N. 85 - Gennaio 2015
(CXVI)
Sull’elezione di Papa Francesco
in risposta a chi parla di invalidità
di Claudio Gentile
Nelle
scorse
settimane
ha
avuto
una
imponente
eco
mediatica,
destando
notevoli
perplessità,
la
tesi
esposta
da
Antonio
Socci
in
una
sua
recente
pubblicazione,
nella
quale
sostiene,
avvalendosi
della
ricostruzione
della
giornalista
Elisabetta
Piquè,
che,
il
13
marzo
2013,
siano
state
violate
almeno
tre
(pag.
110)
disposizioni
della
Costituzione
Apostolica
Universi
Dominici
gregis
(UDG).
Di
conseguenza,
ai
sensi
dell’art.
76
(«Se
l’elezione
fosse
avvenuta
altrimenti
da
come
è
prescritto
nella
presente
Costituzione
o
non
fossero
state
osservate
le
condizioni
qui
stabilite,
l’elezione
è
per
ciò
stesso
nulla
e
invalida,
senza
che
intervenga
alcuna
dichiarazione
in
proposito
e,
quindi,
essa
non
conferisce
alcun
diritto
alla
persona
eletta»),
il
giornalista
italiano
asserisce
l’invalidità
e la
nullità
dell’elezione
di
Papa
Francesco.
Socci
racconta
che
un
cardinale
ha
involontariamente
deposto
nell’urna
due
schede
attaccate,
di
cui
una
con
il
nome
del
suo
prescelto
ed
una
bianca,
e
per
questo
motivo,
al
momento
dello
spoglio,
in
fase
di
conteggio
delle
schede,
trovandosi
una
scheda
in
più
rispetto
agli
elettori,
si è
invalidata
l’intera
votazione.
La
prima
violazione
riguarda
proprio
l’annullamento
di
una
votazione
che
doveva
invece
essere
ritenuta
valida.
Per
sostenere
la
sua
tesi
il
giornalista
italiano
cita
l’art.
69
del
testo
pontificio
che
recita:
«Qualora
nello
spoglio
dei
voti
gli
Scrutatori
trovassero
due
schede
piegate
in
modo
da
sembrare
compilate
da
un
solo
elettore,
se
esse
portano
lo
stesso
nome
vanno
conteggiate
per
un
solo
voto,
se
invece
portano
due
nomi
diversi,
nessuno
dei
due
voti
sarà
valido;
tuttavia,
in
nessuno
dei
due
casi
viene
annullata
la
votazione».
Annullata
indebitamente
la
votazione,
già
la
quarta
della
giornata,
si è
proceduto
direttamente
-
questa
la
seconda
irregolarità
denunciata
dal
Socci
– ad
un
nuovo
voto,
nonostante
quanto
prescritto
dall’art.
72
della
UDG
che
prevede
solo
quattro
scrutini
al
giorno,
due
al
mattino
e
due
al
pomeriggio
(«Confermando
le
disposizioni
dei
miei
predecessori,
San
Pio
X,
Pio
XII
e
Paolo
VI,
prescrivo
che
-
eccettuato
il
pomeriggio
dell’ingresso
in
Conclave
-,
sia
al
mattino,
sia
nel
pomeriggio,
subito
dopo
una
votazione
in
cui
non
abbia
avuto
luogo
l’elezione,
i
Cardinali
elettori
procedano
immediatamente
ad
una
seconda,
in
cui
esprimano
nuovamente
il
loro
voto.
In
questo
secondo
scrutinio
devono
essere
osservate
tutte
le
modalità
del
primo,
con
la
differenza
che
gli
elettori
non
sono
tenuti
ad
emettere
un
nuovo
giuramento,
né
ad
eleggere
nuovi
Scrutatori,
Infirmarii
e
Revisori,
valendo
a
tale
scopo
anche
per
il
secondo
scrutinio
ciò
che
è
stato
fatto
nel
primo,
senza
alcuna
ripetizione»).
In
aggiunta
alla
violazione
delle
norme
sull’elezione
di
Bergoglio,
Socci
ritiene
che
Benedetto
XVI
non
abbia
mai
rinunciato
al
munus
petrino,
ma
solo
al
ministero,
cioè
all’esercizio
attivo,
all’esecuzione
concreta,
del
potere
di
governo
sulla
Chiesa
universale,
e
ciò
renderebbe
non
vacante
la
Sede
Apostolica.
