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N. 11 - Novembre 2008 (XLII)

Tra il Vaticano e Berlino
i rapporti tra Chiesa e Nazismo

di Lawrence M.F. Sudbury

 

Sulla natura dei rapporti tra Chiesa Cattolica e regime nazista sono stati versati fiumi d'inchiostro e, tuttavia, alla luce delle continue “nuove rivelazioni”, della continua emersione di nuovi documenti dal “mare magnum” dell'oblio rappresentato dai vari Archivi di Stato e, soprattutto della persistente discordanza sull'interpretazione di pressoché ogni oggettivo dato storico da parte di studiosi di diversa matrice ideologica, tale natura appare, oggi come cinquant'anni fa, ancora tutta da analizzare.

 

Le ragioni di tali incertezze, che rendono quella delle relazioni tra Berlino e Vaticano una storia ancora tutta da scrivere, risiedono chiaramente nella natura stessa del “vulnus” che una eventuale collaborazione tra la maggiore denominazione cristiana del mondo e una delle più feroci dittature della storia dell'umanità potrebbe infliggere all'immagine della Chiesa nell'animo di molti fedeli, un “vulnus” di cui molti detrattori del papato tendono a ingigantire le dimensioni e di cui molti storici cattolici, al contrario, tendono a  negare l'esistenza.

 

Forse, però, una seconda ragione della difficoltà nel trarre conclusioni anche parziali ma almeno unanimemente accettate come oggettive su una questione tanto delicata sta nel modo in cui si tendono a leggere i termini della questione: Chiesa cattolica e stato nazista vengono spesso analizzati come se si trattasse di blocchi uniformemente omogenei e compatti, schieramenti le cui posizioni politiche (per quanto riguarda la Chiesa) e spirituali (per quanto riguarda i vertici nazisti) dovessero forzatamente risultare lineari e quasi dogmatiche, quando, in realtà, all'interno di ciascuno dei due soggetti della relazione, le posizioni potevano variare grandemente da esponente ad esponente e, anche all'interno del pensiero di singoli esponenti, da periodo a periodo, risultando in un quadro tutt'altro che preciso e univoco, ma, al contrario, dai contorni fortemente frastagliati.

 

Da qui nasce la necessità di una ricognizione attenta all'analisi di tali variazioni, capace di attribuire in modo più corretto posizioni e azioni, senza per questo sviluppare giudizi troppo netti e trancianti su questioni che devono essere osservate anche alla luce della delicatissima situazione sociale, politica e diplomatica coeva.

E' il caso, dunque, di concentrare tale ricognizione sul soggetto più “passibile” di giudizi critici forse affrettati e spesso ideologizzati, la Chiesa cattolica.

 

Sulla base delle risultanze storiche è possibile determinare, nel periodo dell'ascesa hitleriana e della dittatura nazista,  almeno tre macro-periodi distinti in cui, pur con sfumature molto composite, ci è permesso parlare di orientamenti chiaramente definiti.

 

Il primo periodo è quello che, all'incirca, corrisponde alla presa di potere da parte di Hitler e che possiamo definire, per il papato, il “periodo dell'illusione”.

Si diceva della necessità di inserire gli eventi nella loro cornice storica per comprenderne le ragioni e, forse, solo in questo modo è possibile comprendere le motivazioni per cui la Santa Sede vide nello sviluppo del regime nazista la nascita di un possibile alleato.

 

Fondamentalmente, dopo la rivoluzione russa, il cosiddetto “pericolo bolscevico” risultava al primo posto nell'agenda delle preoccupazioni pontificie: il credo marxista si stava rapidamente diffondendo in tutta Europa, sorretto anche dalle difficoltà economiche post-belliche e dalla maggior organizzazione raggiunta dal proletariato e nessuna area europea, dalla Francia alla Spagna, dall'Italia alla Germania si poteva dire immune dal “contagio comunistico, materialista ed ateista”.

 

Ad opporsi all'ondata marxista sorsero ovunque tre generi di partiti: i classici partiti liberali, i partiti conservatori e i partiti della “destra nazionalista”. Sulla base di comunanze ideologiche e della necessità di coalizzarsi contro il nemico bolscevico, furono soprattutto gli ultimi due generi di formazioni ad unirsi e fare fronte comune, in alcuni casi rimanendo distinti (come nel caso spagnolo, con CEDA, Falange e Renovamento Español), in molti altri casi unendosi sotto le stesse bandiere. Tenendo presente che uno dei grandi baluardi all'espansione comunista, conseguentemente, riversandosi nei partiti conservatori, era la grande massa dei cristiani delle varie confessioni, non può apparire così strano che, sulla base del classico “il nemico del mio nemico è mio amico”, la Chiesa cattolica finisse quasi inevitabilmente per supportare formazioni di estrema destra che, a loro volta, chi per convinzione, chi per convenienza, “corteggiavano” il Vaticano.

 

Il risultato fu quella strana (e, a tratti, paradossale) alleanza che alcuni storici arrivano a definire “Internazionale Nera”, con Papa Pio XI che, nell'enciclica Quadragesimo Anno, sponsorizza piuttosto apertamente gli stati fascisti (eufemisticamente defini “corporativistici”) e con i cattolici che aderiscono in massa, seppur a titolo più che altro personale, a formazioni che porteranno alla morte della democrazia in Austria (si pensi al ruolo del Cardinal Innitzer, amico personale di Hitler e del fanatico cattolico Seyss-Inquart nell'Anschluss del 1938), in Spagna (dove Franco parlerà apertamente di una sua “quinta colonna” pretesca a Madrid) e in Ungheria e Romania (con l'ultra-cattolicesimo delle “Croci Frecciate” e dei “Legionari” di Codreanu), che sviluppano, nel corso della guerra, il più aperto collaborazionismo all'invasione tedesca (ad esempio con il cattolicesimo integralista del maresciallo Petain o del generale Weygand) o che, addirittura, creano compagini para-fasciste come gli “Ustasha” di Ante Pavelić (in cui, in gran parte, confluirono i giovani dell'Azione Cattolica croata) o le “Hlinkova Garda” del “pacelliano” padre Hlinka (che, con il loro separatismo slovacco dallo stato laico della Cecoslovacchia di Benes, favorito dal Nunzio Apostolico, poi espulso per questo dal paese nel 1933,  favorirono l'indebolimento della nazione e la successiva facile annessione germanica, con la creazione della repubblica-fantoccio slovacca retta, guarda caso, da monsignor Tiszo).

