ancora oggi nessuno di questi paesi,
tranne la Giordania, ha concesso la cittadinanza al
popolo che quotidianamente difende. Se questa è
solidarietà…