Una
terza
violazione
(pag.
121)
riguarderebbe,
infine,
l’apertura
delle
schede
in
fase
di
conteggio.
Ciò,
infatti,
è
possibile
solo
nella
fase
successiva
e
cioè
quella
di
spoglio
vero
e
proprio.
Orbene
dinanzi
a
tali
doglianze,
il
giurista
non
può
che
rifarsi
ai
testi
normativi
e,
alla
luce
di
questi,
ritenere
assolutamente
infondate
le
asserzioni
del
saggista.
Preliminarmente
è da
sciogliere
il
dubbio
riguardante
la
rinuncia
all’incarico
effettuata
da
Papa
Benedetto
XVI
l’11
febbraio
2013
(cfr.
Benedetto
XVI,
declaratio
De
muneris
Episcopi
Romae,
Successoris
Sancti
Petri
abdicatione,
11
febbraio
2013,
in
Acta
Apostolicae
Sedis,
105
(2013),
239-240)
e,
quindi,
sulla
vacanza
o
meno
della
Sede
Apostolica.
La
vacanza
si
ha
in
caso
di
cessazione
dall’ufficio
per
quattro
ragioni:
morte,
certa
e
perpetua
pazzia
o
totale
infermità
mentale,
notoria
apostasia,
eresia
e
scisma,
rinuncia.
Per
aversi
valida
rinuncia,
ai
sensi
del
332,
§2,
del
Codice
di
Diritto
Canonico,
si
richiede
che
essa
«sia
fatta
liberamente
e
che
venga
debitamente
manifestata,
non
si
richiede
invece
che
qualcuno
la
accetti».
Le
condizioni
per
la
rinuncia,
pertanto,
sono
due:
deve
essere
libera
e
debitamente
manifestata.
Riguardo
alla
prima
condizione
una
rinuncia
viziata
da
timore
grave,
dolo,
errore
sostanziale
o
simonia,
sarebbe
ipso
iure
invalida
(cfr.
can.
188).
Ad
oggi
nulla
ci
potrebbe
far
dire
che
il
gesto,
forte
ed
umile,
di
Ratzinger
non
sia
stato
libero,
né -
seconda
condizione
-
debitamente
manifestato.
Infatti,
essa
è
avvenuta
pubblicamente
e
davanti
a
molti
testimoni
(il
can.
189,
prevede
che
sia
fatta
«per
iscritto
oppure
oralmente
di
fronte
a
due
testimoni»),
anzi
addirittura
durante
la
celebrazione
di
Concistoro
ordinario
pubblico,
giuridicamente
disciplinato
(cfr.
can.
353).
È
evidente,
allora,
che
Benedetto
XVI,
utilizzando
un’antica
possibilità
offertagli
dal
diritto
(can.
332:
Ǥ2.
Nel
caso
che
il
Romano
Pontefice
rinunci
al
suo
ufficio,
si
richiede
per
la
validità
che
la
rinuncia
sia
fatta
liberamente
e
che
venga
debitamente
manifestata,
non
si
richiede
invece
che
qualcuno
la
accetti»),
dimettendosi
non
è
più
Sommo
Pontefice
della
Chiesa
Universale
e,
pertanto,
anche
in
analogia
con
quanto
prescritto
per
gli
altri
uffici
ecclesiastici,
non
ha
alcuna
potestà
e
non
può
più
intromettersi
in
alcun
affare
di
governo.
Infatti,
la
tesi
di
Socci
(che
riprende
S.
Violi,
La
rinuncia
di
Benedetto
XVI.
Tra
storia,
diritto
e
coscienza,
in
Rivista
Teologica
di
Lugano,
18
(2013),
155-166),
di
dividere
il
munus
dal
ministero
“attivo”,
se
può
essere
discusso
da
un
punto
di
vista
teologico,
è
privo
di
fondamento
giuridico,
in
quanto
canonisticamente
la
rinuncia
ad
un
qualsiasi
ufficio
implica
la
cessazione
volontaria
dall’esercizio
dell’ufficio
stesso.