 

Per quanto riguarda espressamente la Germania nazista, in cui, dal 1920 al 1929, era stato Nunzio il tenacemente anti-bolscevico arcivescovo Eugenio Pacelli, che, ovviamente, avremo modo di rincontrare come Pio XII, il coinvolgimento vaticano e, più genericamente, cattolico nel regime nazista si esplica espressamente in due momenti fondamentali: le “Leggi sui Pieni Poteri” e il Concordato.

 

Per quanto riguarda le “Leggi sui Pieni Poteri” del 23 marzo 1933, le responsabilità storiche dei cattolici e, alle loro spalle, del Vaticano sono piuttosto chiare, soprattutto per quanto riguarda la posizione del Zentrum. Durante la seconda metà degli anni '20, il Zentrum (il partito centrista dei cattolici tedeschi) si era spesso trovato in posizioni di aperta ostilità verso l'NSDAP ma, come Hitler stesso ebbe modo di scrivere, tali scontri erano legati a diverse posizioni politiche e non riguardavano alcun insegnamento religioso (anzi, in quel periodo, i nazisti si  presentavano come campioni della lotta all'ateismo bolscevico). Nel marzo 1933, dopo l'incendio del Reichstag e la messa al bando del KPD (il partito comunista tedesco), il governo nazista propose al parlamento una serie di disposizioni che avrebbero permesso ad Hitler di creare nuove leggi anche senza l'approvazione del parlamento, aprendo la strada alla dittatura. Per passare, le “Leggi sui Pieni Poteri” avevano bisogno dell'approvazione di 2/3 del parlamento, una percentuale ottenibile solo attraverso i voti proprio del Zentrum. Il partito era titubante ma il suo leader, Monsignor Kaas, pare dopo un lungo colloquio con l'amico Cardinal Pacelli (nel frattempo divenuto Segretario di Stato Vaticano), decise per un voto a favore della nuova legge, anche dopo che il futuro führer, nel suo discorso introduttivo al parlamento, aveva fortemente rimarcato come la ideologia nazista avesse come base storica la fede cristiana. Di fatto, il risultato delle votazioni fu una sorta di plebiscito a favore delle leggi liberticide, con il solo SPD che votò contro: in questo modo, sin dall'inizio del suo mandato, Hitler pose le basi del suo ruolo dittatoriale, con il pieno avallo dei cattolici tedeschi.

 

Il momento di massima “collaborazione” tra Vaticano e Germania hitleriana si ebbe, comunque, con la firma del  “Reichskonkordat”. Durante il periodo weimariano i rapporti tra Germania e Santa Sede si erano fatti progressivamente sempre più tesi, senza che il Nunzio Pacelli riuscisse a far passare un documento d'intesa globale tra i due stati. Divenuto Segretario di Stato (giugno 1930), Pacelli non abbandonò i suoi tentativi di sviluppare un Concordato sullo stile di quello firmato con l'Italia fascista, ma l'opposizione di socialisti e protestanti riguardo allo sviluppo di scuole confessionali e alla presenza di cappellani cattolici nelle forze armate aveva frustrato le sue speranze (nonostante alcuni incontri preliminari tenuti nel 1932). Il 30 gennaio 1933, con il cancellierato affidato ad Adolf Hitler, la situazione mutò radicalmente: i nazisti avevano bisogno di ottenere riconoscimento internazionale e poche cose avrebbero potuto dar loro prestigio quanto l'apertura di un canale privilegiato con il papato. Dopo aver assicurato a Kaas che avrebbe provveduto all'apertura di scuole cattoliche in tutta la Germania e che avrebbe sempre mantenuto buoni rapporti con la Santa Sede, Hitler inviò a Roma il suo vice cancelliere Franz Von Papen (nobile cattolico, ex-membro del Zentrum) che, con l'appoggio di Kaas stesso e di Pacelli, si offrì di negoziare un Concordato.

 

Il risultato delle trattative fu, appunto, il  Reichskonkordat, firmato il 20 luglio 1933 proprio da Pacelli e da Von Papen. Il testo dell'accordo, certamente, era a favore della Germania hitleriana: in cambio di una generica promessa di libertà e protezione della Chiesa cattolica e della possibilità per la Chiesa di tassare i propri fedeli, i nazisti ottenevano la fine di ogni interferenza politica dei cattolici (paradossalmente con l'abolizione, tra l'altro, proprio del Zentrum di Kaas), un giuramento di fedeltà da parte di tutti i vescovi tedeschi, l'impegno che tutti i sacerdoti sul suolo germanico fossero solo di sangue tedesco e limitazioni all'azione delle organizzazioni cattoliche. Nonostante questo evidente sbilanciamento, Pacelli scrisse sull'“Osservatore Romano” che il Vaticano aveva ottenuto: “non solo il riconoscimento ufficiale della legislazione della Chiesa, ma anche l'adozione di molti elementi di tale legislazione e la protezione della legislazione ecclesistica”.

