N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE XX - Le donne del Bangladesh
di Gianrigo Marletta
Cox’s
Bazar,
è
quasi
mezzanotte.
Fuori
fa
un
caldo
spaventoso.
Umido,
non
un
filo
d’aria.
Il
mare
è
appena
a
cento
metri
dal
terrazzo
della
mia
stanza
d’albergo
ma
neanche
un
accenno
di
aria
fresca
in
movimento.
Oggi
sulla
spiaggia
le
donne
sono
state
il
fulcro
della
mia
giornata,
le
regine
della
mia
attenzione.
Al
di
là
di
quelle
indossanti
il
burka,
solitamente
nero,
esse
hanno
riempito
la
spiaggia
di
mille
colori.
I
Sari,
veli
finissimi
di
seta
attorcigliati
intorno
alle
minute
spalle
femminili
coprendo
la
testa
a mo
di
cappuccio,
sventolavano
al
lieve
vento
che
arrivava
dall’orizzonte
insieme
alle
onde.
Con
il
bordo
d’oro
o
argentato,
ogni
velo,
ha
una
ricca
varietà
di
colori,
colori
accesi.
Ogni
donna
sembrava
messa
lì
apposta
per
dar
vita
alla
tinta
scura
e
catramosa
della
sabbia
e
per
alleviare
la
pena
che
qui
si
assorbe
semplicemente
respirando
nell’aria.
“Siamo
poveri,
il
Bangladesh
è un
paese
sottosviluppato”-
tutti,
indifferentemente
dal
modo
di
vestire,
ceto
sociale
e
grado
di
conoscenza
dell’inglese,
intonano
questa
lamentela.
Un
commento
imbarazzante
che
pronunciano
con
vergogna,
sottomessi.
Tutto
questo
segue
sempre
un
attento
e
profondo
interrogatorio,
che
immancabilmente
avviene
ad
ogni
incontro
con
qualsiasi
abitante:
da
che
paese
vieni?
Perché
visiti
il
Bangladesh?
Quanto
tempo
rimani?
Ti
piace
il
nostro
paese
?
Sei
musulmano?
Domande
accompagnate
da
un
sorriso
e da
una
curiosità
sincera,
quasi
infantile.
Sicuramente
hanno
visto
pochissimi
“bianchi”
in
carne
ed
ossa,
uomini
dall’occidente
e
non
bisogna
farsi
sfuggire
l’occasione
per
parlarci,
per
sentire
che
tonalità
di
voce
abbiano,
che
sguardo
posino
sulle
cose,
che
cosa
dicano
e
pensino.
I
loro
occhi
guardano,
studiano
scrupolosamente
ogni
mio
movimento,
ogni
espressione.
Vogliono
confrontarlo
con
i
loro
modi,
vogliono
mettermi
a
confronto,
ma
lo
fanno
con
umiltà
o
ancor
peggio
con
senso
di
inferiorità.
Loro
sono
gli
abitanti
di
un
paese
sottosviluppato
e di
questo
sentono
quasi
di
doversi
scusare.
Se
non
camminassi
dritto
fingendo
di
non
udire
l’attacco
della
prima
di
tutte
quelle
domande,
che
mi
verrebbero
poste
ad
ogni
incontro
di
sguardo,
da
ogni
passante,
per
strada,
nei
negozi,
in
albergo,
al
ristorante,
in
spiaggia,
non
riuscirei
ad
arrivare
da
nessuna
parte.
Domande
che
provengono
da
poliziotti,
camerieri,
tassisti,
facchini,
studenti,
professori,
mendicanti,
chiunque
si
possa
incontrare.
Tutti,
ma
solo
uomini.
Le
donne
non
chiedono.
Le
donne
a
dire
il
vero
non
si
vedono.
Nei
mercati,
nei
negozi,
nelle
sale
da
tè,
nei
ristoranti
solo
e
soltanto
uomini.
Neanche
per
la
strada
è
facile
scorgerne
qualcuna.