Ammettendo
per
assurdo
che
una
volta
eletti
Papa
lo
si è
per
sempre
da
un
punto
di
vista
ontologico
(similmente
cessa
giuridicamente
dall’ufficio
anche
un
Papa
pazzo
o
eretico
e
può
essere
eletto
legittimamente
un
nuovo
Papa;
altrimenti
si
avrebbe
una
vacanza
fino
alla
morte
del
Papa
dichiarato
pazzo
o
eretico),
è
comunque
nella
piena
libertà
del
Pontefice
regnante,
massima
espressione
della
sua
potestas,
rinunciare
all’esercizio
del
munus
petrino.
Cosa
diversa
è la
rinuncia
dei
Vescovi
ad
un
ufficio:
essi
lasciano
l’esercizio
dell’incarico
che
prima
detenevano
restando
Vescovi.
L’episcopato,
infatti,
è un
Sacramento
che
imprime
un
carattere.
Il
Papa,
invece,
non
è un
“supervescovo”,
non
è un
ulteriore
grado
dell’Ordine
sacro,
ma
sacramentalmente
un
vescovo
come
gli
altri,
anche
se
con
funzioni
e
compiti
differenti
iure
divino.
Va
quindi
distinto
l’aspetto
sacramentale
da
quello
giuridico.
Se
così
non
fosse,
se
l’elezione
a
Papa
creasse
un
qualcosa
di
irrinunciabile,
non
si
potrebbe
neanche
procedere
a
sostituire
un
Papa
pazzo
o
eretico,
così
come
giuridicamente
possibile
oggi.
Tralasciamo
comunque
quanto
viene
discusso
da
teologi,
canonisti
e
liturgisti
sulla
sacramentalità
o
meno
del
munus
petrino
e
sullo
status
del
Pontefice
rinunciatario.
Assodata
la
validità
della
rinuncia
di
Benedetto
XVI,
che
è
stata
- lo
ripetiamo
-
libera
e
debitamente
manifestata,
e,
di
conseguenza,
la
vacanza
della
Sede
Apostolica,
passiamo
ora
a
verificare
le
altre
affermazioni
del
Socci,
presupponendo
che
quanto
raccontato
da
lui
e
dalla
Piquè
fosse
vero.
Egli
stesso,
infatti,
rammenta
che
nella
Cappella
Sistina
entrano
solo
ed
esclusivamente
i
Cardinali,
i
quali,
in
forza
delle
norme
(cfr.
artt.
59 e
60)
e
del
giuramento
effettuato
(cfr.
artt.
52 e
53),
hanno
l’obbligo
di
mantenere
il
segreto
su
tutto
ciò
che
in
qualsiasi
modo
riguarda
l’elezione
e su
ciò
che
avviene
nel
luogo
dell’elezione,
concernete
direttamente
o
indirettamente
lo
scrutinio,
così
come
tutti
«coloro
che,
-
pena
la
scomunica
latae
sententiae
riservata
alla
Sede
Apostolica
-
in
qualsiasi
modo
…
prestano
la
loro
opera
di
servizio
per
le
incombenze
inerenti
all’elezione,
e
che
direttamente
o
indirettamente
potrebbero
comunque
violare
il
segreto
-
riguardi
esso
parole
o
scritti,
o
segni,
o
qualsiasi
altra
cosa
-
dovranno
assolutamente
evitarlo»
(art.
58.
Cfr.
anche
artt.
46,
47 e
48).
L’Autore,
credendo
assurdo
che
qualche
Cardinale
o
ecclesiastico
presente
durante
lo
svolgimento
dell’elezione
ha
violato
il
segreto
sui
fatti
accaduti
in
Conclave,
oltraggiando
il
giuramento
prestato
toccando
i
Vangeli,
insinua
che
l’andamento
degli
scrutini,
l’annullamento
di
una
votazione
e la
successiva
elezione
del
Card.
Jorge
Mario
Bergoglio
al
Sommo
Pontificato
siano
stati
riferiti
alla
giornalista
argentina
dallo
stesso
Papa,
il
quale
è
l’unico
che
può
divulgare
i
fatti
del
Conclave.
Ci
sembra
risibile,
però,
quanto
afferma
l’Autore
per
ritenere
vera
la
ricostruzione
dei
fatti
raccontati
dalla
Pique
alle
pagg.
39-40
del
suo
volume,
che
«ha
avuto
solo
conferme
e
nessuna
smentita»
(pag.
123).
Infatti,
chi
mai
potrebbe
confermare
o
smentire
quanto
svoltosi
in
Conclave
se
non
i
Cardinali
presenti,
i
quali,
però,
sono
vincolati
al
segreto?
