N. 11 - Novembre 2008
(XLII)
Tra
il Vaticano e
Berlino
i rapporti tra
Chiesa e Nazismo
di
Lawrence M.F.
Sudbury
Sulla natura dei rapporti tra Chiesa Cattolica e regime
nazista sono stati versati fiumi d'inchiostro e,
tuttavia, alla luce delle continue “nuove rivelazioni”,
della continua emersione di nuovi documenti dal “mare
magnum” dell'oblio rappresentato dai vari Archivi di
Stato e, soprattutto della persistente discordanza
sull'interpretazione di pressoché ogni oggettivo dato
storico da parte di studiosi di diversa matrice
ideologica, tale natura appare, oggi come cinquant'anni
fa, ancora tutta da analizzare.
Le ragioni di tali incertezze, che rendono quella delle
relazioni tra Berlino e Vaticano una storia ancora tutta
da scrivere, risiedono chiaramente nella natura stessa
del “vulnus” che una eventuale collaborazione tra la
maggiore denominazione cristiana del mondo e una delle
più feroci dittature della storia dell'umanità potrebbe
infliggere all'immagine della Chiesa nell'animo di molti
fedeli, un “vulnus” di cui molti detrattori del papato
tendono a ingigantire le dimensioni e di cui molti
storici cattolici, al contrario, tendono a negare
l'esistenza.
Forse, però, una seconda ragione della difficoltà nel
trarre conclusioni anche parziali ma almeno unanimemente
accettate come oggettive su una questione tanto delicata
sta nel modo in cui si tendono a leggere i termini della
questione: Chiesa cattolica e stato nazista vengono
spesso analizzati come se si trattasse di blocchi
uniformemente omogenei e compatti, schieramenti le cui
posizioni politiche (per quanto riguarda la Chiesa) e
spirituali (per quanto riguarda i vertici nazisti)
dovessero forzatamente risultare lineari e quasi
dogmatiche, quando, in realtà, all'interno di ciascuno
dei due soggetti della relazione, le posizioni potevano
variare grandemente da esponente ad esponente e, anche
all'interno del pensiero di singoli esponenti, da
periodo a periodo, risultando in un quadro tutt'altro
che preciso e univoco, ma, al contrario, dai contorni
fortemente frastagliati.
Da qui nasce la necessità di una ricognizione attenta
all'analisi di tali variazioni, capace di attribuire in
modo più corretto posizioni e azioni, senza per questo
sviluppare giudizi troppo netti e trancianti su
questioni che devono essere osservate anche alla luce
della delicatissima situazione sociale, politica e
diplomatica coeva.
E' il caso, dunque, di concentrare tale ricognizione sul
soggetto più “passibile” di giudizi critici forse
affrettati e spesso ideologizzati, la Chiesa cattolica.
Sulla base delle risultanze storiche è possibile
determinare, nel periodo dell'ascesa hitleriana e della
dittatura nazista, almeno tre macro-periodi distinti in
cui, pur con sfumature molto composite, ci è permesso
parlare di orientamenti chiaramente definiti.
Il primo periodo è quello che, all'incirca, corrisponde
alla presa di potere da parte di Hitler e che possiamo
definire, per il papato, il “periodo dell'illusione”.
Si diceva della necessità di inserire gli eventi nella
loro cornice storica per comprenderne le ragioni e,
forse, solo in questo modo è possibile comprendere le
motivazioni per cui la Santa Sede vide nello sviluppo
del regime nazista la nascita di un possibile alleato.
Fondamentalmente, dopo la rivoluzione russa, il
cosiddetto “pericolo bolscevico” risultava al primo
posto nell'agenda delle preoccupazioni pontificie: il
credo marxista si stava rapidamente diffondendo in tutta
Europa, sorretto anche dalle difficoltà economiche
post-belliche e dalla maggior organizzazione raggiunta
dal proletariato e nessuna area europea, dalla Francia
alla Spagna, dall'Italia alla Germania si poteva dire
immune dal “contagio comunistico, materialista ed
ateista”.
Ad opporsi all'ondata marxista sorsero ovunque tre
generi di partiti: i classici partiti liberali, i
partiti conservatori e i partiti della “destra
nazionalista”. Sulla base di comunanze ideologiche e
della necessità di coalizzarsi contro il nemico
bolscevico, furono soprattutto gli ultimi due generi di
formazioni ad unirsi e fare fronte comune, in alcuni
casi rimanendo distinti (come nel caso spagnolo, con
CEDA, Falange e Renovamento Español), in molti altri
casi unendosi sotto le stesse bandiere. Tenendo presente
che uno dei grandi baluardi all'espansione comunista,
conseguentemente, riversandosi nei partiti conservatori,
era la grande massa dei cristiani delle varie
confessioni, non può apparire così strano che, sulla
base del classico “il nemico del mio nemico è mio
amico”, la Chiesa cattolica finisse quasi
inevitabilmente per supportare formazioni di estrema
destra che, a loro volta, chi per convinzione, chi per
convenienza, “corteggiavano” il Vaticano.
Il risultato fu quella strana (e, a tratti, paradossale)
alleanza che alcuni storici arrivano a definire
“Internazionale Nera”, con Papa Pio XI che,
nell'enciclica Quadragesimo Anno, sponsorizza
piuttosto apertamente gli stati fascisti (eufemisticamente
defini “corporativistici”) e con i cattolici che
aderiscono in massa, seppur a titolo più che altro
personale, a formazioni che porteranno alla morte della
democrazia in Austria (si pensi al ruolo del Cardinal
Innitzer, amico personale di Hitler e del fanatico
cattolico Seyss-Inquart nell'Anschluss del 1938), in
Spagna (dove Franco parlerà apertamente di una sua
“quinta colonna” pretesca a Madrid) e in Ungheria e
Romania (con l'ultra-cattolicesimo delle “Croci
Frecciate” e dei “Legionari” di Codreanu), che
sviluppano, nel corso della guerra, il più aperto
collaborazionismo all'invasione tedesca (ad esempio con
il cattolicesimo integralista del maresciallo Petain o
del generale Weygand) o che, addirittura, creano
compagini para-fasciste come gli “Ustasha” di Ante
Pavelić (in cui, in gran parte, confluirono i giovani
dell'Azione Cattolica croata) o le “Hlinkova Garda” del
“pacelliano” padre Hlinka (che, con il loro separatismo
slovacco dallo stato laico della Cecoslovacchia di Benes,
favorito dal Nunzio Apostolico, poi espulso per questo
dal paese nel 1933, favorirono l'indebolimento della
nazione e la successiva facile annessione germanica, con
la creazione della repubblica-fantoccio slovacca retta,
guarda caso, da monsignor Tiszo).
