N. 32 - Agosto 2010
(LXIII)
ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE Xvi – in america
di Gianrigo Marletta
Soffro
in
un'America,
o
forse
dovrei
precisare
lo
stato,
in
un
Texas
chiuso
e
bigotto.
Soffro
nell'ascoltare
le
donne
parlare
di
Dio
la
domenica
come
un
loro
unico
protettore,
come
un
essere
fatto
a
posta
per
loro.
Soffro
perché
parlano
di
Dio
e
poi
ammettono
di
essere
razziste.
Lavoro
in
un
piccolo
ristorante.
È il
ristorante
che
mio
zio
ha
appena
aperto.
Lavoro
qui
per
farmi
un
po'
di
soldi
per
continuare
a
viaggiare.
In
questo
ristorantino,
la
Domenica
verso
mezzogiorno,
appena
usciti
da
messa,
vengono
tutti
questi
signori
ben
vestiti
e
accompagnati
dalle
loro
mogli
truccate
fino
al
collo.
Si
siedono,
superiori.
Non
salutano,
non
ringraziano.
Ordinano,
pretendono.
Io,
che
sono
uno
che
non
ama
star
zitto,
mi
avvicino
puntualmente
ai
tavoli
ed
inizio
a
conversare
con
loro.
Posso
perché
mi
dipingo
come
uno
dei
proprietari.
Con
un
sorriso
finto
e
una
cortesia
falsa
inizio
a
far
domande.
Chiedo
cosa
ne
pensano
di
questa
campagna
elettorale,
della
guerra
in
Iraq,
dei
neri
e
degli
Italiani.
Scherzo,
non
chiedo
nulla
sugli
italiani.
Loro
bevono
birra.
Dov'è
la
spiritualità
nell'uscire
dalla
Casa
di
Dio
ed
entrare
in
un
ristorante
per
ingozzarsi
di
cibo
e
birra?
Dov'è
la
spiritualità
nell'indossare
tutte
quelle
camicie
e
cravatte
costose
e
coprirsi
di
gioielli
e
profumo
per
entrare
nella
Casa
di
Dio?
Ma
torniamo
alle
conversazioni
al
tavolo.
Con
petto
in
fuori,
voce
alta
e
tono
arrogante
tirano
fuori,
come
recitata,
tutta
la
loro
fierezza
di
appartenere
al
(e
questo
termine
non
mi è
nuovo)
“mondo
libero”.
Mondo
libero?
Ma
come?
Un
paese
in
cui
puoi
andare
in
giro
con
un
fucile
a
pompa
alla
tenera
età
di
diciotto
anni
ma
non
puoi
bere
una
birra
in
compagnia
fino
ai
ventuno.
Dove
la
nazione
intera
si
sbalordisce
quando
alle
elezioni
presidenziali
vi
si
presentano
candidati
neri…
e
donne.
Dove
devi
temere
di
andare
a
scuola
perché
un
qualsiasi
squilibrato
potrebbe
entrare
in
calasse
e
sparare
a
tutti.
Un
mondo
libero
in
cui
se
dici
di
essere
comunista,
anarchico,
musulmano,
messicano,
nero
o
vegetariano
ti
guardano
male,
t’insultano
e ti
buttano
fuori.
Una
signora
una
volta
mi
ha
detto
di
esser
stata
in
India.
In
India?
Una
signora
dal
Texas
è
andata
in
India?
I
miei
occhi
s’illuminarono
e si
spensero
subito:
-
"Sì
sono
andata
con
un
gruppo
di
missionari
a
portare
la
parola
di
Dio".
Ha
iniziato
a
parlarmi
di
come
gli
unici
indiani
buoni
siano
quelli
convertiti,
quelli
che
"hanno
trovato
il
Signore"!
Un'altra
signora
mi
spiegava
come
il
Nostro
Dio
sia
migliore
del
Loro,
riferendosi
ai
musulmani.
Insomma,
le
storie
sono
tante,
il
punto
uno:
queste
sono
persone
“ben
educate”,
ricchissime
e
che
dovrebbero
fare
la
differenza
in
questo
paese.
Se
non
loro
chi?
Soffro
in
un
Texas
che
non
è
aperto
al
mondo,
in
un
Texas
che
crede
che
il
Texas
sia
il
mondo
e
che
tutto
ciò
che
non
sia
Texas
sia
inferiore.
L'America
non
si
guarda
allo
specchio.
È
brutta
e si
crede
bella.
È
arrogante
e
cafona.