 

Evidentemente le cose non andarono esattamente come il Segretario di Stato aveva previsto, dal momento che proprio il Concordato segnò l'inizio delle tensioni tra Vaticano e regime nazista e l'avvento di quello che possiamo definire il “secondo periodo” dei rapporti tra Hitler e papato.

 

Intendiamoci, come accennato parlando della non monoliticità delle posizioni ecclesiastiche, resistenze a titolo personale erano già state presenti in precedenza: già nel settembre 1930 il vescovo di Magonza aveva pubblicato alcune norme che avevano come scopo l'impedire che i cattolici fossero contagiati dal nazionalsocialismo (norme, per altro, aspramente criticate da alcuni suoi confratelli) e nella Conferenza Episcopale dei Vescovi Prussiani dell'agosto 1932 si era parlato del movimento nazionalsocialista come di un “pericolo per le anime”, ma la grande “svolta” si ebbe proprio quando fu evidente che Hitler era tutt'altro che interessato a mantener fede ai patti firmati dal suo vice-cancelliere.

 

Due elementi giocano un ruolo di particolare importanza in questo periodo: le continue violazioni del Concordato, in particolare del suo articolo 31 relativo alla libertà religiosa dei cattolici, da parte del regime nazista (tra 1933 e 1939 si contano più di 45 proteste ufficiali Vaticane contro tali violazioni, tra le quali l'uccisione di Erich Klausener, leader dell'Azione Cattolica tedesca, durante la “Notte dei Lunghi Coltelli”) e, soprattutto, la posizione di Pio XI nei confronti delle teorie razziste ed eugenetiche hitleriane. Già nell'aprile 1933, prima ancora della firma del Concordato, il Papa aveva disapprovato le teorie razziste antisemite, che, d'altra parte, aveva ripudiato (insieme all'anti-giudaismo cristiano) già a partire dall'enciclica Casti Connubii.

 

Al di là delle continue limitazioni hitleriane alla vita della Chiesa in Germania, probabilmente la goccia che fece traboccare il vaso fu la legge sulla sterilizzazione obbligatoria dell'ottobre 1933 che sollevò vivissime critiche da parte di tutto l'episcopato tedesco, il quale riuscì, proprio con l'appoggio vaticano, a far almeno mitigare i termini del regolamento di applicazione della legge, pubblicato il 5 dicembre 1933. Da quel momento in poi, si può tranquillamente affermare che l'idillio (sempre che di idillio e non di necessità politica si sia mai trattato) tra papato e nazismo si rompa e che i rapporti si inaspriscano sempre di più.

 

Due sono i momenti di massimo picco della tensione: l'enciclica Mit Brennender Sorge del 1937 e la mancata visita di Hitler in Vaticano del 1938.

 

Per quanto riguarda l'enciclica pubblicata il 10 marzo 1937, datata 14 marzo, letta in tutte le chiese tedesche il 21 marzo (domenica delle palme) e divulgata alla stampa il giorno successivo, essa fu indirizzata ai vescovi tedeschi, ed eccezionalmente redatta in tedesco per facilitarne la diffusione e la lettura nelle chiese della Germania.

Il testo è incentrato (come recita il sottotitolo) sulla “situazione religiosa nel Reich tedesco” e deplora le violazioni del Concordato del 1933, condannando la dottrina nazionalsocialista come fondamentalmente anticristiana.

 

In particolare, il documento condanna in chiari termini il culto della razza e dello stato, definendoli perversioni idolatriche e dichiarando “folle” il tentativo di imprigionare Dio nei limiti di un solo popolo e nella ristrettezza etnica di una sola razza, ribadendo che tutte le nazioni sono come piccole gocce in un catino d'acqua davanti a Dio. In un punto, si arriva addirittura a definire Hitler (senza menzionarlo direttamente) “inimicus homo” (uomo nemico), affermando che egli aveva in realtà già avuto in mente di non rispettare i patti, non avendo altro scopo se non una lotta fino all’annientamento della Chiesa attraverso la campagna “dell’odio, della diffamazione, di un’avversione profonda, occulta e palese, contro Cristo e la sua Chiesa, scatenando una lotta che si alimentò in mille fonti diverse, e si servì di tutti i mezzi”.

 

La Mit Brennender Sorge fu una delle prime encicliche papali che ebbe una risonanza realmente mondiale, anche se per motivi soprattutto politici; essa fu uno dei primi atti pontifici che superò le frontiere del mondo cattolico: fu letta da credenti e non credenti, da cattolici e protestanti, anzi per la prima volta questi ultimi tributarono a un documento papale riconoscimenti pubblici che erano impensabili fino a poco tempo prima.

 

Certamente la Mit Brennender Sorge fu recepita diversamente secondo la sensibilità e la cultura politica dei tanti che la lessero. Sta di fatto, però,  che essa fu generalmente interpretata non soltanto come un atto di protesta della Santa Sede per le continue violazioni del Concordato da parte del Governo tedesco, o come una sconfessione dottrinale degli errori del nazionalsocialismo, ma soprattutto come un atto di denuncia del nazismo stesso e del suo Führer, e questo i gerarchi del Reich lo capirono immediatamente.

 

È vero, come è stato più volte sottolineato dai commentatori dell’enciclica, che essa non menziona mai né il nazionalsocialismo né Hitler, ma, andando oltre la superficie “letterale” del documento, è facile cogliervi dietro ogni periodo, dietro ogni pagina, un autentico atto di accusa contro il sistema hitleriano e contro le sue teorie razziste e neo-pagane. In questo senso, essa rimane una della maggiori e più coraggiose testimonianze di denuncia della barbarie nazista, pronunciata autorevolmente dal Vescovo di Roma quando ancora la gran parte del mondo politico europeo guardava a Hitler con un misto di ammirazione, sorpresa e paura.

