N. 31 - Luglio 2010
(LXII)
ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE XV – Appunti di un viaggio da Ceylon all’Himalaya
di Gianrigo Marletta
Hikkadwa
Nell’aria
si
respira
miseria,
fierezza,
sconfitta,
una
disperazione
da
poco
trasformata
in
rassegnazione.
Lo
Tsunami
ha
distrutto
famiglie
intere!
Chi
aveva
un
discreto
lavoro,
una
discreta
attività,
una
discreta
casa,
ora
non
ha
più
niente.
L’onda
gliel’ha
portata
via.
Bambini
rimasti
orfani,
mogli
vedove,
padri
che
hanno
perso
la
famiglia
intera.
Disarmante!
In
treno
verso
Kandi
Rumore
assordante
di
ferraglia.
Il
treno,
stracarico
di
gente,
oscilla
e
vibra
marciando
tra
i
paesini.
Vacche
magre,
baracche,
cani,
palme,
scuole,
bambini,
fiumiciattoli
e
grossi
torrenti
e
poi
fisso
sulla
sinistra
il
mare,
la
costa
occidentale
dello
Sri
Lanka,
a
volte
a
meno
di
venti
metri
dalle
rotaie
(lo
Tsunami
travolse
convogli
interi
uccidendone
tutti
i
passeggeri).
Il
cielo
è
ora
coperto
e io
sono
seduto
a
terra
sui
gradini
dell’uscita,
aggrappato
alla
porta
aperta
per
non
volar
giù.
A
scorrerci
davanti,
ad
una
moderata
velocità,
ora
un
cimitero,
ora
un
edificio
in
costruzione,
con
un
cartello
davanti
che
ringrazia
il
Giappone
il
quale
ha
sponsorizzato
l’opera
per
il
post
Tsunami;
ora
un
cumulo
gigantesco
di
spazzatura,
quasi
tutta
plastica;
ora
vecchietti
a
passeggio
sotto
i
piccoli
banani
con
i
loro
caschi
non
ancora
maturi.
È
incantevole,
è
puzzolente,
è
povero,
è
natura,
è
Sri
Lanka.
L’antico
mestiere
del
barcaiolo
A
rompere
il
silenzio
sono
pochi
rumori,
pochi
e
stupendi:
il
suono
della
pala
del
remo
che
sposta
l’acqua,
il
tranquillo
fruscio
delle
foglie
sventolate
dal
leggero
monsone
che
oggi
è
stato
quieto,
insetti
e
uccelli
che
cantano
festeggiando
la
stagione
che
bagna
la
fitta
foresta
circostante.
Lui
si
gode
il
tranquillo
spettacolo,
ogni
giorno
è
sia
protagonista
sia
spettatore
di
quell’immensa
pace
perfetta.
Seduto
in
bilico
sul
suo
tronco
bilanciato
da
un
altro
tronco
parallelo
più
piccolo,
il
barcaiolo
anche
è
bilanciato,
è
equilibrato
tra
interiore
ed
esteriore,
umano
e
natura,
gioia
e
dolore.
Intorno
a
lui
tutto
è in
equilibrio,
egli
lo
respira
il
mattino,
la
sera,
egli
c’è
nato
ed
egli
ci
morirà.
Kandi,
27
Maggio
Oggi
giornata
tipicamente
monsonica,
sono
abituato
ormai
ai
monsoni:
un
vento
costante,
morbido
ma
deciso,
scarrozza
verso
ovest
i
nuvoloni
gonfi,
di
ogni
tonalità
di
grigio;
sprazzi
di
pioggia,
spesso
violenta,
fanno
pensare
al
diluvio
universale;
le
zanzare
danzano
al
caldo
ed
umido
torpore
che
avvolge
ogni
cosa
e le
strade,
fatte
di
terra,
diventano
enormi
pozzanghere
di
melma
rossastra.
Questi
sono
i
monsoni,
questo
è il
loro
triste
e
sudicio
fascino.
Sdraiati
nel
buio
della
notte
di
una
stanza
di
un
piccolo
albergo
arrampicato
sui
colli
nel
cuore
di
Ceylon,
odiamo
al
di
fuori
un
concerto
di
un’orchestra
composta
da
rane
e
ranocchi,
insetti
e a
tratti
da
uccelli
solitari
notturni.
Buona
notte.