Negli
ultimi
anni
si
sono
moltiplicati
gli
adesivi
attaccati
sui
paraurti
delle
macchine
con
la
scritta
“support
our
troops”,
una
su
tre
ce
l’ha,
supporta
le
nostre
truppe.
E
non
un
adesivo
che
dica:
supporta
i
popoli
che
le
nostre
truppe
ogni
giorno
bombardano,
stuprano,
torturano.
Come
disse
un
bravo
politico
al
Convegno
Nazionale
Democratico
di
Denver:
“Come
fa
questa
frase
support
our
troops
a
giustificare
il
“metterle
dove
non
vanno”?
Ormai
qualche
mese
fa,
mentre
ero
nel
Texas,
ho
avuto
uno
di
quei
rari
sogni
che
rimangono
conficcati
nella
testa.
Quasi
mai
i
sogni
mi
restano
impressi
nella
memoria.
Questo
però
era
tanto
insolito
quanto
appiccicoso.
Mi
trovavo
a
San
Francisco
ed
ero
felicissimo.
Non
ci
ero
mai
stato
eppure
la
mia
mente
la
ricostruì
in
maniera
abbastanza
dettagliata.
Quello
strano
senso
di
gioia
mi
si
ripresentava
ogni
qualvolta
ripensavo
al
sogno.
Il
Texas
è
stato
un
inferno
e
forse
i
sogni
sono
stati
gli
unici
momenti
di
gioioso
svago
a
mia
disposizione.
Comunque,
per
farla
breve,
gli
eventi
mi
ci
hanno
portato
a
San
Francisco
ed
io
voglio
raccontare
ciò
che
questa
città
mi
ha
trasmesso.
Qualcuno
sa
perché
il
Golden
Gate
si
chiama
così?
Cancello
d’Oro.
Cancello?
È un
ponte!
D’oro?
È
rosso!
Beh,
questo
nome
venne
dato
nel
1848
da
un
marinaio
di
cui
dimentico
il
nome.
Su
una
placca
conficcata
nel
terreno,
vicino
alla
sponda
nord
del
ponte,
vi è
una
romanticissima
frase
che
questo
marinaio
scrisse.
Non
ricordo
esattamente
come
faceva
ma
più
o
meno
diceva
così:
“Mi
volto
a
guardare
per
l’ultima
volta
questa
baia
incantata,
con
i
palazzi
argentati
di
San
Francisco
ed
il
cancello
dorato
che
rappresenta
la
linea
di
partenza.
Davanti
a me
il
Pacifico...”.
Egli
si
riferiva
alle
sponde
che
racchiudono
lo
stretto.
Arrampicandomi
sul
cucuzzolo
più
alto
di
uno
dei
tanti
monti
che
circondano
la
baia
capisco
finalmente
la
geografia
di
questa
costa
meravigliosa.
San
Francisco
si
appoggia
su
una
penisola
incastrata
all’interno
della
gigantesca
insenatura:
le
due
punte
che
la
chiudono
distano
un
miglio
l’una
dall’altra,
formando
il
Golden
Gate.
Per
entrare
o
uscire,
via
mare,
bisogna
passare
sotto
al
ponte
rosso,
il
Golden
Gate
Bridge,
che
collega
i
due
capi.
Ho
passato
la
giornata
a
fissare
questo
strano
golfo.
Navi
ricche
di
merci
entravano
e
uscivano
a
grandi
velocità.
Con
un
po’
di
fantasia
ho
immaginato
di
vivere
nell’epoca
di
quel
marinaio,
in
cui
tutto
era
ancora
fatto
di
legno
e il
vento
sostituiva
il
gasolio.
Quando
partire
significava
non
sapere
se
si
ritornava.
Quando
la
direzione
era
data
dal
sole,
le
stelle
e
forse
dalla
bussola.
Quando
salpare
significava
avventura,
quando
non
tutto
era
già
stato
scoperto.
Guardare
le
navi
d’acciaio
nascoste
sotto
lo
stracarico
dei
container
colorati,
d’acciaio
pure
loro,
lasciare
la
scia
di
spuma
bianca
dei
motori
ed
immaginare
invece
i
velieri
di
legno
con
le
loro
forme
così
romantiche,
artistiche
ed
antiche
mi
sembrava
più
divertente
ed
ispirante.
Ho
scattato
una
foto
accanto
alla
statua
di
bronzo
del
marinaio
ignoto.
Un
monumento
dedicato
a
tutti
i
marinai.
Sarà
banale
ma
anche
io
mi
sono
sentito
rappresentato
da
quell’uomo
di
metallo.