Il
giornalista
Tornielli
o
L’Osservatore
Romano
o la
Radio
Vaticana,
per
il
solo
fatto
che
hanno
lodato
la
biografia
del
Pontefice
scritta
dalla
giornalista,
non
sono
certo
“istituzioni”
che
posso
confermare
o
smentire
i
fatti.
Detto
ciò,
analiziamo
le
violazioni
della
Costituzione
Apostolica
riferite
da
Socci.
Lo
stesso
Autore
ci
dice
che
la
scoperta
di
una
scheda
in
più
è
avvenuta
«in
fase
di
conteggio
e
non
di
scrutinio»
(pag.
117)
delle
schede.
Pertanto,
non
deve
essere
preso
in
considerazione
l’art.
69
della
UDG,
come
fa
l’Autore,
che
disciplina
lo
scrutinio
delle
schede,
ma
l’art.
68
(«…
l’ultimo
Scrutatore
procede
al
conteggio
di
esse,
prendendole
in
maniera
visibile
una
ad
una
dall’urna
e
riponendole
in
un
altro
recipiente
vuoto,
già
preparato
a
tale
scopo.
Se
il
numero
delle
schede
non
corrisponde
al
numero
degli
elettori,
bisogna
bruciarle
tutte
e
procedere
subito
ad
una
seconda
votazione;
se
invece
corrisponde
al
numero
degli
elettori,
segue
lo
spoglio
…»),
che,
invece,
detta
disposizioni
per
la
fase
precedente
e
cioè
quello
del
conteggio
delle
schede,
la
stessa
fase
in
cui
l’Autore
conferma
si
era.
Di
conseguenza,
se
dal
conteggio
sono
risultate
esservi
116
schede,
anziché
115
quanti
cioè
erano
i
cardinali
partecipanti
al
Conclave,
non
vi è
stata
violazione,
ma
anzi
rispetto
totale
del
dettato
normativo
e
quindi
bene
è
stato
fatto
nell’annullare
la
votazione
e
procedere
subito
ad
un’altra.
La
norma
in
questione,
infatti,
mira
proprio
a
verificare,
per
la
validità
dell’elezione,
che
il
numero
delle
schede
coincida
con
gli
elettori.
Quanto
disposto
dall’art.
68
della
UDG
lo
ritroviamo
anche
nel
can.
173
§ 3
del
CIC,
il
quale
afferma:
«Se
il
numero
dei
voti
supera
il
numero
degli
elettori,
nulla
si è
realizzato».
E
non
c’è
contraddizione
tra
le
soluzioni
offerte
dagli
articoli
68 e
69
ad
un
medesimo
problema,
come
affermato
dal
Socci
(pag.
117),
cioè
annullamento
totale
della
votazione
o
solo
del
voto,
perché
ci
troviamo
in
due
momenti
temporali
differenti,
il
conteggio
(art.
68)
e lo
spoglio
(art.
69),
e
non
si
potrebbe
avere
il
secondo
se
non
eseguito
e
concluso
il
primo.
Nel
primo
caso,
già
nel
conteggio
delle
schede
se
ne
ha
una
in
più
(quindi
sono
“distaccate”
tra
loro)
e
non
potendo
individuare
come
ha
votato
il
cardinale
“distratto”,
si
annulla
tutta
la
votazione;
nel
secondo
caso,
invece,
già
controllato
il
numero
delle
schede,
che
risultavano
essere
di
numero
pari
agli
elettori,
è
più
facile
capire
la
presenza
di
un
errore
(perché
veramente
le
schede
sono
«piegate
in
modo
da
sembrare
compilate
da
un
solo
elettore»)
e
quindi
decidere
se
mantenere
o
annullare
le
singole
schede,
dando
una
via
d’uscita
agli
Scrutatori.
Se
non
si
ragionasse
per
fasi,
allora
sì
che
ci
sarebbe
contraddizione
tra
le
norme.
Quale
articolo
si
dovrebbe
utilizzare,
il
68 o
il
69?
E
perché
uno
anziché
l’altro?
L’Autore
(pag.
118),
per
ovviare
alla
non
applicazione
dell’art.
68,
ritiene
che
non
importa
il
“quando”
siano
state
ritrovate
le
schede,
cioè
se
in
fase
di
conteggio
o di
spoglio,
ma
il
“come”
(“attaccate”
una
all’altra)
e,
quindi
andrebbe
applicato
direttamente
l’art.