Kandi,
29
Maggio
Nulla
di
nuovo.
Piove.
I
monsoni.
Kandi,
costantemente
coperta
da
un
oscuro
cumulo
di
nubi
talmente
bassi
da
accarezzare
le
punte
degli
alberi
arrampicati
sui
monti
circostanti,
mostra
in
questi
giorni
il
suo
lato
più
triste
ed
opprimente.
Lo
smog,
la
vista
delle
pozzanghere
di
melmaglia
nera,
il
continuo
ronzio
di
Tuk
Tuk
e il
vociare
squillante
dei
cingalesi
rende
le
mie
pesanti
sensazioni
febbricitanti
quasi
insopportabili.
Pensieri
ossessivi
dati
dal
malessere,
nausea
e
noia
vengono
amplificati
da
ciò
che
mi
circonda.
Vorrei
chiedere
aiuto
ma
chi
può,
ahimè,
tirarmi
fuori
da
tutto
questo?
La
ventola
attaccata
al
soffitto
proprio
sopra
di
me
gira
incessantemente
ormai
da
ore
e
ore.
Passo
molto
tempo
a
fissarla,
cerco
di
agganciare
con
gli
occhi
una
delle
tre
pale,
la
metto
a
fuoco,
per
un
po’
ci
riesco
e
sembra
che,
in
effetti,
tutto
l’ambaradan
non
giri
realmente
così
veloce
come
l’effetto
ottico
induce
a
credere;
poi
gli
occhi
mi
si
intrecciano
ed
io
devo
strizzarli.
Cambio
allora.
La
zanzariera,
anch’essa
penzolante
dal
soffitto,
tutta
raccolta
e
legata;
ma
come
tutte
le
zanzariere,
sempre
ricoperte
di
macchie
e
incrostazioni,
mi
fa
schifo
e
quindi
cerco
un
altro
punto
d’interesse.
Conto
le
piastrellone
che,
a
scacchiera
bianca
e
marrone,
compongono
il
soffitto
della
stanza,
di
questa
stanza,
la
stanza
numero
15
del
Kingdom
Gate
hotel.
L’albergo,
una
struttura
a
due
piani
molto
alti,
inizialmente
in
stile
coloniale
inglese,
ora
in
stile
decadente
cingalese,
sembra
la
sceneggiatura
perfetta
per
un
film
dell’orrore.
La
febbre
venutami
durante
la
notte,
probabilmente
per
un
piatto
di
riso
con
carne
marcia
mangiato
ieri
a
pranzo,
mi
ha
condannato
al
letto
tutto
il
giorno.
Sensazioni
di
pesantezza,
scomodità,
dolori
alle
ossa,
alla
pelle,
dolori
e
fastidi.
In
realtà
non
avrei
mai
voluto
mangiare
quel
piatto
con
la
carne,
soprattutto
carne
di
manzo,
proprio
in
questa
terra,
dove
nella
vicina
India
la
vacca
è
considerata
sacra;
ma
la
mia
solita
incapacità
di
volontà,
la
stessa
che
m’impedisce
di
tornare
vegetariano,
ha
regalato
vittoria
a
quel
piacere
dei
sensi
che
quasi
sempre,
ahimè,
finisce
per
farmi
pentire.
Tra
meno
di
cinque
giorni
sarà
il
momento
di
passare
dalla
“lacrima
dell’India”
al
“tetto
del
mondo”.
Un
cambio
d’atmosfera,
un
salto
tra
due
mondi
opposti,
un
viaggio
illusorio
che
realizzerò
usando
quella
tremenda
scorciatoia
che
sopprime
la
vera
essenza
dell’avventura,
che
toglie
il
sapore
dolce
di
una
meta
conquistata:
l’aereo.
Himalaya!
Himalaya!
Himalaya!
L’arrivo
in
Ladakh
si
risolve
in
una
sola
e
semplice
espressione:
surreale!
L’avvicinamento
con
l’aereo,
un
Airbus
A320
della
Indian
Airlines,
surreale:
incanalatosi
tra
le
alte
vette,
il
percorso
da
seguire
è
uno
solo
e
non
lascia
molto
spazio
a
inventive
del
pilota.
Sorvolata
la
pista
si
fa
un
largo
giro
intorno
alla
montagna
piantata
al
centro
della
valle,
sfiorandola
con
l’ala
sinistra
e
poi
il
rapido
tuffo
finale
per
mettere
giù
il
carrello.
