N. 140 - Agosto 2019
(CLXXI)
Quando muore un poeta...
in
ricordo
di
valerio
Tomassini
deustua
di
Sergio
Taccone
La
cronaca
nera
della
Capitale,
lo
scorso
23
agosto
2019,
ha
riportato
la
fine
violenta
di
Valerio
Tomassini
Deustua,
41
anni,
poeta,
tessitore
di
versi
capaci
di
arrivare
direttamente
nel
fondo
del
fondo
dell’anima.
Essenziale
e
puro.
L’hanno
trovato
tra
i
cassonetti
alla
periferia
nord
di
Roma.
Una
coltellata,
letale
come
il
morso
di
un
cobra.
Morte
per
dissanguamento
in
totale
solitudine.
Peggio
di
un
cane
randagio.
Ci
sarà
un’indagine
per
chiarire
tutti
i
particolari
poi
la
vicenda
verrà
archiviata
come
un
fatto
di
cronaca
legato
a
degrado
e
tossicodipendenza.
Ma
Valerio
Tomassini
Deustua
era
un
autore
autentico,
prolifico
e
mai
banale,
nipote
del
grande
poeta
peruviano
Raul
Deustua
(1921-2005),
suo
mentore
letterario.
«Tanto
mi
ha
insegnato,
mio
nonno,
sulla
vita
e
sulla
poesia.
Anche
se
so
bene
che
tra
di
noi
c’è
un
abisso»,
ricordava
Valerio.
Nel
suo
girovagare
ramingo
ai
margini
della
società
non
mancava
mai
un
quaderno
dove
riportare
i
suoi
versi,
con
scrittura
tanto
fitta
e
microscopica
quanto
ordinata,
sempre
alla
ricerca
delle
parole
giuste
per
esprimersi
e
comunicare.
Un
clochard
che
per
sfuggire
alla
solitudine
e
alla
noia
trovava
nei
libri
e
nelle
parole
il
miglior
sollievo.
“La
noia,
il
nostro
peggior
nemico.
Neanche
ce
ne
accorgiamo
e
l’abominio
è
compiuto”,
scriveva
in
uno
dei
suoi
versi
ritrovati
da
Ginevra
Bentivoglio,
editrice
nel
2008
di
una
splendida
silloge
di
Valerio.
Un
uomo
mite
e
buono,
finito
nel
gorgo
di
persone
e
giri
sbagliati.
Come
Foben,
il
barbone
del
film
Una
pura
formalità,
che
annotava
sui
muri
dei
quartieri
più
degradati
parole
apparentemente
senza
senso
ma
che
in
realtà
celavano
il
libro
più
bello
che
avesse
mai
scritto,
compreso
dagli
altri
solo
dopo
la
sua
morte
avvenuta
nella
più
completa
solitudine
e
degrado.
Valerio
era
dotato
di
una
capacità
analitica
nel
descrivere
la
sua
esistenza
così
sviluppata
da
convincere
medici
ed
esperti,
che
lo
hanno
avuto
in
cura,
a
bollare
tutto
come
una
finzione
(“Se
la
nuvola
si
spezza,
tuono
nelle
orecchie,
tu
canti
e
nessuno
sembra
udirti”,
così
Roger
Waters
descriveva
mirabilmente
l’incomunicabilità
e
l’alienazione
dei
tempi
moderni).
Le
comunità
terapeutiche
sono
state
incapaci
di
domarlo,
con
operatori
troppo
attenti
alle
pratiche
burocratiche
e
alle
check
list
e
molto
meno
alla
sofferenza
vera.
In
fondo
a
chi
potevano
interessare
i
suoi
“giochi
cerebrali”.
Nel
2009
conobbi
Valerio
a
Portopalo
di
Capo
Passero,
in
provincia
di
Siracusa,
dove
“Er
Poeta”
(come
veniva
chiamato
già
a 15
anni
dai
suoi
compagni
del
liceo),
venne
invitato
a
ritirare
un
premio
nazionale
di
poesia
per
la
sua
raccolta
Le
fate
sanguinano
e io
non
so
che
fare,
pubblicata
perché
le
emozioni
da
cui
erano
nati
i
suoi
versi
non
andassero
perdute
o
rimanessero
confinate
solo
nella
sua
memoria.
Fu
spontaneo
e
diretto,
capace
di
andare
oltre
ogni
formalismo.
Salì
sul
palco,
lesse
una
sua
poesia
guardando
sua
madre
che
dalla
platea
lo
osservava
compiaciuta.
«La
poesia
è la
mia
vita»,
disse
con
una
fierezza
che
non
celava
le
salite
sempre
più
ripide
e
continue
della
sua
esistenza.
Con
gli
introiti
delle
vendite
di
quel
libro
ricavò
un
piccolo
gruzzolo
che
gli
permise
di
ricominciare,
uscendo
dalla
clinica
psichiatrica
che
lo
teneva
parcheggiato
in
una
stazione
di
transito
immersa
nella
noia
più
cupa.
Valerio
è
stato
un
“perdente
vestito
di
sogno”,
come
uno
dei
personaggi
descritti
da
Osvaldo
Soriano,
in
fuga
perenne,
refrattario
ad
arrendersi
all’ideologia
degli
uomini
mediocri
che
accettano
felicemente
la
loro
mediocrità.
Ribelle
e
fuggitivo,
disposto
a
esaltare
quei
valori
che
gli
sconfitti
di
sempre
conservano
in
silenzio:
la
fratellanza
dei
solitari,
cose
che
non
si
possono
comprare
e
vendere
né
apprezzare
meglio
con
la
realtà
virtuale.
Mazzolato
dalla
vita,
antieroe
tenero
capace
di
convivere
con
la
tragedia
senza
darlo
a
intendere,
con
ritrosia
e
pudore.
Poeta
che
non
ha
mai
perso
la
capacità
di
sorprendersi
né
quella
di
indignarsi,
abile
a
scovare
il
ridicolo
e il
grottesco
persino
nelle
situazioni
più
tragiche.
Grande
uomo
in
un
mondo
di
uomini
piccoli,
in
possesso
di
valori
come
dignità,
solidarietà
e
decenza,
spinto
da
passioni
semplici
e da
una
curiosità
insaziabile,
capace
di
masticare
ogni
briciola
di
vita
che
gli
capitava
a
tiro
con
un
dolce
mezzo
sorriso,
abile
a
divorare
tutta
l’aria
del
mondo
con
una
sola
boccata,
succhiando
fino
in
fondo
la
polpa
della
vita
e
buttando
via
la
scorza.
Anche
se
la
vita
spesso
gli
faceva
male.
Dolente,
trasognato
e
ironico,
dotato
di
uno
sguardo
che
sapeva
ridere
della
pietà.
Il
finale
è
piombato
tragicamente,
anticipando
l’ora
senz’ombra.
Tante
le
telefonate
arrivate
al
suo
editore,
a
conferma
di
una
diffusa
sensazione
di
incredulità
per
la
fine
improvvisa
e
violenta
del
poeta.
Valerio
Tomassini
Deustua
ci
ricorda,
per
citare
ancora
Soriano,
quanto
terribile
sia
l’indifferenza:
restano
amicizie
fugaci
e
piccoli
momenti
d’amore.
In
una
sua
poesia
si
concentrava
sulla
fine
peggiore:
“La
morte
della
mia
anima
è
tutti
i
giorni,
ogni
volta
che
mi
discosto
dalla
verità
e
ripeto
i
miei
errori.
Come
un
automa,
o
peggio,
un
idiota”.
Quando
muore
un
poeta
tutti
diventiamo
più
poveri.