.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

.

ATTUALITà


N. 35 - Novembre 2010 (LXVI)

ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE XIX - Tè, teiere e Zen

di Gianrigo Marletta

 

C’è un qualcosa del tè che mi ha sempre affascinato. Dietro al semplice atto di berlo intravedo qualcosa di cerimoniale, di sacro e pacifico.

 

In Italia, a casa, ne avevo sempre grandi scorte e da qualche tempo tenevo anche una collezione di teiere. Appena ricevevo ospiti offrivo sempre del tè.

 

Ho imparato a berlo anni fa a casa della mia compagna di liceo coreana. Passavamo pomeriggi a bere tè e a giocare a scopone scientifico. Negli anni ho portato dentro questa passione, fino a ritrovarla poi in Asia, dove quasi tutte le culture lo bevono.

 

In ognuna porta un nome diverso, chai, black tea, chinese tea, kocha, ocha, cha. In India lo bevono in bicchieri di vetro e ci mettono latte e molto zucchero. Sull’Himalaya invece del latte lo mischiano ad una specie di ricotta di yak e lo bevono in tazzine di ceramica prive di manico. In Cina lo usano in qualsiasi occasione e in ogni momento.

 

Non vi è luogo dove non si scorgano tazze, un bollitore ed una teiera. Indifferentemente dalle stelle di un albergo, sul comodino vicino al letto vi è sempre tutto l’occorrente per preparare una tazza di tè.

 

Al ristorante non servono acqua ma tè ed appena si svuota il bicchiere ecco che appare la cameriera a riempirlo. Nei negozi, se uno si sofferma a guardare per più di pochi minuti, ti offrono una tazza di tè.

 

In Cina il tè è caldo, è amaro e fa fare tantissima pipì. Volgarmente conosciuto come tè verde, il tè cinese appare in più di mille tipi diversi. Ogni tipo corrisponde ad una foglia ed ogni foglia viene invecchiata in maniera diversa.

 

Vi sono tè che valgono qualche dollaro al pacchetto, altri che ne valgono centinaia. Ci sono anche dei tè ricavati da radici, ognuno con le proprie proprietà. Anche le teiere hanno le loro differenze che si suddividono in qualità, prezzo e costruttore.

 

Ci sono teiere fatte a mano e teiere fabbricate a macchina. Ci sono “teieristi” famosi e fabbriche rinomate, tutte circostanze che incidono sul prezzo.

 

Insieme tè e teiera creano quella combinazione quasi sacra che si tramuta in rito, in un rito che calma gli animi ed innalza lo spirito.

 

Le proprietà del tè sono infinite. Ci sono quelle ovvie: diuretiche, antiossidanti. Quelle appartenenti al tipo di foglia o radice: rilassante, energizzante, che aumentano la concentrazione.

 

E poi ci sono le proprietà sociali. Il tè non inebria, non da euforia eppure tende a riunire le persone. È una bevanda calda che va sorseggiata, bevuta lentamente. Il semplice sorseggiare è un’azione che rallenta la respirazione.

 

Quando si respira lentamente anche il cuore batte più lentamente e si inala più ossigeno. Cuore e mente fluiscono al loro ritmo naturale e questo non può che incidere sullo spirito.

 

Stasera ho passato la serata in un negozio di tè e teiere. Per comprare cento grammi di tè e una piccola teiera per la mia collezione, ci sono volute più di due ore.

 

Il proprietario del negozio, un ragazzo di ventisei anni con due figli e una moglie incinta, una volta fattomi sedere, ha iniziato quella che io considero la sacra cerimonia.

 

Sarà stato per invogliarmi a comprare o per pura ospitalità ma la cosa mi ha incantato talmente tanto che, per un istante, ho pensato di voler tornare in Italia ad aprire una sala da tè, arredandola con muri di legno scuro, scaffali pieni di scatoline e barattoli contenenti infiniti tipi di tè e servire i miei clienti nella stessa maniera in cui lui stava servendo me.

 

Il processo era lungo ed affascinante. Da un termos versava l’acqua calda in una teiera di rame posata su una piattaforma riscaldata elettricamente.

 

Poi immergeva una spatola di legno in un grosso barattolo di vetro ricavandone una piccola quantità di foglioline rinsecchite ma dal colore verde vivo, che infine infilava in un’altra teiera in miniatura tutta decorata.

 

A questo punto versava l’acqua dalla teiera di rame nella teierina decorata. Da qui la passava attraverso un piccolo filtro di ceramica fino ad un’altra teiera, questa volta bianca e semplice.

 

Tutto questo lavoro di trapasso avveniva appoggiato su un vassoio metallico bucato, incastrato nel tavolone di tek intorno alla quale eravamo seduti. Sul tavolo non poggiava null’altro che non servisse all’operazione di bere il tè.

 

Da quest’ultima teiera bianca finalmente il contenuto passava alle piccole tazzine poggiate in fila sul vassoio bucato. Neanche il tempo di immaginarsi di berlo ed ecco che dalle tazzine il tè viene tutto svuotato nel vassoio.

 

“Questo è sporco, il primo non va mai bevuto” - con un inglese quasi incomprensibile il giovane ci spiegava la sua azione. E così bevemmo il secondo e poi il terzo, il quarto, il quinto, fino a far passare le due ore.

 

Chiaramente vi era una tazzina a testa, in più però, ve n’era una molto più grande per lo spirito che porta soldi e fortuna (le due ossessioni dei i Cinesi). All’interno di quella tazzona vi era incastrata una strana creatura di ceramica: una specie di rana con tre zampe che in bocca tiene una monetina.