Per quanto riguarda espressamente la Germania nazista,
in cui, dal 1920 al 1929, era stato Nunzio il
tenacemente anti-bolscevico arcivescovo Eugenio Pacelli,
che, ovviamente, avremo modo di rincontrare come Pio XII,
il coinvolgimento vaticano e, più genericamente,
cattolico nel regime nazista si esplica espressamente in
due momenti fondamentali: le “Leggi sui Pieni Poteri” e
il Concordato.
Per quanto riguarda le “Leggi sui Pieni Poteri” del 23
marzo 1933, le responsabilità storiche dei cattolici e,
alle loro spalle, del Vaticano sono piuttosto chiare,
soprattutto per quanto riguarda la posizione del Zentrum.
Durante la seconda metà degli anni '20, il Zentrum (il
partito centrista dei cattolici tedeschi) si era spesso
trovato in posizioni di aperta ostilità verso l'NSDAP
ma, come Hitler stesso ebbe modo di scrivere, tali
scontri erano legati a diverse posizioni politiche e non
riguardavano alcun insegnamento religioso (anzi, in quel
periodo, i nazisti si presentavano come campioni della
lotta all'ateismo bolscevico). Nel marzo 1933, dopo
l'incendio del Reichstag e la messa al bando del KPD (il
partito comunista tedesco), il governo nazista propose
al parlamento una serie di disposizioni che avrebbero
permesso ad Hitler di creare nuove leggi anche senza
l'approvazione del parlamento, aprendo la strada alla
dittatura. Per passare, le “Leggi sui Pieni Poteri”
avevano bisogno dell'approvazione di 2/3 del parlamento,
una percentuale ottenibile solo attraverso i voti
proprio del Zentrum. Il partito era titubante ma il suo
leader, Monsignor Kaas, pare dopo un lungo colloquio con
l'amico Cardinal Pacelli (nel frattempo divenuto
Segretario di Stato Vaticano), decise per un voto a
favore della nuova legge, anche dopo che il futuro
führer, nel suo discorso introduttivo al parlamento,
aveva fortemente rimarcato come la ideologia nazista
avesse come base storica la fede cristiana. Di fatto, il
risultato delle votazioni fu una sorta di plebiscito a
favore delle leggi liberticide, con il solo SPD che votò
contro: in questo modo, sin dall'inizio del suo mandato,
Hitler pose le basi del suo ruolo dittatoriale, con il
pieno avallo dei cattolici tedeschi.
Il momento di massima “collaborazione” tra Vaticano e
Germania hitleriana si ebbe, comunque, con la firma del
“Reichskonkordat”. Durante il periodo weimariano i
rapporti tra Germania e Santa Sede si erano fatti
progressivamente sempre più tesi, senza che il Nunzio
Pacelli riuscisse a far passare un documento d'intesa
globale tra i due stati. Divenuto Segretario di Stato
(giugno 1930), Pacelli non abbandonò i suoi tentativi di
sviluppare un Concordato sullo stile di quello firmato
con l'Italia fascista, ma l'opposizione di socialisti e
protestanti riguardo allo sviluppo di scuole
confessionali e alla presenza di cappellani cattolici
nelle forze armate aveva frustrato le sue speranze
(nonostante alcuni incontri preliminari tenuti nel
1932). Il 30 gennaio 1933, con il cancellierato affidato
ad Adolf Hitler, la situazione mutò radicalmente: i
nazisti avevano bisogno di ottenere riconoscimento
internazionale e poche cose avrebbero potuto dar loro
prestigio quanto l'apertura di un canale privilegiato
con il papato. Dopo aver assicurato a Kaas che avrebbe
provveduto all'apertura di scuole cattoliche in tutta la
Germania e che avrebbe sempre mantenuto buoni rapporti
con la Santa Sede, Hitler inviò a Roma il suo vice
cancelliere Franz Von Papen (nobile cattolico, ex-membro
del Zentrum) che, con l'appoggio di Kaas stesso e di
Pacelli, si offrì di negoziare un Concordato.
Il risultato delle trattative fu, appunto, il
Reichskonkordat, firmato il 20 luglio 1933 proprio da
Pacelli e da Von Papen. Il testo dell'accordo,
certamente, era a favore della Germania hitleriana: in
cambio di una generica promessa di libertà e protezione
della Chiesa cattolica e della possibilità per la Chiesa
di tassare i propri fedeli, i nazisti ottenevano la fine
di ogni interferenza politica dei cattolici
(paradossalmente con l'abolizione, tra l'altro, proprio
del Zentrum di Kaas), un giuramento di fedeltà da parte
di tutti i vescovi tedeschi, l'impegno che tutti i
sacerdoti sul suolo germanico fossero solo di sangue
tedesco e limitazioni all'azione delle organizzazioni
cattoliche. Nonostante questo evidente sbilanciamento,
Pacelli scrisse sull'“Osservatore Romano” che il
Vaticano aveva ottenuto: “non solo il riconoscimento
ufficiale della legislazione della Chiesa, ma anche
l'adozione di molti elementi di tale legislazione e la
protezione della legislazione ecclesistica”.