 

Ovviamente l'enciclica, scritta dal Papa con l'aiuto dei cardinali Pacelli e von Faulhaber (arcivescovo di Monaco e Frisinga) e trasmessa segretamente in Germania per non essere intercettata dalla Gestapo (tanto che alcuni parroci la nascosero direttamente all'interno dei tabernacoli), provocò l'ira del führer e dei gerarchi a tal punto da portare non solo alla proibizione di divulgazione del documento in Germania, ma anche ad una recrudescenza delle persecuzioni contro i cattolici: già nel maggio 1937, 1.100 sacerdoti e religiosi vennero imprigionati (304 di essi vennero poi deportati nel campo di concentramento di Dachau nel 1938),  le organizzazioni cattoliche vennero disciolte e l'insegnamento confessionale venne proibito. Pare che Hitler in quell'occasione abbia dichiarato: “Inizierò una tale campagna contro di loro [il clero cattolico] attraverso la stampa, la radio e il cinema che neppure capiranno cosa li ha colpiti.. Non creerò dei martiri tra i preti cattolici: è molto più utile mostrarli come dei criminali...”.

 

Così, quando nel maggio 1938 Hitler si recò in visita a Roma, Pio XI si rifiutò, per rappresaglia, di incontrarlo, si trasferì a Castel Gandolfo e fece addirittura chiudere i Musei Vaticani. E' noto che, in quell'occasione, Pio XI disse: “questo è un giorno triste per Roma sopra la quale si erge una croce che non è la Croce di Cristo”, riferendosi alle numerose svastiche che Mussolini fece esporre a Roma in omaggio a Hitler, e che, successivamente, mandò addirittura una nota scritta al duce protestando per gli eccessivi festeggiamenti tributati al dittatore nazista.

 

A questo punto, il nuovo rapporto tra Vaticano e Berlino sembra ben delineato e improntato ad una forte contrapposizione. Ma qualcosa è destinato a cambiare.

Il 10 febbraio 1939, in circostanze mai completamente chiarite, Pio XI morì per un attacco cardiaco e il 2 marzo, dopo solo tre scrutini, venne eletto quello che sembrava essere il suo successore naturale e designato, il Segretario di Stato e Cardinal Camerlengo Eugenio Pacelli, che ascese alla Cattedra di Pietro con il nome di Pio XII.

 

Con lui si apri una sorta di “terzo tempo” dei rapporti tra Santa Sede e governo tedesco e il mutamento di rotta (per quanto non totale) è facilmente comprensibile alla luce delle differenze caratteriali e di sensibilità politica rispetto al suo predecessore.

 

A tal proposito, è interessante leggere quanto scrisse, tra il 1938 e il 1939, François Charles Roux, Ambasciatore francese presso il Sacro Soglio, a proposito dei due papi che ebbe modo di conoscere.

 

Scrive Roux il 15 maggio '38, dopo essere stato ricevuto da Pio XI: “Il Santo Padre ha criticato soprattutto gli eccessi che il governo italiano ha dimostrato nel rendere omaggio a Hitler durante la sua visita a Roma (...) Che si spendano somme talmente enormi e si organizzino manifestazioni cosi' colossali, supera ogni misura di ragionevolezza e dimostra una certa sottomissione: queste sono state le parole del pontefice”. Fin qui, nulla di nuovo: già conosciamo l'avversione di Papa Ratti per Hitler. Ma, il 24 maggio ' 39, il diplomatico francese si lancia in un raffronto fra il Papa  da poco scomparso, e il suo successore, Pio XII: “Nella posizione della Santa Sede mancano quella saldezza, chiarezza e decisione che sono caratteristiche degli ultimi anni di regno di Pio XI. Quando pero' la situazione generale ha reso probabile un imminente pericolo di guerra Pio XII ha preferito fare passi diplomatici, senza pubbliche dichiarazioni di principi. Si spiega così la sua iniziativa di pace presso le cinque potenze. Sul piano di un' azione di pace, che e' deciso a proseguire, la sua posizione e' stata prima dogmatica e poi diplomatica, evitando le proteste dirette contro questo e quell'avvenimento politico, dalle quali Pio XI non sempre sapeva trattenersi [...] La lunga collaborazione con Pio XI non deve trarre in inganno sulla diversità dei caratteri dei due principi della chiesa”.

 

Un uomo che “non sempre sapeva trattenersi”, dunque, sostituito da un uomo cresciuto nella diplomazia vaticana, profondo conoscitore della Germania e della politica nazista e attentissimo alle ripercussioni politiche di ogni atto e parola proveniente dalla Sede petrina: lo scarto non poteva essere più netto.

 

Ed è qui che nascono le maggiori divergenze di interpretazione storica sulle azioni del papato: a parte qualche generica dichiarazione di pacifismo quale la celeberrima “Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra”, l'ex Nunzio Apostolico a Berlino e ora Vescovo di Roma viene accusato di aver mantenuto pubblicamente sempre il più rigoroso silenzio su quanto di criminale stava accadendo in Centro ed Est Europa prima, e persino nella sua sede vescovile dopo l'armistizio. Fu un silenzio colpevole o addirittura connivente?

E' sulla risposta a questa domanda che le opinioni si spaccano.

 

Sul banco dell'accusa, il più importante rappresentante di coloro che ritengono il Papa addirittura “colluso” con Hitler (una schiera notevole di intellettuali, a partire da Rolf Hochhuth, che nel 1963 per primo mise in scena la “codardia” papale nel suo dramma Der Stellvertreter), è certamente lo storico John Cornwell, del Jesus College di Cambridge, che nel suo Hitler's Pope: the Secret History of Pius XII traccia un ritratto impietoso di un uomo incapace di prendere posizione, di ammettere i propri errori precedenti e di denunciare la politica criminale attuata dai nazisti nei confronti degli ebrei e dei popoli dei territori occupati e, sostanzialmente, di un feroce antisemita.