Io
che
non
ho
mai
salpato
da
un
porto,
tranne
che
su
qualche
traghetto
in
Asia
e in
Sicilia,
che
non
ho
mai
passato
notti,
settimane
e
mesi
in
mare
ondeggiando
e
aspettando.
Mi
sono
sentito
rappresentato
perché
anch’io
provo
quel
desiderio
di
avventura,
di
ricerca,
di
scoperta
dell’ignoto.
Anch’io
salpo,
con
l’aereo
di
solito,
in
cerca
di
risposte
ed
anch’io
spero
sempre
di
tornare
con
qualche
racconto
nella
stiva.
Un
isolotto
al
centro
della
baia
con
una
prigione
appoggiata
sopra
porta
il
nome
di
Alcatraz.
Un’attrazione
turistica
ormai
che
vanta
di
aver
“ospitato”
Al
Capone
ed
altri
storici
gangster.
La
cosa
però
che
rese
Alcatraz
una
delle
prigioni
più
note
del
mondo,
oltre
all’impossibilità
di
fuga,
era
la
crudele
durata,
di
ventitré
ore
al
giorno,
in
cui
i
prigionieri
erano
costretti
a
rimanere
rinchiusi
nelle
piccolissime
celle
solitarie.
Questa
disumanità
fu
il
fattore
per
cui
oggi
non
è
più
una
prigione
bensì
un
museo.
Nei
film
spesso
si
vedono,
famose,
le
ripide
colline
di
San
Francisco.
Quello
che
non
si
vede
nei
film
è il
mazzo
che
uno
si
fa
nel
salirle
e
scenderle.
I
tram,
i
tipici
tram
da
cui
si
vedono
decine
di
persone
aggrappate,
appese
fino
al
paraurti,
sono
davvero
affascinanti.
Sono
come
nei
film,
a
ogni
incrocio
si
sente
anche
l’inconfondibile
campanello
che
funge
da
claxon.
La
voglia
di
prendere
la
rincorsa
e
saltare
su
una
di
queste
carrozze
è
irresistibile.
“Cinque
dollari
a
corsa!”
annuncia
con
nonchalance
la
controlloressa
di
colore,
congelandomi
sul
colpo.
Anche
qui
il
turismo
ha
portato
il
dislivello.
Cinque
dollari
per
fare
una
fermata
solo
perché
persone
da
altre
parti
del
mondo
vengono
in
cerca
di
quello
che
solo
sugli
schermi
dei
cinema
hanno
visto.
Persone
che
vengono
etichettate
come
turisti.
Non
so
perché
ho
provato
quel
senso
di
gioia
nel
sogno.
Non
è
successo
nulla
di
stravagante
nella
mia
visita
a
San
Francisco.
Non
ho
trovato
l’Illuminazione
né
tanto
meno
un
milione
di
dollari
chiusi
in
una
valigia,
posata
in
terra.
Non
è
stato
un
sogno
premonitore,
né
una
visione.
Tutto
vige
a
San
Francisco,
fa
fresco
e le
persone
sono
forse
più
aperte
e
colte
rispetto
ad
altri
posti
in
questo
paese.
Io
dopodomani
parto.
Con
Jennifer
abbiamo
un
volo
verso
New
York
e
una
settimana
dopo
uno
verso
Bangkok.
Una
settimana
da
re.
O
meglio
da
film.
Una
settimana
da
“persona
importante”,
da
uomo
d’affari.
New
York,
la
città
perfetta
per
tutto
questo.
Una
città
magica,
quasi
finta.
Un
ambiente
surreale
dove
i
tombini
fumano
e le
persone
sono
costantemente
schiacciate
dall’imponenza
dei
palazzi.
Un’orrenda
bellezza,
un’oscena
vista
affascinante
di
cemento
e
acciaio,
di
vetri
e
altitudine.
Limousine
continuamente
sfrecciano
su e
giù
le
Avenue,
parcheggiano
nelle
Streets,
scaricano
e
caricano
gente
vestita
elegantemente
di
fronte
a
portoni
illuminati,
attraversati
da
spessi
tappeti
rossi,
dove
puntualmente
un
uomo
(di
colore)
in
divisa
si
affretta
ad
aprire
tutte
le
porte.
In
qualsiasi
parte
del
mondo
queste
strade,
questi
panorami
sono
entrati
nelle
case,
attraverso
i
televisori,
tramite
i
film.
Tutti
hanno
visto
New
York,
tutti
sanno
come
è
fatta.