Surreale
lo
sbarco,
scendere
la
scaletta
e
ritrovarsi
immersi
in
un’atmosfera
da
film.
I
primi
visi,
quelli
degli
addetti
al
piazzale,
così
tipici,
così
scavati
dal
gelo
invernale,
le
espressioni
fiere
di
benvenuto
e
dietro
di
loro
a
far
da
sfondo,
scavate
nella
roccia
grigia,
le
casette
quadrate
a
due
piani
con
le
finestre
colorate;
i
bianchi
Stupa
tibetani;
un
Buddha
enorme,
anche
Lui
colorato,
disegnato
sul
lato
della
montagna;
e
poi
l’aria
fina
e
tagliente
che
ben
presto
ti
forza
a
boccheggiare
in
cerca
di
ossigeno,
un
bene
che
qui
dall’alto
dei
3600
metri
viene
a
scarseggiare.
Immediatamente
in
automatico
mi
viene
da
comparare
questo
scenario
con
tutte
le
altre
bellezze
del
mondo
fin’ora
viste,
e
per
me,
davvero,
questo
le
ha
superate
tutte.
Un
miracolo.
Dopo
una
notte
intera
di
sogni
che
mi
hanno
costantemente
riportato
in
Italia,
ho
riaperto
gli
occhi,
e là
per
fortuna
c’erano
ancora
le
travi
bianche,
portanti
del
soffitto,
che
avevo
lasciato
la
sera
prima.
Acceso
un
incenso,
sciacquatami
la
faccia,
eccomi
a
risalire
le
scricchiolanti
scale
di
legno
che
portano
al
terrazzo
della
Old
Ladakh
Guest
House
ed
ecco,
ancora,
il
miracolo.
Himalaya!
Himalaya!
Himalaya!
Il
paese
si è
risvegliato
già
da
parecchie
ore
ormai,
ma
il
silenzio
non
è
quasi
mai
interrotto.
Un
vecchietto,
sul
terrazzo
della
casupola
qui
di
fronte,
con
il
tipico
berretto
a
punta,
sta
impastando
una
calce
fatta
di
fango
e
sterco
di
vacca
per
poi
spalmarla
tra
un
mattone,
anche
lui
di
fango,
e
l’altro:
per
completare
la
recinzione
della
terrazza.
Sopra
il
vecchietto
compaiono
le
altre
centinaia
di
casupole
fatte
e
disposte
a mo
di
presepe,
e
ancora
più
alto
a
regnare,
a
proteggere
ed a
sorreggere
il
tutto,
tre
vette
rocciose,
marroncine,
incantevoli;
e
ancora,
ancora
più
su,
arrampicato
sulla
vetta
centrale
delle
tre,
a
vegliare
su
tutta
la
valle,
uno
Stupa,
bianco
e
rosso,
con
migliaia
di
preghierine
colorate
intrecciate
tra
loro
a
svolazzare
nel
lieve
vento,
lo
stesso
che
ora
mi
accarezza
il
viso.
In
lontananza,
alla
mia
sinistra,
odo
uno
scrosciare
di
piatti
d’ottone
accompagnato
da
un
tenore
strombazzare
di
quei
lungi
strumenti
a
fiato:
sono
i
monaci!
Aguzzando
le
orecchie
riesco
anche
a
sentirli
cantare,
o
meglio
a
recitare,
con
quel
loro
vocione
basso,
le
preghiere
ad
Avalokiteshwara,
il
Buddha
della
compassione.
Che
incanto!
Perché
tornare
laggiù
quando
esiste
un
quassù?
Inizio
a
domandarmi.
In
un
ristorantino
tibetano
di
medio
rango,
dove
sono
andato
a
consumare
la
mia
prima
cena
a
Leh,
mi
sono
messo
a
chiacchierare
col
cameriere.
Viene
dal
Nepal.
Cosa
ci
fa
in
india?
Anche
lui
vittima
di
un’altra
triste
storia
che
colora,
troppo
spesso,
questo
mondo
di
nero.
In
Nepal
la
guerra
civile
tra
regime
e
maoisti
è
ancora
una
delle
più
sanguinolente
guerre
civili
dell’Asia.