 

Le principali accuse mosse da Cornwell nel suo testo, che l'autore dice desunto da documenti dell'archivio vaticano a cui avrebbe avuto libero accesso, possono essere riassunti in alcuni punti principali:

 

1. Pacelli, fin dal 1917, mostra nelle sue lettere un accesa antipatia per gli ebrei, una antipatia che sembra andare oltre il comune anti-giudaismo cristiano (quello, per intenderci, dell'accusa di “deicidio”)  per sfociare, in contraddizione con affermazioni successive (postbelliche) di “amore per gli ebrei e rispetto per la loro religione”, in un vero antisemitismo di stampo quasi genetico. Ciò sarebbe, tra l'altro, stato causato dalla convinzione che gli ebrei fossero alla base della rivoluzione bolscevica, che altro non sarebbe stata se non un grande piano per distruggere il cristianesimo. Per comprendere i sentimenti di Pacelli verso il popolo semita, basterebbe leggere una sua lettera come Nunzio Apostolico scritta al Segretario di Stato Gasparri nel marzo 1919, in cui, a proposito dell'insurrezione marxista di Monaco guidata da Eugen Levien, scrive: “La scena che si presentava al palazzo [del governo bavarese] era indescrivibile. La situazione totalmente caotica, il sudiciume completamente nauseante; soldati e lavoratori armati andavano e venivano; l'edificio, un tempo dimora di un re, risuonava di urla, linguaggio scurrile, bestemmie. Un inferno assoluto. Un esercito di impiegati si muoveva in ogni dove lanciando ordini, sventolando pezzi di carta e, nel mezzo di tutto questo, una banda di giovani donne, di dubbio aspetto, ebree come tutti gli altri, che si aggirava in tutti gli uffici con movenze provocanti e sorrisi ammiccanti. A capo di esse vi era la donna di Levien, una giovane russa, un'ebrea e una divorziata, che le comandava. E' stato a lei che la Nunziatura ha dovuto porgere omaggio per poter entrare. Questo Levien è un giovane uomo, tra i 30 e i 35, anche lui russo ed ebreo. Pallido, sporco, con occhi vacui, voce roca, volgare, disgustoso, con un volto allo stesso tempo intelligente e scaltro”;

 

2. Pacelli conosceva certamente le posizioni antisemite di Hitler (per altro chiaramente espresse nel Mein Kampf già dal 1925-26) ma, durante le trattative per il Concordato, le definì un “affare interno” dello stato tedesco. In questo modo, aiutato anche dal suo fedelissimo amico Monsignor Kaas, favorì lo sviluppo di un clima ideale per la persecuzione ebraica. Tra l'altro, come Segretario di Stato, non intervenne minimamente per impedire il processo con cui il clero cattolico collaborò nella “certificazione razziale” volta all'identificazione degli ebrei;

 

3. Dopo la pubblicazione della  Mit Brennender Sorge, Pacelli cercò continuamente di mitigare gli effetti dell'enciclica tramite rassicurazioni diplomatiche personali a Berlino, nonostante conoscesse perfettamente la situazione delle incredibili persecuzioni anti-ebraiche del regime nazista, più volte riportategli da vescovi e membri del clero tedesco;

 

4. Pio XII mostrò sempre, fin dall'inizio del suo pontificato un ossequio abnorme per Hitler, tanto che, tra la sua elezione e le sua incoronazione, incontrando i cardinali tedeschi, mostrò loro un biglietto di auguri che voleva inviare al führer, che iniziava con la frase “All'illustre Signor Adolf Hitler”, chiedendo il loro parere se fosse il caso di indirizzarlo “All'illustrissimo Signor Adolf Hitler”. Sempre nella stessa occasione, il neo-pontefice disse che, sebbene Pio XI volesse ritirare il Nunzio da Berlino, egli riteneva questa mossa un errore e desiderava mantenere normali relazioni diplomatiche con Hitler. Il mese seguente, dietro espresso desiderio di Pacelli, il Nunzio a Berlino, Arcivescovo Cesare Orsenigo, organizzò una cena di gala in onore del cinquantesimo compleanno di Hitler: gli auguri del Nunzio a nome del Papa per il compleanno del führer divennero una tradizione mantenuta fino al termine della guerra;

 

5. Pio XII non disse una parola nel settembre 1939, quando la Polonia venne invasa, nonostante gli Alleati chiedessero a gran voce un suo intervento. La sua successiva enciclica Summi Pontificatus, che riporta quello che doveva essere il programma del suo regno, contiene, sull'argomento, frasi talmente oscure e retoriche da risultare sostanzialmente incomprensibili ai più. In compenso, dal 1941 in poi, il papato sostenne attivamente il regime di Ante Pavelić in Croazia, nonostante gli orrori della pulizia etnico-religiosa contro Ortodossi, Ebrei e Zingari, tanto da ricevere il capo degli Ustasha in Vaticano un mese dopo un noto massacro di ortodossi, complimentandosi per la sua opera di evangelizzazione;

 