 

“Guardami e curami che io ti porterò soldi, dice la rana” – dice il giovane.

 

E così ad ogni versare del tè per noi, ce n’era anche per lei. Nel bere il tè vi è, secondo me, questo qualcosa di spirituale e di sacro, una pratica spesso associata ad una particolare filosofia: lo Zen.

 

Lo Zen è quella scuola di buddhismo Mahayana, che dall’India, nei secoli, si è fatta strada fino al Giappone passando per la Cina. È la scuola di buddhismo più semplificata e ridotta. Il buddhismo, come lo troviamo oggi nel mondo, fondamentalmente si divide in due correnti di pensiero, Mahayana e Teravada, ognuna delle quali si è sviluppata intorno a concetti diversi espressi duemila e cinquecento anni fa dal maestro fondatore, il Buddha.

 

La scuola Teravada basò semplicemente i propri principi intorno al concetto di Arahant, cioè colui che ottiene l’illuminazione tramite sacrifici e dure pratiche individuali.

 

Quella Mahayana invece ha come modello il Bodhisattwa, cioè colui che dedica la vita al prossimo e che raggiunge l’illuminazione tramite una pratica ben precisa: la compassione.

 

Lo Zen è la parte di Mahayana più scarna, semplificata e per questo, se possiamo dire, più diretta. Nello Zen non ci si rivolge né a testi sacri né a rappresentazioni di esseri umani o superiori, ma si venerano semplicemente gli elementi della natura come il fuoco, l’acqua, l’aria, la terra e l’etere.

 

Si rastrella la sabbia, la si orna con dei sassi, si custodiscono e si curano gli alberi (nasce così l’arte del Bonsai), si costruiscono fontanelle e cascate, ognuna con il suo fruscio delicato.

 

Attorno ai templi Zen, infatti, si scorgono solo questi elementi, spesso raccolti in grandi giardini, pacifici e curati, mentre nel loro interno non vi è null’altro che spazio vuoto, stuoie su cui sedersi per la meditazione ed un piccolissimo altare minimale messo li a venerare uno o tutti e cinque gli elementi.

 

Il metodo più famoso introdotto dallo Zen per raggiungere, nel minor tempo possibile, l’illuminazione è il Koan: un breve indovinello apparentemente privo di alcun senso logico votato a cancellare dalla mente del discepolo qualsiasi principio da lui appreso fino a quel momento.

 

In Zen si arriva all’illuminazione solo abbattendo la razione, distruggendo ogni processo logico, portando la mente a dimenticare i luoghi comuni ed a spingersi verso una conoscenza maggiore, derivata dall’intuito e dalla mente pura, una mente non condizionata da concetti e pensieri, seguendo così il principio fondamentale del buddismo in generale, e cioè che nulla è come noi lo sperimentiamo.

 

In poche parole il discepolo impara a fare esperienza del mondo in una maniera completamente nuova, priva di quei punti fermi che fino a quel momento hanno caratterizzato la sua realtà.

 

Questo nuovo concetto, che nulla è in realtà come noi lo sperimentiamo, lo si può suddividere in due spiegazioni più semplificate: la prima è che tutto è in movimento ed in continua mutazione, la seconda è che tutto è interconnesso con il resto e che ogni circostanza dipende da altre circostanze formando un’infinita catena di eventi.

 

L’errore, secondo questa filosofia, sta nel nostro modo di vedere le cose in maniera assoluta: una tazza come una tazza e non come un insieme di parti, assemblate da materiali collosi provenienti da polveri ricavate dallo sfregare di pietre scavate dal terreno che prima era sabbia e che poi si è condensata in roccia e così via.

 

Ogni cosa, disse il Buddha, non esiste in se stessa ma dipende da una catena infinita di fatti ed avvenimenti. Nulla, dunque, è. Niente esiste di fatto, bensì ogni cosa o essere è semplicemente una composizione transitoria di materia ed energia e per questo fragile e non assoluta.

 

Il nostro modo di vedere le cose come assolute, secondo lo Zen, va completamente modificato.

 

Come una formica che camminando sulla nostra gamba sperimenterà il nostro arto, non come tale, ma più probabilmente come una strada coperta da enormi ostacoli, che noi vediamo come peli, farà esperienza di essa in maniera completamente diversa dalla nostra.

 

Lei non sa che quella è una gamba, un pezzo di corpo usato dall’uomo per camminare, lei vede solo una pista da seguire e che magari porterà a del cibo, pensando che in caso di fortuna, dovrà tornare indietro ad avvertire le compagne.

 

E dunque chi ha ragione? Quale punto di vista è quello giusto?

 

La gamba come arto o la gamba come autostrada?

 

Ogni realtà è dunque soggettiva e non oggettiva, per cui non assoluta.

 

Tramite i Koan e lo Zazen (meditazione) il discepolo è spinto verso una rapida evoluzione mentale portata a vedere le cose, non più dal punto di vista soggettivo, ma da quello oggettivo, scoprendo infine che la visione assoluta non esiste.

 

Una volta persa la visione razionale, mutato il modo di percepire la realtà, ecco che si spezzano le catene che legano alla materia e la mente diventa padrona totale di se stessa acquisendo potere su tutto il resto.

 

Dar un senso a pratiche filosofiche tanto complesse ed elevate non è cosa affatto semplice e mi scuso con il lettore se ora, a causa mia, rimane più confuso di prima sul significato di Zen.

 

Ho fatto del mio meglio per spiegare concetti che io stesso ho avuto difficoltà ad apprendere ma che ora, talvolta abbandonando la razionalità, talvolta dopo intensa riflessione, comprendo con più chiarezza.


 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.