Lavorava
da
diversi
anni
in
un
tranquillo
albergo
turistico
di
un
villaggio
appena
fuori
Katmandu.
Sposato
da
poco
e
con
la
nobile
prospettiva
di
metter
su
famiglia,
mai
si
sarebbe
aspettato
quello
che
seguì
un’improvvisa
telefonata
del
padre:
“Sono
venuti
i
maoisti
e
vogliono
prendere
te o
tuo
fratello,
dovete
scappare
in
India!”
“Eh
sì
perché”
- mi
spiegava,
e lo
avevo
già
letto
in
un
articolo
qualche
tempo
fa -
“i
maoisti
vengono
nelle
case
e
arruolano,
forzatamente,
metà
dei
figli
maschi
di
ogni
famiglia!”.
Il
rifiuto?
Una
condanna
a
morte.
“Ma
io
non
ci
voglio
andare
in
India,
non
la
conosco,
e
tutto
quello
che
ho è
qui!”.
Lui,
il
fratello
e
altri
tre
coetanei
dovettero
così
fuggire
nella
vicina,
eppure
per
loro
così
lontana,
India:
lasciando
indietro
le
famiglie
appena
formate.
“Io
sono
il
più
fortunato”-
continuava -
“avevo
un
lavoro
in
ambito
turistico,
conosco
qualche
parola
d’inglese,
loro
invece
sono
contadini
e
l’unica
cosa
che
sanno
fare
è
zappare
la
terra;
io
ora
ho
un
lavoro
in
questo
bel
ristorante
ma
loro...
“ -
“excuse
me!”
-
con
un’aria
arrogante
e un
fare
da chi
si
sente
superiore,
da
un
tavolo
più
in
là,
una
signora
europea,
scocciata
dall’attesa
per
ordinare
chiamò
a se
il
ragazzo,
il
cameriere,
che
non
ebbe
così
nemmeno
il
tempo
di
finire
di
raccontare
la
sua
triste
storia.
Lettera
ai
Ladakhi
Scrissi
la
lettera
che
segue
indirizzandola
ai
“Ladakhi”
(gli
abitanti
del
Ladakh)
e la
mandai
alla
redazione
del
giornale
locale
di
Ladakh
e
Kashmir.
Fu
la
mia
primissima
pubblicazione.
"Carissimi
Ladakhi,
una
religione
nuova
e
differente
da
tempo
sta
penetrando
nelle
vostre
anime,
una
religione
pericolosa,
una
religione
con
molti
nomi
ed
un
solo
dio:
la
sacra
rupia.
Capitalismo
e
materialismo
stanno
entrando
sempre
di
più
nelle
vostre
case,
nei
vostri
cuori.
State
lasciando
andare
le
tradizioni,
state
dimenticando
i
mestieri
dei
vostri
padri,
ciò
che
i
padri
dei
vostri
padri
hanno
insegnato
loro.
I
ladakhi
una
volta
erano
nomadi,
agricoltori
e
pastori.
Ora
state
diventando
commercianti,
negozianti
e
guide
turistiche.
Mestieri
che,
in
cambio
di
servizi
turistici,
si
convertono
in
rupie.
Tantissimi
ladakhi
ora
stanno
rincorrendo
questo
nuovo
fenomeno
chiamato
turismo.
Lasciate
che
vi
avverta
di
una
cosa
però.
Il
turismo
va e
viene,
non
è un
guadagno
stabile.
Basta
un’altra
grande
guerra
contro
la
vicina
Cina
o
un’intensificazione
di
quella
contro
il
Pakistan
e
non
ci
sarà
più
turismo.
Quel
giorno
scoprirete
che
i thangkas
non
si
possono
mangiare
e
che
le
campane
tibetane,
gli
scialli
e le
pashmine
non
sono
commestibili.
Vi
sarete
dimenticati
come
coltivare
le
piante
e
come
allevare
gli
animali.
Non
lasciate
andare
le
tradizioni:
ne
state
perdendo
pezzetto
dopo
pezzetto,
state
vendendo
tutti
i
vostri
simboli
religiosi;
a
dire
il
vero
sembra
che
stiate
vendendo
qualsiasi
cosa,
purché
qualcuno
la
compri.
Fate
attenzione,
questo
è il
modo
più
veloce
per
vendere
la
vostra
identità.