6. l'accusa più grave riguarda certamente la Shoa. Pacelli sapeva dei piani di sterminio nazisti già dal gennaio 1942 e durante tutto quell'anno ricevette informazioni sulle deportazioni nei lager dai diplomatici francesi, inglesi e americani residenti in Vaticano. Il 17 marzo 1942, i rappresentanti delle Organizzazioni Ebraiche riuniti in Svizzera inviarono un dettagliato memorandum (poi escluso dai documenti pontifici pubblicati tra 1965 e 1981) al Papa attraverso il Nunzio a Berna e implorarono un intervento della Santa Sede per bloccare le deportazioni di ebrei in Slovacchia, Croazia, Ungheria e Francia, un intervento che non ci fu mai (a parte una lettera a Monsignor Tiszo, presidente slovacco, che “rallentò” la persecuzione). Nello stesso mese, una serie di dispacci riguardanti la sorte di circa 90.000 ebrei dell'Est europeo giunsero in Vaticano, ma anche in questo caso il silenzio papale fu “assordante”. Nel settembre 1942, Roosevelt mandò addirittura un suo rappresentante personale, Myron Taylor, a chiedere al Papa una dichiarazione sullo sterminio ebraico ma Pacelli, affermando di dover rimanere “super partes”, si rifiutò di intervenire. Il 18 dicembre 1942, Francis d'Arcy Osborne, inviato britannico, passò al cardinal Tardini, vice Segretario di Stato, un dettagliatissimo dossier sulle deportazioni e i massacri di ebrei in tutta Europa e, finalmente, il 24 dicembre, nel suo messaggio radio della Vigilia di Natale, Pio XII, facendo voti che la società civile sapesse ritornare all'immutabile centro di gravità della legge divina, osò affermare: “L'umanità eleva voti per quelle centinaia di migliaia che, senza colpa, talora solo a ragione della loro nazionalità e razza, sono trascinati a morte o verso una graduale estinzione”: pur essendo questa la più forte denuncia papale della “soluzione finale”, il tono evasivo, la non menzione di ebrei e nazisti, la chiara intenzione di volersi unicamente sbarazzare delle continue pressioni alleate, rendono questo messaggio del vicario di Cristo riguardo al più grande crimine della storia semplicemente scandaloso;

 

7. Anche in qualità di Vescovo di Roma, l'operato di Pio XII non può che sollevare numerosi dubbi, in particolare quando, tra settembre e ottobre 1943, il Papa risultava essere la sola autorità presente nella “città eterna”. La possibilità di salvaguardare le centinaia di ebrei ancora presenti nel ghetto non pare averlo neppure sfiorato. Quando, il 16 ottobre, le truppe di Eichmann rastrellarono il ghetto, persino l'ambasciatore tedesco e alcuni comandanti della Wermacht chiesero al Papa di sollevare una protesta popolare contro le SS, ma Pacelli rifiutò e, successivamente, si giustificò con l'incaricato d'affari americano Harold Tittmann affermando di aver temuto che sollevare una protesta popolare avrebbe avvantaggiato il partigiani comunisti. Nel frattempo, più di mille ebrei romani venivano deportati ad Auschwitz, mentre il Vescovo di Roma desiderava mantenere l'occupazione nazista della città fino alla liberazione da parte degli Alleati. In compenso, alla morte di Hitler, l'arcivescovo di Berlino Adolf Bertram ordinò a tutti i preti della sua arcidiocesi di “tenere una solenne messa di requiem in memoria del führer”.

 

Fin qui, si diceva, il quadro accusatorio: un quadro sconvolgente per ogni cristiano e, a dire la verità, forse per ogni essere umano. La presenza di collaborazionisti e nazisti all'interno del clero cattolico è, sulla base dell'anticomunismo e dell'anti-giudaismo viscerale di alcuni prelati, un dato storicamente accertato (dal vescovo Alois Hudal, uno dei più attivi, nel dopoguerra, nel favorire la fuga in Sud America di criminali nazisti con passaporti vaticani, al frate Miroslav Filipović-Majstorović, comandante del campo di sterminio ustasha di Jasenovac), ma è certamente impressionante pensare che il vicario di Cristo possa aver anche solo marginalmente fatto parte di questa esecrabile schiera.

 

Bisogna, però, fare molta attenzione: quella di Cornwell (e, si ripete, di molti altri con lui) è solo una delle posizioni ed interpretazioni possibili riguardo al papato di Eugenio Pacelli, anzi, forse la più estrema tra le posizioni “anti-papiste”, ampiamente screditata da molti altri storici, sia cattolici che non-cattolici.

 

Forse la miglior difesa dell'operato di Pio XII è stata scritta (e, alla luce delle rivelazioni di Cornwell, sembrerebbe addirittura paradossale) da un rabbino, David G. Dalin, che, nel suo The Myth of Hitler's Pope: Pope Pius XII and His Secret War Against Nazi Germany, racconta, su ampia base documentale, una storia ben diversa da quella dello storico britannico.

Brevemente, le tesi di Dalin possono essere esposte come segue.

 

Fondamentalmente, il Vaticano doveva confrontarsi con un vero e proprio attacco frontale contro la chiesa cattolica tedesca ed era proprio di questo attacco che il papato aveva più paura. Quando Pacelli fu eletto, ben sapeva che era impossibile fidarsi di Hitler, come dimostra una sua nota rinvenuta presso il Ministero degli Esteri britannico in cui il nuovo Papa scrive: “Nessuna firma del presente governo tedesco vale più della carta su cui è tracciata”. L'ostilità di Pacelli verso il nazismo era, in effetti, ben nota, tanto che, al momento della sua elezione, il quotidiano dell'NSDAP Der Angriff, uscì con un articolo in cui si ipotizzava una sua “crociata contro gli stati totalitari”, ma, per comprendere la situazione in cui Papa Pacelli si era venuto a trovare, basta leggere le sue parole quando gli fu proposto di non ricevere l'ambasciatore tedesco dopo la sua incoronazione: “Che altro posso fare? Lo devo trattare amichevolmente. Non c'è altra possibilità. Rompere le relazioni diplomatiche è facile. Ma per ricostruirle... Dio solo sa che concessioni dovremmo fare”. Che Pio XII conoscesse bene gli obiettivi nazisti è dimostrato da una lettera al vescovo Von Preysing del 30 aprile 1943: “E' stata per Noi una grande consolazione apprendere the i cattolici, in particolare quelli della diocesi di Berlino, abbiano dimostrato una tale carità verso coloro che soffrono tra i cosiddetti non Ariani nella loro afflizione. Esprimiamo la Nostra paterna gratitudine e profonda simpatia per Monsignor Lichtenberg che ha chiesto di condividere la sorte degli Ebrei nei territori sotto il controllo tedesco [...] E' superfluo dire che il Nostro amore e la Nostra paterna sollecitudine verso i Cattolici non Ariani o semi-Ariani sono tanto maggiori ora che le loro esistenze sono poste a rischio e che conoscono tali tribolazioni. Sfortunatamente [...] non possiamo portare loro altro aiuto che quello delle Nostre preghiere. Siamo, comunque, determinati a levare di nuovo la Nostra voce a loro favore, qualora le circostanze lo richiedano o lo permettano.