Vederla
dal
vivo,
esserci,
respirarla,
è
come
rivivere
un
sogno,
un
dejavu
e
come
tutti
i
sogni,
affascina.
Tutto
è
iniziato
con
una
brusca
discesa
da
parte
del
Boeing
737
della
Continental
Airlines.
Il
vento
costringeva
l’aereo
in
un
violento
ballo
tremolante
fino
al
contatto
delle
ruote
con
l’asfalto.
Spaventoso
per
chi
non
era
abituato.
Io
come
al
solito
ero
incollato
al
finestrino
e
dinnanzi
a
me,
sulla
sinistra
del
tubo
volante,
si
apriva
una
vista
meravigliosa.
Circondata
da
tre
strisce
di
mare,
galleggiava
Manhattan,
quasi
come
fissata
all’acqua
da
migliaia
di
spilli.
È
quasi
impossibile
tenere
il
conto
dei
grattacieli
che
da
nord
a
sud,
da
est
a
ovest
spiccano
in
questa
piccola
isola.
“Sono
in
un
furgoncino
BMW
nero,
vi
aspetto
agli
arrivi”
- ci
avvertì
Jeremy,
l’uomo
che
ha
organizzato
tutto
questo
per
noi.
Uno
strano
quarantenne
che
avevo
già
visto.
Mi
mandò
via
e-mail
dei
link
al
suo
sito
web.
Da
lì
si
potevano
vedere
dei
frammenti
del
suo
programma
televisivo,
del
suo
Talk
Show.
Basso,
pelato
e
magrissimo
Jeremy
è un
ragazzo
che
dice
molte
parolacce.
Vuole
salvare
il
pianeta,
aiutare
il
prossimo
ma
io
credo
vivamente
che
prima
debba
semplicemente
aiutare
se
stesso:
è
troppo
incazzato
col
mondo.
La
sua
generosità
però
ci
aveva
portati
fin
qui
e
giudicarlo
non
mi
sembrava
cosa
adatta.
Jeremy
ci
aveva
contattato
qualche
settimana
prima,
mentre
eravamo
nel
Texas,
per
proporci
un
lavoro
che
non
potemmo
rifiutare:
girare
un
documentario
sulla
Birmania.
Vide
quello
che
avevamo
realizzato
l’anno
precedente.
Voleva
che
ne
facessimo
un
altro,
uno
meglio,
con
un
vero
budget
e
con
un’attrezzatura
più
professionale.
Aveva
rimediato
per
noi
tutto
l’occorrente,
dalle
carte
di
credito
alle
telecamere,
dal
biglietto
aereo
al
cameraman.
Arrivavamo
a
New
York
per
discutere
gli
ultimi
particolari
prima
della
partenza.
Le
ruote
del
furgoncino
BMW
nero
si
fermarono
dinnanzi
al
luminosissimo
portone
roteante
del
Kimberly
Hotel
(che
buffo!
Eccoci
qui
per
discutere
sui
fatti
del
Terzo
Mondo
in
un
albergo
a
cinque
stelle).
Il
signore
(di
colore)
col
berretto
ed
il
colletto
ci
ha
aperto
la
porta,
il
tappeto
rosso
ci
faceva
strada
ed i
facchini
erano
di
una
cortesia
disarmante.
Estremo
lusso.
Al
ventunesimo
piano
dell’hotel
Kimberly,
Jennifer
ed
io,
stiamo
stravaccati
sul
divano
del
salottino
a
leggere,
io
in
italiano
lei
in
inglese,
due
copie
dello
stesso
libro:
Ebano
di
Kapuscinski.
L’aria
fuori
è
freddissima
e il
calduccio
confortante
dell’hotel
ci
vieta
di
uscire.
New
York
è
una
bellissima
città,
è
ricca
e
perennemente
in
movimento.
La
trovo
anche
schiacciante.
Gli
enormi
grattacieli,
che
iniziano
come
ogni
altro
palazzo
ma
che
non
finiscono
mai,
fanno
sentire
ogni
uomo
o
donna
come
una
formichina.
Il
sole
non
batte
mai
seppur
non
vi
sia
una
nuvola
in
cielo.
Il
vento
si
incanala
e
per
questo
il
gelo
è
sempre
feroce.
La
perenne
presenza
di
questi
giganti
miracolosamente
costruiti
dall’uomo
è
affascinante
ma
anche
opprimente.
A
leggere
Kapuscinski
mi
viene
la
malinconia
da
Terzo
Mondo.
Lui
in
Africa
io
in
Asia
tendiamo
a
vivere
esperienze
similissime.