Seguire
gli
stili
e le
abitudini
occidentali
vi
porterà
sicuramente
più
benessere
materiale
ma
presto
perderete
le
qualità
spirituali,
filosofiche
e
interiori
che
per
migliaia
di
anni
sono
state
proprie
degli
abitanti
dell’Himalaya.
Vedo
i
giovani
nelle
strade
di
Leh
vestiti
come
i
membri
delle
gang
americane,
ad
ascoltare
la
loro
musica
violenta,
a
bere
superalcolici
e a
fumare
sigarette
Marlboro.
Presto
non
ci
saranno
più
quegli
anziani
che
grazie
al
cielo
si
vedono
ancora
camminare
per
la
strada
con
un
grande Om
Mani
Padme
Hum
roteante
nella
mano
destra
a
snocciolare
le
perline
del
rosario
con
la
sinistra,
cantando
i
sacri
mantra,
avvolti
nel
caldo,
naturale
e
tipico
cappotto
di
lana
di
yak.
Come
nell’Occidente
anche
qui
plastica,
sintetico,
istantaneo
ed
inutile
prenderanno
il
sopravvento;
come
nell’Occidente
anche
qui
depressione,
insoddisfazione
ed
alcolismo
vinceranno.
Volete
il
turismo?
Beh,
fareste
meglio
a
mantenere
vivo
ciò
che
attrae
il
turismo:
spiritualità
e
un’atmosfera
pulita
e
naturale.
Se
date
tutto
questo
via
per
poche
rupie,
diventerete
poveri
dentro
e
forse
un
po’
più
ricchi
fuori,
ma
di
certo
diverrete
sempre
più
schiavi
dell’Occidente.
Negli
ultimi
millenni
l’Himalaya
è
stata
simbolo
di
ricerca
spirituale
per
persone
provenienti
da
tutto
il
mondo,
uomini
e
donne
in
necessità
di
risposte,
di
Verità.
Le
vostre
montagne
sono
state
il
luogo
più
sacro
del
pianeta.
Moltissimi
maestri
come
Gesù,
Buddha,
Krishna,
Lama
Tsonkapa,
Babaji
e
tantissimi
altri
potenti
Yogi
hanno
attraversato
queste
montagne,
si
sono
recati
in
questi
luoghi
che
ora,
rapidamente
stanno
perdendo
la
loro
magia.
Quello
che
sto
cercando
di
spiegarvi
è
tanto
semplice
quanto
importante:
continuate
a
venerare Buddha,
Allah,
Brahma
o
Gesù
Cristo
e
non
scambiateli
per
dei
soldi.
Vivendo
qui,
così
lontani,
vedete
solo
i
lati
positivi
dell’Occidente
e
non
scorgete
tutta
la
spazzatura
che
esso
produce.
Ammirate
la
falsa
felicità
che
vedete
nei
film
di
Hollywood,
decantate
il
finto
eroismo
che
gli
attori
e
gli
effetti
speciali
inducono
a
far
credere
e
non
vedete
quanto
piccolo
l’uomo
occidentale
sta
diventando.
Quindi,
per
favore,
rimanete
chi
siete,
siate
indiani,
ladakhi,
tibetani
e
salvaguardate
le
vostre
tradizioni.
L’Occidente
ha
bisogno
di
essere
ispirato
da
voi
e
non
voi
dall’Occidente.
Voi
da
abitanti
dell’Himalaya,
da
ladakhi
avete
sempre
insegnato
al
mondo
che
quando
qualcuno
muore
tutti
i
suoi
averi
materiali
restano
e
che
solo
la
sua
anima
continua
nel
suo
percorso
e
che
quindi
non
bisogna
concentrarsi
troppo
sul
benessere
materiale
quanto
bisogna
impegnarsi
a
migliorare
la
mente,
il
cuore
e
l’anima.
Proprio
come
questo
mondo
ha
bisogno
dell’ossigeno
prodotto
dalle
morenti
foreste
del
sud
America,
l’umanità
ha
bisogno
dello
spirito
prodotto
in
queste
montagne.
Per
favore
preservatelo.
Grazie."
In
moto,
Royal
Enfield
I
paesaggi
surreali,
scorrendo
ai
lati,
lungo
il
suolo,
sopra
la
testa,
a
360
gradi,
destano
un
serio
dubbio
sulla
realtà
di
tutto.