Evidentemente le cose non andarono esattamente come il
Segretario di Stato aveva previsto, dal momento che
proprio il Concordato segnò l'inizio delle tensioni tra
Vaticano e regime nazista e l'avvento di quello che
possiamo definire il “secondo periodo” dei rapporti tra
Hitler e papato.
Intendiamoci, come accennato parlando della non
monoliticità delle posizioni ecclesiastiche, resistenze
a titolo personale erano già state presenti in
precedenza: già nel settembre 1930 il vescovo di Magonza
aveva pubblicato alcune norme che avevano come scopo
l'impedire che i cattolici fossero contagiati dal
nazionalsocialismo (norme, per altro, aspramente
criticate da alcuni suoi confratelli) e nella Conferenza
Episcopale dei Vescovi Prussiani dell'agosto 1932 si era
parlato del movimento nazionalsocialista come di un
“pericolo per le anime”, ma la grande “svolta” si ebbe
proprio quando fu evidente che Hitler era tutt'altro che
interessato a mantener fede ai patti firmati dal suo
vice-cancelliere.
Due elementi giocano un ruolo di particolare importanza
in questo periodo: le continue violazioni del
Concordato, in particolare del suo articolo 31 relativo
alla libertà religiosa dei cattolici, da parte del
regime nazista (tra 1933 e 1939 si contano più di 45
proteste ufficiali Vaticane contro tali violazioni, tra
le quali l'uccisione di Erich Klausener, leader
dell'Azione Cattolica tedesca, durante la “Notte dei
Lunghi Coltelli”) e, soprattutto, la posizione di Pio XI
nei confronti delle teorie razziste ed eugenetiche
hitleriane. Già nell'aprile 1933, prima ancora della
firma del Concordato, il Papa aveva disapprovato le
teorie razziste antisemite, che, d'altra parte, aveva
ripudiato (insieme all'anti-giudaismo cristiano) già a
partire dall'enciclica Casti Connubii.
Al di là delle continue limitazioni hitleriane alla vita
della Chiesa in Germania, probabilmente la goccia che
fece traboccare il vaso fu la legge sulla
sterilizzazione obbligatoria dell'ottobre 1933 che
sollevò vivissime critiche da parte di tutto
l'episcopato tedesco, il quale riuscì, proprio con
l'appoggio vaticano, a far almeno mitigare i termini del
regolamento di applicazione della legge, pubblicato il 5
dicembre 1933. Da quel momento in poi, si può
tranquillamente affermare che l'idillio (sempre che di
idillio e non di necessità politica si sia mai trattato)
tra papato e nazismo si rompa e che i rapporti si
inaspriscano sempre di più.
Due sono i momenti di massimo picco della tensione:
l'enciclica Mit Brennender Sorge del 1937 e la
mancata visita di Hitler in Vaticano del 1938.
Per quanto riguarda l'enciclica pubblicata il 10 marzo
1937, datata 14 marzo, letta in tutte le chiese tedesche
il 21 marzo (domenica delle palme) e divulgata alla
stampa il giorno successivo, essa fu indirizzata ai
vescovi tedeschi, ed eccezionalmente redatta in tedesco
per facilitarne la diffusione e la lettura nelle chiese
della Germania.
Il testo è incentrato (come recita il sottotitolo) sulla
“situazione religiosa nel Reich tedesco” e deplora le
violazioni del Concordato del 1933, condannando la
dottrina nazionalsocialista come fondamentalmente
anticristiana.
In particolare, il documento condanna in chiari termini
il culto della razza e dello stato, definendoli
perversioni idolatriche e dichiarando “folle” il
tentativo di imprigionare Dio nei limiti di un solo
popolo e nella ristrettezza etnica di una sola razza,
ribadendo che tutte le nazioni sono come piccole gocce
in un catino d'acqua davanti a Dio. In un punto, si
arriva addirittura a definire Hitler (senza menzionarlo
direttamente) “inimicus homo” (uomo nemico),
affermando che egli aveva in realtà già avuto in mente
di non rispettare i patti, non avendo altro scopo se non
una lotta fino all’annientamento della Chiesa attraverso
la campagna “dell’odio, della diffamazione, di
un’avversione profonda, occulta e palese, contro Cristo
e la sua Chiesa, scatenando una lotta che si alimentò in
mille fonti diverse, e si servì di tutti i mezzi”.
La Mit Brennender Sorge fu una delle prime
encicliche papali che ebbe una risonanza realmente
mondiale, anche se per motivi soprattutto politici; essa
fu uno dei primi atti pontifici che superò le frontiere
del mondo cattolico: fu letta da credenti e non
credenti, da cattolici e protestanti, anzi per la prima
volta questi ultimi tributarono a un documento papale
riconoscimenti pubblici che erano impensabili fino a
poco tempo prima.
Certamente la Mit Brennender Sorge fu recepita
diversamente secondo la sensibilità e la cultura
politica dei tanti che la lessero. Sta di fatto, però,
che essa fu generalmente interpretata non soltanto come
un atto di protesta della Santa Sede per le continue
violazioni del Concordato da parte del Governo tedesco,
o come una sconfessione dottrinale degli errori del
nazionalsocialismo, ma soprattutto come un atto di
denuncia del nazismo stesso e del suo Führer, e questo i
gerarchi del Reich lo capirono immediatamente.
È vero, come è stato più volte sottolineato dai
commentatori dell’enciclica, che essa non menziona mai
né il nazionalsocialismo né Hitler, ma, andando oltre la
superficie “letterale” del documento, è facile cogliervi
dietro ogni periodo, dietro ogni pagina, un autentico
atto di accusa contro il sistema hitleriano e contro le
sue teorie razziste e neo-pagane. In questo senso, essa
rimane una della maggiori e più coraggiose testimonianze
di denuncia della barbarie nazista, pronunciata
autorevolmente dal Vescovo di Roma quando ancora la gran
parte del mondo politico europeo guardava a Hitler con
un misto di ammirazione, sorpresa e paura.