 

Perché, allora, il Papa non “levò” mai quella voce, chiudendosi in un silenzio che anche così tanti credenti ritengono colpevole? In realtà, Pio XII ben sapeva che nessun attacco sarebbe mai stato udito i Germania e che il solo risultato che avrebbe ottenuto sarebbe stato quello di portare a misure ancora più repressive per i cattolici tedeschi. Per altro, il Concordato con la Germania, così come i Patti Lateranensi con l'Italia, vietavano ogni intervento clericale in materia politica e la prima responsabilità del Papa era la cura dei cattolici: pur ritenendosi sicuro dal punto di vista personale, egli temeva possibili rappresaglie contro innocenti per sue affermazioni contrarie al regime hitleriano, cosicché era costretto ad esprimersi attraverso frasi a tratti sibilline, ma capaci di mandare messaggi a chi volesse comprenderle a fondo. Un esempio in tal senso è dato da un brano della Summi Pontificatus in cui la condanna dell'invasione della Polonia risulta piuttosto evidente: “Il sangue di innumerevoli esseri umani, inclusi molti civili grida di dolore, in una razza così amata da Noi, come quella polacca, la cui saldezza nella fede al servizio di Cristo è scritta a lettere indelebili nel libro della storia, dando loro il diritto di invocare la fraterna compassione di tutto il mondo”.  Allorché si rese necessario un intervento più diretto, esso fu fatto attraverso la Radio Vaticana, attraverso la quale i polacco furono definiti un popolo “che vive in uno stato di terrore e brutalizzazione” e che portò immediatamente a veementi proteste da parte dell'ambasciatore tedesco in Vaticano e presso il Nunzio apostolico a Varsavia.

 

La Radio Vaticana, comunque, continuò costantemente ad informare sulle atrocità commesse in Polonia per tutta la guerra, sebbene, nel 1943, si arrivasse ad un punto tale di terrore che il Cardinal Sapieha ordinò ai suoi prelati di non tentare neppure di far passare notizie in Vaticano per il rischio che potessero essere intercettate dalla Gestapo, portando ad ulteriori rappresaglie. Nel giugno dello stesso anno, in ogni caso, il Papa denunciò la situazione in un “discorso ai cardinali” trasmesso via radio (sebbene le trasmissioni venissero oscurate in Germania, nella Francia occupata e in buona parte dell'Italia) e poi fatto circolare clandestinamente in Polonia in 50.000 copie.

 

L'odio di Pacelli per i nazisti è provato anche da un suo messaggio al ministero degli esteri britannico del gennaio 1940 in cui il Vaticano informava il governo inglese di un piano di alcuni generali nazisti per rovesciare Hitler. Il Foreign Office non gli credette e così, il mese successivo, il Papa fece inviare un documento più dettagliato in cui si fornivano i nomi dei congiurati e si richiedeva agli Alleati di appoggiarli: purtroppo, ancora una volta, i funzionari britannici non diedero seguito alla cosa.

 

Lo stesso odio è ben visibile nella serie di telegrammi che Pio XII inviò ai governanti di Belgio, Olanda e Lussemburgo quando questi paesi vennero invasi: in essi il Papa prega perché tali nazioni possano essere restituite ad una “piena libertà e indipendenza”. Certo, tutte queste ci possono sembrare solo mere dichiarazioni pietistiche senza valore, ma bisogna comprendere a quali limitazioni Pacelli era sottoposto. Sebbene arrivasse a confessare a Monsignor Montini, il futuro Paolo VI, che: “Noi vorremmo lanciare parole di fuoco contro tali azioni e la sola cosa che Ci trattiene è la paura di rendere la sorte delle vittime ancora peggiore”, il Papa, venuto a conoscenza, attraverso la cosiddetta  “resistenza ecclesiastica” (che, tra l'altro, portò alla morte di migliaia di sacerdoti e di ebrei “conversi” nei campi di sterminio) degli orrori delle deportazioni, poté, in realtà, fare ben poco.

 

Come visto, la maggiore accusa che gli viene mossa è quella di non essersi opposto abbastanza fermamente all'Olocausto. In parte ciò fu dovuto alla mancanza di prove oggettive in suo possesso (la memoria delle comprovatamente false accuse mosse a Versailles ai soldati tedeschi era ancora viva) e alla impossibilità, su richiesta degli Alleati, di denunciare i crimini di Stalin in Russia, cosa che avrebbe creato una sorta di “due pesi e due misure”, facilmente utilizzabile dalla propaganda nazista per screditare il papato agli occhi degli stessi cattolici tedeschi. Ma, in effetti, una opposizione, sempre nei limiti già sopra esposti, ci fu: non per nulla il Papa arrivò addirittura ad essere minacciato fisicamente, tramite l'ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, da Von Ribentropp per le sue posizioni diplomatiche troppo filo-semite. Inoltre, buona parte dei “silenzi diplomatici” di Pio XII non furono tali, ma furono registrati come tali a causa delle “buone intenzioni” dell'ambasciatore tedesco in Vaticano, Barone Von  Weizsacker: questi, certo dell'inutilità di ogni rimostranza fatta ad Hitler, per proteggere il Papa, che, secondo lui, rischiava di essere arrestato e deportato, semplicemente non trasmise ai suoi superiori buona parte delle continue rimostranze vaticane contro deportazioni e uccisioni indiscriminate, rimostranze le cui minute sono presenti negli Archivi Vaticani ma non in quelli del Cancellierato, a cui non giunsero mai.