69
(sarebbe
interessante
capire
come
due
schede
da
20
cm x
14
si
“attacchino”
e
non
si
stacchino
dopo
averle
deposte
nell’urna,
smosse
e
prese
per
il
conteggio.
Al
massimo
possano
essere
piegate
una
dentro
l’altra.
Invero
anche
la
Costituzione
Apostolica
non
utilizza
il
termine
“attaccate”,
ma «duas
schedulas
ita
complicatas,
ut
ab
uno
tantum
datas
esse
appareat,
…»).
Tale
tesi
non
può
essere
accolta.
Infatti
se
nella
fase
preliminare
dello
scrutinio,
quello
cioè
del
conteggio
delle
schede,
non
è
stata
riscontrata
la
coincidenza
tra
elettori
e
votanti,
non
è
possibile
passare
alla
fase
successiva
dello
scrutinio.
E
ciò
spiega
non
solo
la
presenza
di
due
articoli
con
due
soluzioni
differenti,
ma
anche
quale
articolo
utilizzare,
se
il
68 o
il
69,
a
seconda
del
momento
dello
scrutinio
in
cui
ci
troviamo.
Pertanto,
premesso
che
si
era
in
fase
di
conteggio
e
che
il
numero
delle
schede
era
superiore
a
quello
dei
votanti,
secondo
quanto
riferisce
lo
stesso
Socci,
non
si
può
non
applicare
l’art.
68
che
impone
l’annullamento
della
votazione
e la
sua
ripetizione.
L’Autore
ritiene
che
applicando
in
questi
casi
l’art.
68
uno
o
più
Cardinali
potrebbero
attuare
azioni
di
sabotaggio
del
Conclave
nel
caso
cui
non
volessero
far
eleggere
qualche
candidato
a
loro
avverso
inserendo
una
scheda
in
più
nell’urna.
Anche
se
tecnicamente
possibile,
ritengo
inverosimile
avanzare
dubbi
così
rilevanti
sulla
buona
fede
dei
Cardinali
sia
perché
non
si
tiene
conto
dell’alto
compito
a
cui
sono
chiamati
in
quel
preciso
momento
degli
uomini
di
Chiesa,
sia
perché
in
tal
caso
gli
Scrutatori
potrebbero
verificare
più
attentamente
a)
che
gli
elettori
tengano
in
alto,
prima
del
voto,
una
sola
scheda
e b)
che
ciascuno
inserisca
una
sola
scheda,
così
come
in
tutte
le
elezioni
che
si
svolgono
nel
mondo
(L’art.
66
prevede
che
«ciascun
Cardinale
elettore,
in
ordine
di
precedenza,
dopo
aver
scritto
e
piegato
la
scheda,
tenendola
sollevata
in
modo
che
sia
visibile
la
porta
all’altare,
presso
il
quale
stanno
gli
Scrutatori
e
sul
quale
è
posto
un
recipiente
coperto
da
un
piatto
per
raccogliere
le
schede.
Giunto
colà,
il
Cardinale
elettore
pronuncia
ad
alta
voce
la
seguente
formula
di
giuramento
….
Depone,
quindi,
la
scheda
nel
piatto
e
con
questo
la
introduce
nel
recipiente.
Eseguito
ciò,
fa
inchino
all’altare
e
torna
al
suo
posto»).
L’errore
sull’inserimento
di
due
schede,
quindi,
può
avvenire
una
volta,
al
massimo
due,
non
oltre.
Veniamo
ora
alla
seconda
presunta
violazione
riferita
dal
Socci
e
cioè
il
divieto
di
un’ulteriore
votazione
nella
giornata
del
13
marzo,
essendo
quella
annullata
già
la
quarta
ed
ultima.
È
vero
che
l’art.
72
della
UDG
prevede,
ad
eccezione
del
pomeriggio
d’inizio
del
Conclave,
un
massimo
di
quattro
votazioni
al
giorno,
due
al
mattino
e
due
al
pomeriggio,
tuttavia
anche
in
questo
caso
i
Padri
Cardinali
riuniti
in
Conclave
non
hanno
violato
alcunché.