Ovviamente l'enciclica, scritta dal Papa con l'aiuto dei
cardinali Pacelli e von Faulhaber (arcivescovo di Monaco
e Frisinga) e trasmessa segretamente in Germania per non
essere intercettata dalla Gestapo (tanto che alcuni
parroci la nascosero direttamente all'interno dei
tabernacoli), provocò l'ira del führer e dei gerarchi a
tal punto da portare non solo alla proibizione di
divulgazione del documento in Germania, ma anche ad una
recrudescenza delle persecuzioni contro i cattolici: già
nel maggio 1937, 1.100 sacerdoti e religiosi vennero
imprigionati (304 di essi vennero poi deportati nel
campo di concentramento di Dachau nel 1938), le
organizzazioni cattoliche vennero disciolte e
l'insegnamento confessionale venne proibito. Pare che
Hitler in quell'occasione abbia dichiarato: “Inizierò
una tale campagna contro di loro [il clero
cattolico] attraverso la stampa, la radio e il cinema
che neppure capiranno cosa li ha colpiti.. Non creerò
dei martiri tra i preti cattolici: è molto più utile
mostrarli come dei criminali...”.
Così, quando nel maggio 1938 Hitler si recò in visita a
Roma, Pio XI si rifiutò, per rappresaglia, di
incontrarlo, si trasferì a Castel Gandolfo e fece
addirittura chiudere i Musei Vaticani. E' noto che, in
quell'occasione, Pio XI disse: “questo è un giorno
triste per Roma sopra la quale si erge una croce che non
è la Croce di Cristo”, riferendosi alle numerose
svastiche che Mussolini fece esporre a Roma in omaggio a
Hitler, e che, successivamente, mandò addirittura una
nota scritta al duce protestando per gli eccessivi
festeggiamenti tributati al dittatore nazista.
A questo punto, il nuovo rapporto tra Vaticano e Berlino
sembra ben delineato e improntato ad una forte
contrapposizione. Ma qualcosa è destinato a cambiare.
Il 10 febbraio 1939, in circostanze mai completamente
chiarite, Pio XI morì per un attacco cardiaco e il 2
marzo, dopo solo tre scrutini, venne eletto quello che
sembrava essere il suo successore naturale e designato,
il Segretario di Stato e Cardinal Camerlengo Eugenio
Pacelli, che ascese alla Cattedra di Pietro con il nome
di Pio XII.
Con lui si apri una sorta di “terzo tempo” dei rapporti
tra Santa Sede e governo tedesco e il mutamento di rotta
(per quanto non totale) è facilmente comprensibile alla
luce delle differenze caratteriali e di sensibilità
politica rispetto al suo predecessore.
A tal proposito, è interessante leggere quanto scrisse,
tra il 1938 e il 1939, François Charles Roux,
Ambasciatore francese presso il Sacro Soglio, a
proposito dei due papi che ebbe modo di conoscere.
Scrive Roux il 15 maggio '38, dopo essere stato ricevuto
da Pio XI: “Il Santo Padre ha criticato soprattutto
gli eccessi che il governo italiano ha dimostrato nel
rendere omaggio a Hitler durante la sua visita a Roma
(...) Che si spendano somme talmente enormi e si
organizzino manifestazioni cosi' colossali, supera ogni
misura di ragionevolezza e dimostra una certa
sottomissione: queste sono state le parole del pontefice”.
Fin qui, nulla di nuovo: già conosciamo l'avversione di
Papa Ratti per Hitler. Ma, il 24 maggio ' 39, il
diplomatico francese si lancia in un raffronto fra il
Papa da poco scomparso, e il suo successore, Pio XII: “Nella
posizione della Santa Sede mancano quella saldezza,
chiarezza e decisione che sono caratteristiche degli
ultimi anni di regno di Pio XI. Quando pero' la
situazione generale ha reso probabile un imminente
pericolo di guerra Pio XII ha preferito fare passi
diplomatici, senza pubbliche dichiarazioni di principi.
Si spiega così la sua iniziativa di pace presso le
cinque potenze. Sul piano di un' azione di pace, che e'
deciso a proseguire, la sua posizione e' stata prima
dogmatica e poi diplomatica, evitando le proteste
dirette contro questo e quell'avvenimento politico,
dalle quali Pio XI non sempre sapeva trattenersi
[...] La lunga collaborazione con Pio XI non deve
trarre in inganno sulla diversità dei caratteri dei due
principi della chiesa”.
Un uomo che “non sempre sapeva trattenersi”, dunque,
sostituito da un uomo cresciuto nella diplomazia
vaticana, profondo conoscitore della Germania e della
politica nazista e attentissimo alle ripercussioni
politiche di ogni atto e parola proveniente dalla Sede
petrina: lo scarto non poteva essere più netto.
Ed è qui che nascono le maggiori divergenze di
interpretazione storica sulle azioni del papato: a parte
qualche generica dichiarazione di pacifismo quale la
celeberrima “Nulla è perduto con la pace, tutto può
esserlo con la guerra”, l'ex Nunzio Apostolico a
Berlino e ora Vescovo di Roma viene accusato di aver
mantenuto pubblicamente sempre il più rigoroso silenzio
su quanto di criminale stava accadendo in Centro ed Est
Europa prima, e persino nella sua sede vescovile dopo
l'armistizio. Fu un silenzio colpevole o addirittura
connivente?
E' sulla risposta a questa domanda che le opinioni si
spaccano.
Sul banco dell'accusa, il più importante rappresentante
di coloro che ritengono il Papa addirittura “colluso”
con Hitler (una schiera notevole di intellettuali, a
partire da Rolf Hochhuth, che nel 1963 per primo mise in
scena la “codardia” papale nel suo dramma Der
Stellvertreter), è certamente lo storico John
Cornwell, del Jesus College di Cambridge, che nel suo
Hitler's Pope: the Secret History of Pius XII
traccia un ritratto impietoso di un uomo incapace di
prendere posizione, di ammettere i propri errori
precedenti e di denunciare la politica criminale attuata
dai nazisti nei confronti degli ebrei e dei popoli dei
territori occupati e, sostanzialmente, di un feroce
antisemita.