Sto
veramente
guidando
una
moto
tutta
indiana,
possente
e
vibrante,
fin
dove
non
vogliamo
fermarci?
Le
salite
iniziano
e
finiscono
dopo
ore,
otto
alle
volte,
e
quando
un
cartello
ti
avverte
che
sei
a
5.600
metri
di
altitudine,
gioisci
nel
vedere
che
ora
si
scende.
Non
si
respira
lassù,
davvero.
Ora
spengo
la
moto.
Lei
prende
velocità,
l’unico
suono
è il
fruscio
dell’aria
fredda
che
scorre
lungo
la
faccia.
Ore
e
ore
a
galleggiare
sull’asfalto.
Il
silenzio,
la
Enfield
non
trema
più,
anche
lei
si
rilassa,
rimane
spenta.
Le
montagne,
gli
strapiombi,
gli
yak,
le
coltivazioni,
i
ghiacciai,
i
fiumiciattoli
di
neve
sciolta
da
attraversare,
il
deserto
e
finalmente
dopo
una
giornata
intera
a
cavallo
del
suo
sellino,
Pangong
Tzo!
Il
lago
salato
più
alto
del
mondo,
il
confine
con
il
Tibet.
Piantiamo
le
tende
insieme
ai
nostri
sette
compagni
israeliani
e...
viva
la
vita!
Giappone
30
Luglio
2006.
Tra
Osaka
e
Kyoto
Mattina,
le
sei
e
mezzo.
In
un
lussuoso
albergo
a
cinque
stelle
mi
trovo
a
far
colazione
con
una
tazza
di
tè,
del
miso
soup
ed
un
piatto
pieno
di
pietanze
diverse
ma
tutte
perfettamente
affettate
in
pezzetti
cubici
tutti
uguali.
Il
gusto
molto
saporito.
Per
strada,
alle
sette,
non
c’è
nessuno
a
parte
un
postino
in
bicicletta,
un
camion
della
spazzatura
e
qualche
giapponese
alcolizzato
che
ancora
dorme
su
una
panchina
abbracciando
stretta
la
sua
conquista
della
notte:
un
bottiglione
di
Sakè.
Ora
in
treno
verso
Kyoto.
Quaranta
minuti
di
viaggio,
me
ne
restano
circa
venticinque.
Il
paesaggio
è
sempre
lo
stesso,
non
cambia
mai.
Osaka
è
enorme:
un’infinita
distesa
di
palazzoni
giganti,
grigi
e
futuristici.
Ogni
tanto
qualche
piccola
zona
residenziale
viene
a
scorrere
attraverso
il
finestrino;
mi
rincuora,
un
segno
di
umanità!
Il
Giappone
è
così
antico
eppure
così
moderno.
Gli
americani
nella
seconda
guerra,
risparmiando
forse
solo
qualche
quartiere
di
Kyoto,
hanno
raso
al
suolo
ogni
singola
città.
Certo,
difficile
non
era,
essendo
stato
ogni
edificio
fatto
di
legno
e
carta!
Kyoto
a
quanto
pare
è
ancora
fatta
così,
o
almeno
in
parte.
Alcune
zone
portano
tuttora
il
fascino
di
cinquecento
anni
fa,
case
basse
con
piccoli
e
graziosi
giardini
nelle
corti.
Le
finestre
e le
porte
scorrevoli
ancora
hanno,
al
posto
del
vetro,
la
carta
di
riso.
Mancano
cinque
fermate.
Ancora
palazzi
grigi,
dalle
forme
più
strane;
alcuni
sembrano
pronti
al
decollo
come
delle
enormi
navi
spaziali.
Dio
quanto
cemento!
Per
un
attimo
m’illudo:
man
mano
che
il
treno
scorre
verso
Kyoto
il
panorama
cambia.
Le
case
da
trenta
sono
passate
a
due,
massimo
tre
piani;
non
sono
più
grigie
ma
marroni,
il
colore
del
legno.
I
tetti,
quelli
tipici
giapponesi,
sono
spioventi
con
gli
angoli
rialzati.
Ma è
solo
la
zona
neutra,
una
fascia
di
terra
che
separa
le
due
metropoli.
I
grattacieli
ben
presto
ricominciano
a
spuntare
e
sempre
di
più
a
spiccare
ed
ecco
finalmente
la
mia
fermata,
Kyoto
Train
Station!