 

In linea generale, comunque, il Papa, ben comprendendo l'inutilità di iniziative diplomatiche presso il governo nazista, si risolse, piuttosto a cercare di proteggere le vittime della follia razzista di Hitler.  E' storicamente provato che circa metà degli ebrei romani vennero ospitati in edifici ecclesiastici, mentre molti altri vennero forniti di lasciapassare Vaticani, che Von Weizsacker, fortemente contrario alla politica di pulizia etnica, non controllò mai, semplicemente “fidandosi” della parola dei funzionari vaticani sul fatto che i certificati di battesimo dei loro possessori fossero conservati negli archivi pontifici.

 

Il Papa e la Santa Sede, comprovatamente, si adoperarono con ogni mezzo per tentare di proteggere gli ebrei non solo in Italia, ma in tutta Europa: si potrebbero citare centinaia di casi, dalle lettere ad Horty in Ungheria a quelle a Tiszo in Slovacchia, dagli appelli a Petain in Francia agli aiuti inviati nei campi di raccolta del Nord Italia, dal salvataggio di ebrei jugoslavi detenuti nell'isola di Arbe all'appoggio alle omelie dell'arcivescovo Saliège di Tolosa contro le deportazioni, ecc. Il tentativo papale di proteggere gli ebrei è, d'altra parte, dimostrato anche solo da una lettera del console d'Israele  in Vaticano del dicembre 1949 in cui, testualmente, si trova: “la Chiesa cattolica ha salvato più vite di ebrei durante la guerra di tutte le altre istituzioni religiose e di soccorso messe insieme [...] La Santa Sede, i Nunzi e l'intera Chiesa cattolica hanno salvato qualcosa come 400.000 ebrei da morte certa”.

 

Nel luglio 1943, inoltre, nell'enciclica Mystici Corporis, il Papa condannò fermamente l'“omicidio legalizzato” di handicappati, pazzi e terminali, affermando che egli considerava ogni attacco ai cattolici come un attacco alla sua stessa persona.

Insomma, a detta di Dalin (e, ancora una volta, di molti altri), Pio XII fece molto per opporsi al regime nazista, tutto quanto era in suo potere fare.

 

Chi ha ragione, dunque? Che giudizio storico trarre da tutta questa vicenda?

Probabilmente, come quasi sempre accade, la verità storica si trova nel mezzo di opinioni divergenti.

 

Avrebbe il Papa potuto intervenire in modo più vibrante e, soprattutto, facendo valere pubblicamente la sua autorità morale? Senza dubbio avrebbe potuto.

Sarebbe servito a qualcosa? Quasi certamente no.

 

Quando il cardinal Orsenigo, Nunzio papale a Berlino, all'inizio del 1943, protestò direttamente con Hitler contro la persecuzione degli ebrei, il dittatore non disse una parola, semplicemente prese un bicchiere, lo scagliò a terra mandandolo in frantumi e se ne andò. Ancora più chiaro fu il suo pensiero quando, il 9 settembre 1943, parlando con Doenitz dell'armistizio appena firmato dall'Italia  disse: “Entrerò in Vaticano in qualunque momento vorrò. Pensi che il Vaticano abbia paura di me? Ce ne impossesseremo. Si, tutta la loro accozzaglia diplomatica. Non me ne importa nulla. Tutto il branco è là, noi lo cacceremo fuori, tutta quella mandria di maiali. Che cosa conta? Ci scuseremo dopo, non c'è niente di cui preoccuparci [...] Dopo la guerra non avremo più tentativi di intromissione della Chiesa negli affari di Stato... non ci saranno più Concordati. Sta arrivando il momento in cui regolerò i conti con il Papa”. Si può essere piuttosto certi che Hitler dicesse sul serio e se le cose fossero andate in questo modo, le sofferenze causate dai nazisti sarebbero state smisuratamente maggiori, non solo contro gli ebrei, ma anche contro i cattolici tedeschi e di tutti gli stati occupati.

 

I critici hanno spesso obiettato che il Papa avrebbe potuto scomunicare Hitler e i suoi gerarchi. Ma che senso avrebbe avuto? Dal punto di vista spirituale Hitler si era già da lungo tempo posto al di fuori della Chiesa e, politicamente, sarebbe valso a ben poco.

Pio XII, in una conversazione con Fra' Pizzo Scavizzi ebbe modo di affermare “Ho spesso pensato alla scomunica per castigare il tremendo crimine del genocidio agli occhi del mondo. Ma dopo molte preghiere e molte lacrime, ho compreso che la mia condanna non solo non avrebbe aiutato gli Ebrei, ma avrebbe potuto peggiorare la situazione [...] Non c'è dubbio che una protesta mi sarebbe valsa le lodi e il rispetto del mondo civile, ma avrebbe sottoposto i poveri Ebrei ad una persecuzione persino peggiore”.  Di una cosa si può essere certi: Papa Pacelli, nella sua notoria abilità politica, sapeva essere buon profeta anche su sé stesso, ma, forse, tutto ciò prova soprattutto una dose di coraggio fuori dal comune.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

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