Le principali accuse mosse da Cornwell nel suo testo,
che l'autore dice desunto da documenti dell'archivio
vaticano a cui avrebbe avuto libero accesso, possono
essere riassunti in alcuni punti principali:
1. Pacelli, fin dal 1917, mostra nelle sue lettere un
accesa antipatia per gli ebrei, una antipatia che sembra
andare oltre il comune anti-giudaismo cristiano (quello,
per intenderci, dell'accusa di “deicidio”) per
sfociare, in contraddizione con affermazioni successive
(postbelliche) di “amore per gli ebrei e rispetto per la
loro religione”, in un vero antisemitismo di stampo
quasi genetico. Ciò sarebbe, tra l'altro, stato causato
dalla convinzione che gli ebrei fossero alla base della
rivoluzione bolscevica, che altro non sarebbe stata se
non un grande piano per distruggere il cristianesimo.
Per comprendere i sentimenti di Pacelli verso il popolo
semita, basterebbe leggere una sua lettera come Nunzio
Apostolico scritta al Segretario di Stato Gasparri nel
marzo 1919, in cui, a proposito dell'insurrezione
marxista di Monaco guidata da Eugen Levien, scrive: “La
scena che si presentava al palazzo [del governo
bavarese] era indescrivibile. La situazione
totalmente caotica, il sudiciume completamente
nauseante; soldati e lavoratori armati andavano e
venivano; l'edificio, un tempo dimora di un re,
risuonava di urla, linguaggio scurrile, bestemmie. Un
inferno assoluto. Un esercito di impiegati si muoveva in
ogni dove lanciando ordini, sventolando pezzi di carta
e, nel mezzo di tutto questo, una banda di giovani
donne, di dubbio aspetto, ebree come tutti gli altri,
che si aggirava in tutti gli uffici con movenze
provocanti e sorrisi ammiccanti. A capo di esse vi era
la donna di Levien, una giovane russa, un'ebrea e una
divorziata, che le comandava. E' stato a lei che la
Nunziatura ha dovuto porgere omaggio per poter entrare.
Questo Levien è un giovane uomo, tra i 30 e i 35, anche
lui russo ed ebreo. Pallido, sporco, con occhi vacui,
voce roca, volgare, disgustoso, con un volto allo stesso
tempo intelligente e scaltro”;
2. Pacelli conosceva certamente le posizioni antisemite
di Hitler (per altro chiaramente espresse nel Mein
Kampf già dal 1925-26) ma, durante le trattative per
il Concordato, le definì un “affare interno” dello stato
tedesco. In questo modo, aiutato anche dal suo
fedelissimo amico Monsignor Kaas, favorì lo sviluppo di
un clima ideale per la persecuzione ebraica. Tra
l'altro, come Segretario di Stato, non intervenne
minimamente per impedire il processo con cui il clero
cattolico collaborò nella “certificazione razziale”
volta all'identificazione degli ebrei;
3. Dopo la pubblicazione della Mit Brennender Sorge,
Pacelli cercò continuamente di mitigare gli effetti
dell'enciclica tramite rassicurazioni diplomatiche
personali a Berlino, nonostante conoscesse perfettamente
la situazione delle incredibili persecuzioni
anti-ebraiche del regime nazista, più volte riportategli
da vescovi e membri del clero tedesco;
4. Pio XII mostrò sempre, fin dall'inizio del suo
pontificato un ossequio abnorme per Hitler, tanto che,
tra la sua elezione e le sua incoronazione, incontrando
i cardinali tedeschi, mostrò loro un biglietto di auguri
che voleva inviare al führer, che iniziava con la frase
“All'illustre Signor Adolf Hitler”, chiedendo il
loro parere se fosse il caso di indirizzarlo “All'illustrissimo
Signor Adolf Hitler”. Sempre nella stessa occasione,
il neo-pontefice disse che, sebbene Pio XI volesse
ritirare il Nunzio da Berlino, egli riteneva questa
mossa un errore e desiderava mantenere normali relazioni
diplomatiche con Hitler. Il mese seguente, dietro
espresso desiderio di Pacelli, il Nunzio a Berlino,
Arcivescovo Cesare Orsenigo, organizzò una cena di gala
in onore del cinquantesimo compleanno di Hitler: gli
auguri del Nunzio a nome del Papa per il compleanno del
führer divennero una tradizione mantenuta fino al
termine della guerra;
5. Pio XII non disse una parola nel settembre 1939,
quando la Polonia venne invasa, nonostante gli Alleati
chiedessero a gran voce un suo intervento. La sua
successiva enciclica Summi Pontificatus, che
riporta quello che doveva essere il programma del suo
regno, contiene, sull'argomento, frasi talmente oscure e
retoriche da risultare sostanzialmente incomprensibili
ai più. In compenso, dal 1941 in poi, il papato sostenne
attivamente il regime di Ante Pavelić in Croazia,
nonostante gli orrori della pulizia etnico-religiosa
contro Ortodossi, Ebrei e Zingari, tanto da ricevere il
capo degli Ustasha in Vaticano un mese dopo un noto
massacro di ortodossi, complimentandosi per la sua opera
di evangelizzazione;
6. l'accusa più grave riguarda certamente la Shoa.
Pacelli sapeva dei piani di sterminio nazisti già dal
gennaio 1942 e durante tutto quell'anno ricevette
informazioni sulle deportazioni nei lager dai
diplomatici francesi, inglesi e americani residenti in
Vaticano. Il 17 marzo 1942, i rappresentanti delle
Organizzazioni Ebraiche riuniti in Svizzera inviarono un
dettagliato memorandum (poi escluso dai documenti
pontifici pubblicati tra 1965 e 1981) al Papa attraverso
il Nunzio a Berna e implorarono un intervento della
Santa Sede per bloccare le deportazioni di ebrei in
Slovacchia, Croazia, Ungheria e Francia, un intervento
che non ci fu mai (a parte una lettera a Monsignor Tiszo,
presidente slovacco, che “rallentò” la persecuzione).