Infatti,
avendo
proceduto
ad
annullare
la
quarta
votazione
per
i
motivi
di
cui
sopra
è
stato
rispettato
in
pieno
il
testo
legislativo
pontificio
che
prevede
che
si
proceda,
dopo
l’annullamento
ex
art.
68,
ad
una
nuova
votazione.
Questa
nuova,
valida,
votazione
è da
ritenersi
a
tutti
gli
effetti
la
quarta
ed
ultima
della
giornata.
Quella
annullata,
per
il
diritto,
è
come
non
fosse
mai
esistita:
tamquam
non
esset
o «nihil
est
actum»
per
riprendere
il
can.
173,
§ 3.
Infine
è
necessario
chiarire
un’ultima
violazione,
la
terza,
riferita
dal
Socci
e
cioè
l’apertura
delle
schede
in
fase
di
conteggio.
Infatti,
l’Autore
ci
dice
che
le
due
schede
attaccate
erano
una
segnata
con
il
nome
del
prescelto
ed
un’altra
bianca.
Ora,
non
sappiamo
esattamente
se
ciò
fosse
stato
scoperto
in
fase
di
conteggio
delle
schede
e
come
siano
andate
effettivamente
le
cose
o
se,
comunque,
lo
si è
venuto
a
sapere
dopo,
magari
dallo
stesso
Cardinale
“distratto”,
tuttavia
l’aver
trovato
una
scheda
in
più
in
fase
di
conteggio
e
annullata
la
votazione
assorbe
qualsiasi
eventuale
errore
commesso
dagli
scrutatori
e,
comunque,
non
sarebbe
un
errore
nella
procedura
invalidante
dell’intera
votazione.
L’Autore
conclude
il
capitolo
del
suo
volume
ritenendo
utile
convocare
un
nuovo
Conclave
per
sanare
la
questione
e
per
non
creare
una
prassi
materiale
differente
a
quanto
previsto
dalla
UDG,
anche
perché,
citando
autorevole
dottrina
canonistica
(cfr.
S.
C.
Corral
- V.
De
Paolis
- G.
Ghirlanda
(a
cura
di),
Nuovo
dizionario
di
diritto
canonico,
San
Paolo,
Cinisello
Balsamo
1993,
937),
ritiene
che
in
dubio
il
Papa
non
è
Papa.
È da
notare,
però,
che
non
è il
dubbio
di
uno
o di
pochi
a
rendere
vana
l’elezione
di
un
Pontefice,
a
maggior
ragione
se
nessun
Cardinale,
da
quanto
risulta,
né
durante,
e
neanche
dopo
il
Conclave,
ha
ritenuto
invalida
l’elezione
e
quindi
“inabile”
al
ministero
petrino
Papa
Francesco.
Sarebbe,
pertanto,
assolutamente
fuori
luogo,
oltre
che
assolutamente
un
pericoloso
precedente,
convocare
un
nuovo
Conclave
(convocare
un
Conclave
vivente
Pontifice,
inoltre,
porrebbe
non
pochi
problemi
“organizzativi”.
P.es.:
chi
lo
convocherebbe?
Chi
dichiarerebbe
“deposto”
l’attuale
Pontefice?
Etc.).
Per
i
motivi
sopra
esposti,
pertanto,
l’elezione
del
Card.
Jorge
Mario
Bergoglio
al
soglio
pontificio
è
legittima
e
valida
a
tutti
gli
effetti
e «dal
momento
dell’accettazione»
ha
ottenuto
«la
potestà
piena
e
suprema
sulla
Chiesa»
(can.
332,
§
1).
Riferimenti
bibliografici:
A.
Socci,
Non
è
Francesco.
La
chiesa
nella
grande
tempesta,
Mondadori,
Milano
2014.
E.
Piquè,
Francesco.
Vita
e
rivoluzione,
Lindau,
Torino
2014.
Giovanni
Paolo
II,
Costituzione
Apostolica
Universi
Dominici
gregis,
22
febbraio
1996,
in
Acta
Apostolicae
Sedis,
88
(1996),
305-343.
Giovanni
Paolo
II,
Costituzione
Apostolica
Sacrae
disciplinae
leges,
25
gennaio
1983,
in
Acta
Apostolicae
Sedis,
75
(1983),
Pars
II.
G.
Ghirlanda,
Cessazione
dall’ufficio
di
Romano
Pontefice,
in
Civiltà
Cattolica,
2013,
I,
445-462.