Direi
che,
se
non
fosse
per
il
colore
della
pelle
degli
abitanti
e la
grande
differenza
spirituale,
i
due
continenti
si
eguagliano.
La
stessa
povertà,
le
stesse
malattie,
le
stesse
capanne
e
gli
stessi
cibi
imputriditi.
È
strano
ma
quando
leggo
i
suoi
racconti
di
baracche
in
quartieri
poveri
di
grandi
capitali,
di
quando
contrae
per
l’ennesima
volta
la
malaria,
dei
pericoli
che
incontra
nei
lunghi
viaggi
in
auto
verso
l’ignoto,
in
me
balena
incontrollata
una
voglia
di
partire,
di
rivivere
personalmente
quelle
emozioni.
Ho
ventotto
anni.
A
causa
delle
continue
bocciature
ci
vollero
tre
anni
in
più
rispetto
al
normale
perché
finissi
il
liceo;
dovetti
infine
andare
in
una
scuola
privata
(che
si
pubblicizzava
con
lo
slogan
“promossi
o
rimborsati”)
a
“comprarmi”
il
diploma.
Grazie
o
per
colpa
di
come
mia
madre,
americana,
mi
ha
allevato:
perennemente
a
cavallo
dei
due
continenti,
ora
mi
trovo
a
dover
vagare,
per
necessità
d’istinti
interiori,
per
il
mondo.
Purtroppo
in
tutto
questo
disegno
della
mia
vita
infantile
e
attuale
non
vi è
mai
stato
presente
un
componente
importantissimo,
il
denaro.
Come
la
stragrande
maggioranza
dei
miei
coetanei
per
anni
ho
dovuto
fare
lavoretti
tipo
pizza
boy
(facchino
porta
pizze),
cameriere,
barista,
Assistente
di
Volo.
Ma,
e
questa
è
stata
la
mia
fortuna
e
sfortuna,
non
ho
mai,
mai
avuto
il
desiderio
di
metter
su
famiglia,
comprare
casa
ed
avere
un
lavoro
determinato.
Il
mio
istinto
di
essere
umano
fatto
per
replicarsi
non
è
mai
uscito
fuori.
Per
questo
la
condanna
ad
essere
vagabondo,
a
dover
cambiare
contorno
e
circostanza
ogni
paio
di
mesi.
Il
denaro
rimane
sempre
quel
componente
assente,
fonte
di
ansie
e
preoccupazioni,
ma
che
miracolosamente
in
una
maniera
o
nell’altra
si
presenta
sempre
per
soddisfare
tutti
i
bisogni.
Apparirò
strano
o
matto,
ma
questo
insolito
manifestarsi
del
sostentamento
nel
momento
del
bisogno,
sento
sempre
di
doverlo
a
quella
forza
invisibile
a
cui
mi
rivolgo
ogni
volta
implorando,
come
un
bambino
fa
con
la
propria
mamma.
Forse
si
può
racchiudere
nei
detti
“Dio
vede
e
provvede”
oppure
“aiutati
che
Dio
ti
aiuta”.
Non
amo
usare
la
parola
Dio,
ma
il
punto
è
questo
(e
l’ho
imparato
nei
monasteri
Tibetani
in
India):
se
chiedi
di
ricevere
quell’abbastanza
per
le
tue
necessità,
per
continuare
a
vivere
e a
fare
ciò
che,
con
la
coscienza,
reputi
sia
la
cosa
giusta,
tutto
ti
sarà
dato.
A me
succede
sempre.
Bisogna
avere
un
bel
rapporto
con
se
stessi
e
con
tutto
ciò
che
ci
circonda,
questo
è
l’unico
“prezzo”
da
pagare.
Lo
zainone
è
pronto,
stavolta
mezzo
vuoto.
Una
cosa
che
ho
imparato
da
altri
viaggiatori
è
quanto
sia
importante
viaggiare
leggeri.
Io
che
ho
sempre
portato
troppo.
Il
lunghissimo
volo
che
attraverserà
per
metà
il
mondo
parte
dopodomani
mattina.
Passerà
sicuramente
del
tempo
finché
potrò
ribattere
le
dita
sulla
tastiera
del
mio
computerino
portatile.
Lo
lascio
qui
a
New
York
mentre
io,
la
penna
e la
telecamera
torneremo
in
Asia
a
cercar
storie
da
raccontare
con
la
speranza
di
aiutare
i
poveri,
di
svegliare
i
ricchi
e di
guadagnare
il
pane.