Nello stesso mese, una serie di dispacci riguardanti la
sorte di circa 90.000 ebrei dell'Est europeo giunsero in
Vaticano, ma anche in questo caso il silenzio papale fu
“assordante”. Nel settembre 1942, Roosevelt mandò
addirittura un suo rappresentante personale, Myron
Taylor, a chiedere al Papa una dichiarazione sullo
sterminio ebraico ma Pacelli, affermando di dover
rimanere “super partes”, si rifiutò di intervenire. Il
18 dicembre 1942, Francis d'Arcy Osborne, inviato
britannico, passò al cardinal Tardini, vice Segretario
di Stato, un dettagliatissimo dossier sulle deportazioni
e i massacri di ebrei in tutta Europa e, finalmente, il
24 dicembre, nel suo messaggio radio della Vigilia di
Natale, Pio XII, facendo voti che la società civile
sapesse ritornare all'immutabile centro di gravità della
legge divina, osò affermare: “L'umanità eleva voti
per quelle centinaia di migliaia che, senza colpa,
talora solo a ragione della loro nazionalità e razza,
sono trascinati a morte o verso una graduale estinzione”:
pur essendo questa la più forte denuncia papale della
“soluzione finale”, il tono evasivo, la non menzione di
ebrei e nazisti, la chiara intenzione di volersi
unicamente sbarazzare delle continue pressioni alleate,
rendono questo messaggio del vicario di Cristo riguardo
al più grande crimine della storia semplicemente
scandaloso;
7. Anche in qualità di Vescovo di Roma, l'operato di Pio
XII non può che sollevare numerosi dubbi, in particolare
quando, tra settembre e ottobre 1943, il Papa risultava
essere la sola autorità presente nella “città eterna”.
La possibilità di salvaguardare le centinaia di ebrei
ancora presenti nel ghetto non pare averlo neppure
sfiorato. Quando, il 16 ottobre, le truppe di Eichmann
rastrellarono il ghetto, persino l'ambasciatore tedesco
e alcuni comandanti della Wermacht chiesero al Papa di
sollevare una protesta popolare contro le SS, ma Pacelli
rifiutò e, successivamente, si giustificò con
l'incaricato d'affari americano Harold Tittmann
affermando di aver temuto che sollevare una protesta
popolare avrebbe avvantaggiato il partigiani comunisti.
Nel frattempo, più di mille ebrei romani venivano
deportati ad Auschwitz, mentre il Vescovo di Roma
desiderava mantenere l'occupazione nazista della città
fino alla liberazione da parte degli Alleati. In
compenso, alla morte di Hitler, l'arcivescovo di Berlino
Adolf Bertram ordinò a tutti i preti della sua
arcidiocesi di “tenere una solenne messa di requiem
in memoria del führer”.
Fin qui, si diceva, il quadro accusatorio: un quadro
sconvolgente per ogni cristiano e, a dire la verità,
forse per ogni essere umano. La presenza di
collaborazionisti e nazisti all'interno del clero
cattolico è, sulla base dell'anticomunismo e
dell'anti-giudaismo viscerale di alcuni prelati, un dato
storicamente accertato (dal vescovo Alois Hudal, uno dei
più attivi, nel dopoguerra, nel favorire la fuga in Sud
America di criminali nazisti con passaporti vaticani, al
frate Miroslav Filipović-Majstorović, comandante del
campo di sterminio ustasha di Jasenovac), ma è
certamente impressionante pensare che il vicario di
Cristo possa aver anche solo marginalmente fatto parte
di questa esecrabile schiera.
Bisogna, però, fare molta attenzione: quella di Cornwell
(e, si ripete, di molti altri con lui) è solo una delle
posizioni ed interpretazioni possibili riguardo al
papato di Eugenio Pacelli, anzi, forse la più estrema
tra le posizioni “anti-papiste”, ampiamente screditata
da molti altri storici, sia cattolici che non-cattolici.
Forse la miglior difesa dell'operato di Pio XII è stata
scritta (e, alla luce delle rivelazioni di Cornwell,
sembrerebbe addirittura paradossale) da un rabbino,
David G. Dalin, che, nel suo The Myth of Hitler's
Pope: Pope Pius XII and His Secret War Against Nazi
Germany, racconta, su ampia base documentale, una
storia ben diversa da quella dello storico britannico.
Brevemente, le tesi di Dalin possono essere esposte come
segue.
Fondamentalmente, il Vaticano doveva confrontarsi con un
vero e proprio attacco frontale contro la chiesa
cattolica tedesca ed era proprio di questo attacco che
il papato aveva più paura. Quando Pacelli fu eletto, ben
sapeva che era impossibile fidarsi di Hitler, come
dimostra una sua nota rinvenuta presso il Ministero
degli Esteri britannico in cui il nuovo Papa scrive: “Nessuna
firma del presente governo tedesco vale più della carta
su cui è tracciata”. L'ostilità di Pacelli verso il
nazismo era, in effetti, ben nota, tanto che, al momento
della sua elezione, il quotidiano dell'NSDAP Der
Angriff, uscì con un articolo in cui si ipotizzava
una sua “crociata contro gli stati totalitari”,
ma, per comprendere la situazione in cui Papa Pacelli si
era venuto a trovare, basta leggere le sue parole quando
gli fu proposto di non ricevere l'ambasciatore tedesco
dopo la sua incoronazione: “Che altro posso fare? Lo
devo trattare amichevolmente. Non c'è altra possibilità.