Chissà
dove
sono
tutte,
cosa
fanno.
Rimarranno
a
casa
tutto
il
giorno.
È
così
che
funziona
nei
paesi
musulmani.
Ma
qui?
In
Bangladesh?
Un
paese
che
fino
a
poco
più
di
cinquant’anni
fa
era
India
e
cioè
subcontinente
portato
avanti
quasi
interamente
dalle
donne.
Donne
scorreggione
e
ruttanti
che
urlano,
sputacchiano,
inveiscono,
al
mercato,
nei
negozi,
nei
ristoranti.
Donne
che
impongono
i
prezzi,
che
barattano,
che
scacciano,
che
decidono.
Ma
qui
vederle,
semplicemente
scovarle
per
strada,
è
raro.
Solo
oggi
che
è
Venerdì
(giorno
sacro)
se
ne
son
viste
così
tante
e
tutte
riunite
in
quel
luogo
di
ricreazione,
al
mare.
Per
qualche
ragione
tutti
quei
veli
di
colori
diversi,
vividi,
arancioni,
gialli,
rossi,
viola,
verdi,
accesi,
mi
hanno
riempito
la
giornata.
Ho
passato
ore
a
fotografarle,
a
filmarle.
Inquadravo
gruppetti
di
loro,
completamente
vestite,
timidamente
immergersi
nel
mare,
senza
però
andare
oltre
l’altezza
delle
ginocchia.
Solo
bambini
e
uomini
si
tuffano
completamente,
a
loro
sono
riservati
i
giochi
nell’acqua,
le
capriole
ed i
salti
nelle
onde.
Ma
questo
alle
donne
non
sembra
turbare,
loro
erano
lì,
sempre
in
gruppo,
a
chiacchierare,
a
sorvegliare
figli
e
nipoti,
a
colorare
quella
sabbia
grigia
e
scura.
E
che
strano
per
me,
cresciuto
tra
perizomi
e
topless,
vedere
tanta
discrezione.
Una
tortura!
Viene
da
pensare
a
primo
impatto
e se
non
si
osserva
bene,
in
effetti,
si
rischia
davvero
di
dare
questo
giudizio.
Tutti
quei
vestiti
al
mare?
Ma
qui
non
esiste
il
concetto
di
abbronzatura,
anzi,
le
donne
si
considerano
belle
o
meno
dal
grado
di
bianco
del
derma.
Nelle
spazzature
si
scovano
sempre
bottigliette
di
creme
sbiancanti
per
la
pelle.
Sarà
perché
tutte
le
modelle
(dunque
modelli
di
bellezza)
appese
sui
grandi
cartelloni
pubblicitari
sbarcano
direttamente
dall’Europa
o
dall’America?
Chissà.
Sarà
a
causa
dei
nostri
film
e
delle
nostre
star
che
loro,
le
bellissime
donne
mulatte,
vogliono
assomigliare
ed
essere
bianche
come
loro?
Chissà.
Lungi
dunque
da
loro
l’idea
di
abbronzarsi.
E
poi
la
spiaggia
è un
luogo
di
svago,
un
luogo
d’incontro,
un
posto
frequentato
da
moltissime
persone.
Dunque
perché
denudarsi?
Perché
sdraiarsi
sotto
il
sole
rovente
su
un
asciugamano
poggiato
sulla
sabbia
rovente
a
bruciacchiarsi
la
pelle
in
balia
di
calore
e
sudore?
Non
è
anche
questa
una
forma
di
tortura?
No,
al
mare
s’indossano
le
vesti
migliori,
si
cerca
di
far
colpo,
di
affascinare.
Si
cerca
il
commento
positivo,
bisogna
apparire,
mostrarsi.
E
non
mostrare
le
tette
rifatte
o il
culetto
sodo
costruito
in
palestra,
ma
mostrare
il
proprio
ceto
sociale,
il
proprio
carattere,
la
propria
posizione.