Rompere le relazioni diplomatiche è facile. Ma per
ricostruirle... Dio solo sa che concessioni dovremmo
fare”. Che Pio XII conoscesse bene gli obiettivi
nazisti è dimostrato da una lettera al vescovo Von
Preysing del 30 aprile 1943: “E' stata per Noi una
grande consolazione apprendere the i cattolici, in
particolare quelli della diocesi di Berlino, abbiano
dimostrato una tale carità verso coloro che soffrono tra
i cosiddetti non Ariani nella loro afflizione.
Esprimiamo la Nostra paterna gratitudine e profonda
simpatia per Monsignor Lichtenberg che ha chiesto di
condividere la sorte degli Ebrei nei territori sotto il
controllo tedesco [...] E' superfluo dire che il
Nostro amore e la Nostra paterna sollecitudine verso i
Cattolici non Ariani o semi-Ariani sono tanto maggiori
ora che le loro esistenze sono poste a rischio e che
conoscono tali tribolazioni. Sfortunatamente [...]
non possiamo portare loro altro aiuto che quello
delle Nostre preghiere. Siamo, comunque, determinati a
levare di nuovo la Nostra voce a loro favore, qualora le
circostanze lo richiedano o lo permettano.”
Perché, allora, il Papa non “levò” mai quella voce,
chiudendosi in un silenzio che anche così tanti credenti
ritengono colpevole? In realtà, Pio XII ben sapeva che
nessun attacco sarebbe mai stato udito i Germania e che
il solo risultato che avrebbe ottenuto sarebbe stato
quello di portare a misure ancora più repressive per i
cattolici tedeschi. Per altro, il Concordato con la
Germania, così come i Patti Lateranensi con l'Italia,
vietavano ogni intervento clericale in materia politica
e la prima responsabilità del Papa era la cura dei
cattolici: pur ritenendosi sicuro dal punto di vista
personale, egli temeva possibili rappresaglie contro
innocenti per sue affermazioni contrarie al regime
hitleriano, cosicché era costretto ad esprimersi
attraverso frasi a tratti sibilline, ma capaci di
mandare messaggi a chi volesse comprenderle a fondo. Un
esempio in tal senso è dato da un brano della Summi
Pontificatus in cui la condanna dell'invasione della
Polonia risulta piuttosto evidente: “Il sangue di
innumerevoli esseri umani, inclusi molti civili grida di
dolore, in una razza così amata da Noi, come quella
polacca, la cui saldezza nella fede al servizio di
Cristo è scritta a lettere indelebili nel libro della
storia, dando loro il diritto di invocare la fraterna
compassione di tutto il mondo”. Allorché si rese
necessario un intervento più diretto, esso fu fatto
attraverso la Radio Vaticana, attraverso la quale i
polacco furono definiti un popolo “che vive in
uno stato di terrore e brutalizzazione” e che portò
immediatamente a veementi proteste da parte
dell'ambasciatore tedesco in Vaticano e presso il Nunzio
apostolico a Varsavia.
La Radio Vaticana, comunque, continuò costantemente ad
informare sulle atrocità commesse in Polonia per tutta
la guerra, sebbene, nel 1943, si arrivasse ad un punto
tale di terrore che il Cardinal Sapieha ordinò ai suoi
prelati di non tentare neppure di far passare notizie in
Vaticano per il rischio che potessero essere
intercettate dalla Gestapo, portando ad ulteriori
rappresaglie. Nel giugno dello stesso anno, in ogni
caso, il Papa denunciò la situazione in un “discorso ai
cardinali” trasmesso via radio (sebbene le trasmissioni
venissero oscurate in Germania, nella Francia occupata e
in buona parte dell'Italia) e poi fatto circolare
clandestinamente in Polonia in 50.000 copie.
L'odio di Pacelli per i nazisti è provato anche da un
suo messaggio al ministero degli esteri britannico del
gennaio 1940 in cui il Vaticano informava il governo
inglese di un piano di alcuni generali nazisti per
rovesciare Hitler. Il Foreign Office non gli credette e
così, il mese successivo, il Papa fece inviare un
documento più dettagliato in cui si fornivano i nomi dei
congiurati e si richiedeva agli Alleati di appoggiarli:
purtroppo, ancora una volta, i funzionari britannici non
diedero seguito alla cosa.
Lo stesso odio è ben visibile nella serie di telegrammi
che Pio XII inviò ai governanti di Belgio, Olanda e
Lussemburgo quando questi paesi vennero invasi: in essi
il Papa prega perché tali nazioni possano essere
restituite ad una “piena libertà e indipendenza”.
Certo, tutte queste ci possono sembrare solo mere
dichiarazioni pietistiche senza valore, ma bisogna
comprendere a quali limitazioni Pacelli era sottoposto.
Sebbene arrivasse a confessare a Monsignor Montini, il
futuro Paolo VI, che: “Noi vorremmo lanciare parole
di fuoco contro tali azioni e la sola cosa che Ci
trattiene è la paura di rendere la sorte delle vittime
ancora peggiore”, il Papa, venuto a conoscenza,
attraverso la cosiddetta “resistenza ecclesiastica”
(che, tra l'altro, portò alla morte di migliaia di
sacerdoti e di ebrei “conversi” nei campi di sterminio)
degli orrori delle deportazioni, poté, in realtà, fare
ben poco.
Come visto, la maggiore accusa che gli viene mossa è
quella di non essersi opposto abbastanza fermamente
all'Olocausto. In parte ciò fu dovuto alla mancanza di
prove oggettive in suo possesso (la memoria delle
comprovatamente false accuse mosse a Versailles ai
soldati tedeschi era ancora viva) e alla impossibilità,
su richiesta degli Alleati, di denunciare i crimini di
Stalin in Russia, cosa che avrebbe creato una sorta di
“due pesi e due misure”, facilmente utilizzabile dalla
propaganda nazista per screditare il papato agli occhi
degli stessi cattolici tedeschi. Ma, in effetti, una
opposizione, sempre nei limiti già sopra esposti, ci fu:
non per nulla il Papa arrivò addirittura ad essere
minacciato fisicamente, tramite l'ambasciatore tedesco
presso la Santa Sede, da Von Ribentropp per le sue
posizioni diplomatiche troppo filo-semite. Inoltre,
buona parte dei “silenzi diplomatici” di Pio XII non
furono tali, ma furono registrati come tali a causa
delle “buone intenzioni” dell'ambasciatore tedesco in
Vaticano, Barone Von Weizsacker: questi, certo
dell'inutilità di ogni rimostranza fatta ad Hitler, per
proteggere il Papa, che, secondo lui, rischiava di
essere arrestato e deportato, semplicemente non trasmise
ai suoi superiori buona parte delle continue rimostranze
vaticane contro deportazioni e uccisioni indiscriminate,
rimostranze le cui minute sono presenti negli Archivi
Vaticani ma non in quelli del Cancellierato, a cui non
giunsero mai.
In linea generale, comunque, il Papa, ben comprendendo
l'inutilità di iniziative diplomatiche presso il governo
nazista, si risolse, piuttosto a cercare di proteggere
le vittime della follia razzista di Hitler. E'
storicamente provato che circa metà degli ebrei romani
vennero ospitati in edifici ecclesiastici, mentre molti
altri vennero forniti di lasciapassare Vaticani, che Von
Weizsacker, fortemente contrario alla politica di
pulizia etnica, non controllò mai, semplicemente
“fidandosi” della parola dei funzionari vaticani sul
fatto che i certificati di battesimo dei loro possessori
fossero conservati negli archivi pontifici.
Il Papa e la Santa Sede, comprovatamente, si adoperarono
con ogni mezzo per tentare di proteggere gli ebrei non
solo in Italia, ma in tutta Europa: si potrebbero citare
centinaia di casi, dalle lettere ad Horty in Ungheria a
quelle a Tiszo in Slovacchia, dagli appelli a Petain in
Francia agli aiuti inviati nei campi di raccolta del
Nord Italia, dal salvataggio di ebrei jugoslavi detenuti
nell'isola di Arbe all'appoggio alle omelie
dell'arcivescovo Saliège di Tolosa contro le
deportazioni, ecc. Il tentativo papale di proteggere gli
ebrei è, d'altra parte, dimostrato anche solo da una
lettera del console d'Israele in Vaticano del dicembre
1949 in cui, testualmente, si trova: “la Chiesa
cattolica ha salvato più vite di ebrei durante la guerra
di tutte le altre istituzioni religiose e di soccorso
messe insieme [...] La Santa Sede, i Nunzi e
l'intera Chiesa cattolica hanno salvato qualcosa come
400.000 ebrei da morte certa”.
Nel luglio 1943, inoltre, nell'enciclica Mystici
Corporis, il Papa condannò fermamente l'“omicidio
legalizzato” di handicappati, pazzi e terminali,
affermando che egli considerava ogni attacco ai
cattolici come un attacco alla sua stessa persona.
Insomma, a detta di Dalin (e, ancora una volta, di molti
altri), Pio XII fece molto per opporsi al regime
nazista, tutto quanto era in suo potere fare.
Chi ha ragione, dunque? Che giudizio storico trarre da
tutta questa vicenda?
Probabilmente, come quasi sempre accade, la verità
storica si trova nel mezzo di opinioni divergenti.
Avrebbe il Papa potuto intervenire in modo più vibrante
e, soprattutto, facendo valere pubblicamente la sua
autorità morale? Senza dubbio avrebbe potuto.
Sarebbe servito a qualcosa? Quasi certamente no.
Quando il cardinal Orsenigo, Nunzio papale a Berlino,
all'inizio del 1943, protestò direttamente con Hitler
contro la persecuzione degli ebrei, il dittatore non
disse una parola, semplicemente prese un bicchiere, lo
scagliò a terra mandandolo in frantumi e se ne andò.
Ancora più chiaro fu il suo pensiero quando, il 9
settembre 1943, parlando con Doenitz dell'armistizio
appena firmato dall'Italia disse: “Entrerò in
Vaticano in qualunque momento vorrò. Pensi che il
Vaticano abbia paura di me? Ce ne impossesseremo. Si,
tutta la loro accozzaglia diplomatica. Non me ne importa
nulla. Tutto il branco è là, noi lo cacceremo fuori,
tutta quella mandria di maiali. Che cosa conta? Ci
scuseremo dopo, non c'è niente di cui preoccuparci
[...] Dopo la guerra non avremo più tentativi di
intromissione della Chiesa negli affari di Stato... non
ci saranno più Concordati. Sta arrivando il momento in
cui regolerò i conti con il Papa”. Si può essere
piuttosto certi che Hitler dicesse sul serio e se le
cose fossero andate in questo modo, le sofferenze
causate dai nazisti sarebbero state smisuratamente
maggiori, non solo contro gli ebrei, ma anche contro i
cattolici tedeschi e di tutti gli stati occupati.
I critici hanno spesso obiettato che il Papa avrebbe
potuto scomunicare Hitler e i suoi gerarchi. Ma che
senso avrebbe avuto? Dal punto di vista spirituale
Hitler si era già da lungo tempo posto al di fuori della
Chiesa e, politicamente, sarebbe valso a ben poco.
Pio XII, in una conversazione con Fra' Pizzo Scavizzi
ebbe modo di affermare “Ho spesso pensato alla
scomunica per castigare il tremendo crimine del
genocidio agli occhi del mondo. Ma dopo molte preghiere
e molte lacrime, ho compreso che la mia condanna non
solo non avrebbe aiutato gli Ebrei, ma avrebbe potuto
peggiorare la situazione [...] Non c'è dubbio che
una protesta mi sarebbe valsa le lodi e il rispetto del
mondo civile, ma avrebbe sottoposto i poveri Ebrei ad
una persecuzione persino peggiore”. Di una cosa si
può essere certi: Papa Pacelli, nella sua notoria
abilità politica, sapeva essere buon profeta anche su sé
stesso, ma, forse, tutto ciò prova soprattutto una dose
di coraggio fuori dal comune.
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