Come?
Indossando
la
veste
migliore,
addobbandosi
con
gioielli,
spruzzandosi
col
miglior
profumo.
Le
donne
oggi,
come
ieri
e
come
sempre,
qui
in
Bangladesh,
come
in
India
e
come
in
gran
parte
del
Terzo
Mondo,
mostrano
tutta
la
loro
bellezza
e
femminilità,
fierezza
ed
umiltà
semplicemente
coprendosi
e
non
denudandosi,
insegnandomi
qualcosa
di
diverso,
mostrandomi
costumi
opposti
dai
nostri,
riempiendo
la
mia
giornata
di
colori
e di
rispetto.
Ora
dal
mio
balconcino
avvolto
in
un’atmosfera
di
calura
ed
afa,
affacciato
sulla
stradina
sterrata
che
porta
in
spiaggia,
perdo
lo
sguardo
verso
i
pedalatori
dei
rikshò,
accucciati
sul
piccolo
sedile
riservato
ai
clienti,
intenti
a
cercar
di
prender
sonno,
avvolti
in
quella
stessa
atmosfera
soffocante,
scacciando
mosche
e
zanzare.
I
lumini
ad
olio
penzolanti
dai
loro
carretti
lentamente
si
spengono
lasciando
che
il
buio
li
inghiotti
nelle
tenebre.
Un’altra
giornata
di
fame
è
finita,
un
altro
giorno
senza
clienti,
senza
lavoro,
senza
bakshish,
senza
paga.
Tranquilli
e
sconsolati
questi
pedalatori
eterni
si
abbandonano
al
sonno
e
chissà
che
pensano,
che
cosa
sperano,
a
chi
si
rivolgono.
Di
giorno
vengono
da
me.
“Where
you
go?”
– “Please!”
mi
pregano,
offrendomi
di
portarmi
qua
e
là,
condannandomi
a
quel
cruccio
eterno
di
non
sapere
se è
peggio
farmi
trainare
su e
giù
per
strade
sterrate
e
tortuose
da
un
uomo
che
faticosamente
pedala
sudando
l’anima
o
rifiutare
e
quindi
lasciarlo
alla
fame.
Una
scelta
dura
ma
facilmente
condizionata
da
quello
sguardo
implorevole
– “please!”.
Spesso
ho
preso
rikshò
quando
non
mi
servivano,
talvolta
per
poche
decine
di
metri,
una
scusa
per
dar
loro
qualche
soldo.
A
volte,
dopo
cena,
uscivo
per
una
passeggiata
digestiva
ma
pochi
istanti
dopo
mi
ritrovavo
seduto
sul
carretto,
con
la
pancia
piena
e
più
pesante
del
solito,
a
farmi
portare
intorno
all’isolato.
Ma
di
rikshò
qui
ce
ne
sono
a
centinaia
e
solo
in
rare
occasioni
capita
loro
di
trasportare
qualcuno.
Alle
volte
passano
cinque
o
sei
giorni
senza
nemmeno
un
cliente.
E in
tutto
quel
tempo,
se
non
si
pedala,
non
si
mangia,
non
si
mette
nulla
nello
stomaco
perché
sono
quei
pochi
centesimi
guadagnati
dopo
quell’immane
fatica
che
comprano
il
pasto,
il
pasto
del
giorno.
Si
vive
alla
giornata
da
queste
parti
ed è
dalle
sue
grazie
che
dipendono
gioia
e
sopravvivenza.
Ma
loro
ora
cercano
di
dormire
e
per
qualche
ora
forse
evaderanno
dalla
sofferenza
sognando
posti
lontani,
castelli
d’orati
pieni
di
cibo,
letti
comodi
e
vesti
pulite
o
forse,
dato
che
la
fantasia
non
arriverà
così
lontana,
sogneranno
semplicemente
un
cliente,
uno
che
voglia
andare
lontano
lontano
pagando
così
una
grande
bakshish.