N. 35 - Novembre 2010
(LXVI)
ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE XIX - Tè, teiere e Zen
di Gianrigo Marletta
C’è
un
qualcosa
del
tè
che
mi
ha
sempre
affascinato.
Dietro
al
semplice
atto
di
berlo
intravedo
qualcosa
di
cerimoniale,
di
sacro
e
pacifico.
In
Italia,
a
casa,
ne
avevo
sempre
grandi
scorte
e da
qualche
tempo
tenevo
anche
una
collezione
di
teiere.
Appena
ricevevo
ospiti
offrivo
sempre
del
tè.
Ho
imparato
a
berlo
anni
fa a
casa
della
mia
compagna
di
liceo
coreana.
Passavamo
pomeriggi
a
bere
tè e
a
giocare
a
scopone
scientifico.
Negli
anni
ho
portato
dentro
questa
passione,
fino
a
ritrovarla
poi
in
Asia,
dove
quasi
tutte
le
culture
lo
bevono.
In
ognuna
porta
un
nome
diverso,
chai,
black
tea,
chinese
tea,
kocha,
ocha,
cha.
In
India
lo
bevono
in
bicchieri
di
vetro
e ci
mettono
latte
e
molto
zucchero.
Sull’Himalaya
invece
del
latte
lo
mischiano
ad
una
specie
di
ricotta
di
yak
e lo
bevono
in
tazzine
di
ceramica
prive
di
manico.
In
Cina
lo
usano
in
qualsiasi
occasione
e in
ogni
momento.
Non
vi è
luogo
dove
non
si
scorgano
tazze,
un
bollitore
ed
una
teiera.
Indifferentemente
dalle
stelle
di
un
albergo,
sul
comodino
vicino
al
letto
vi è
sempre
tutto
l’occorrente
per
preparare
una
tazza
di
tè.
Al
ristorante
non
servono
acqua
ma
tè
ed
appena
si
svuota
il
bicchiere
ecco
che
appare
la
cameriera
a
riempirlo.
Nei
negozi,
se
uno
si
sofferma
a
guardare
per
più
di
pochi
minuti,
ti
offrono
una
tazza
di
tè.
In
Cina
il
tè è
caldo,
è
amaro
e fa
fare
tantissima
pipì.
Volgarmente
conosciuto
come
tè
verde,
il
tè
cinese
appare
in
più
di
mille
tipi
diversi.
Ogni
tipo
corrisponde
ad
una
foglia
ed
ogni
foglia
viene
invecchiata
in
maniera
diversa.
Vi
sono
tè
che
valgono
qualche
dollaro
al
pacchetto,
altri
che
ne
valgono
centinaia.
Ci
sono
anche
dei
tè
ricavati
da
radici,
ognuno
con
le
proprie
proprietà.
Anche
le
teiere
hanno
le
loro
differenze
che
si
suddividono
in
qualità,
prezzo
e
costruttore.
Ci
sono
teiere
fatte
a
mano
e
teiere
fabbricate
a
macchina.
Ci
sono
“teieristi”
famosi
e
fabbriche
rinomate,
tutte
circostanze
che
incidono
sul
prezzo.
Insieme
tè e
teiera
creano
quella
combinazione
quasi
sacra
che
si
tramuta
in
rito,
in
un
rito
che
calma
gli
animi
ed
innalza
lo
spirito.
Le
proprietà
del
tè
sono
infinite.
Ci
sono
quelle
ovvie:
diuretiche,
antiossidanti.
Quelle
appartenenti
al
tipo
di
foglia
o
radice:
rilassante,
energizzante,
che
aumentano
la
concentrazione.
E
poi
ci
sono
le
proprietà
sociali.
Il
tè
non
inebria,
non
da
euforia
eppure
tende
a
riunire
le
persone.
È
una
bevanda
calda
che
va
sorseggiata,
bevuta
lentamente.
Il
semplice
sorseggiare
è
un’azione
che
rallenta
la
respirazione.
Quando
si
respira
lentamente
anche
il
cuore
batte
più
lentamente
e si
inala
più
ossigeno.
Cuore
e
mente
fluiscono
al
loro
ritmo
naturale
e
questo
non
può
che
incidere
sullo
spirito.
Stasera
ho
passato
la
serata
in
un
negozio
di
tè e
teiere.
Per
comprare
cento
grammi
di
tè e
una
piccola
teiera
per
la
mia
collezione,
ci
sono
volute
più
di
due
ore.
Il
proprietario
del
negozio,
un
ragazzo
di
ventisei
anni
con
due
figli
e
una
moglie
incinta,
una
volta
fattomi
sedere,
ha
iniziato
quella
che
io
considero
la
sacra
cerimonia.
Sarà
stato
per
invogliarmi
a
comprare
o
per
pura
ospitalità
ma
la
cosa
mi
ha
incantato
talmente
tanto
che,
per
un
istante,
ho
pensato
di
voler
tornare
in
Italia
ad
aprire
una
sala
da
tè,
arredandola
con
muri
di
legno
scuro,
scaffali
pieni
di
scatoline
e
barattoli
contenenti
infiniti
tipi
di
tè e
servire
i
miei
clienti
nella
stessa
maniera
in
cui
lui
stava
servendo
me.
Il
processo
era
lungo
ed
affascinante.
Da
un
termos
versava
l’acqua
calda
in
una
teiera
di
rame
posata
su
una
piattaforma
riscaldata
elettricamente.
Poi
immergeva
una
spatola
di
legno
in
un
grosso
barattolo
di
vetro
ricavandone
una
piccola
quantità
di
foglioline
rinsecchite
ma
dal
colore
verde
vivo,
che
infine
infilava
in
un’altra
teiera
in
miniatura
tutta
decorata.
A
questo
punto
versava
l’acqua
dalla
teiera
di
rame
nella
teierina
decorata.
Da
qui
la
passava
attraverso
un
piccolo
filtro
di
ceramica
fino
ad
un’altra
teiera,
questa
volta
bianca
e
semplice.
Tutto
questo
lavoro
di
trapasso
avveniva
appoggiato
su
un
vassoio
metallico
bucato,
incastrato
nel
tavolone
di
tek
intorno
alla
quale
eravamo
seduti.
Sul
tavolo
non
poggiava
null’altro
che
non
servisse
all’operazione
di
bere
il
tè.
Da
quest’ultima
teiera
bianca
finalmente
il
contenuto
passava
alle
piccole
tazzine
poggiate
in
fila
sul
vassoio
bucato.
Neanche
il
tempo
di
immaginarsi
di
berlo
ed
ecco
che
dalle
tazzine
il
tè
viene
tutto
svuotato
nel
vassoio.
“Questo
è
sporco,
il
primo
non
va
mai
bevuto”
-
con
un
inglese
quasi
incomprensibile
il
giovane
ci
spiegava
la
sua
azione.
E
così
bevemmo
il
secondo
e
poi
il
terzo,
il
quarto,
il
quinto,
fino
a
far
passare
le
due
ore.
Chiaramente
vi
era
una
tazzina
a
testa,
in
più
però,
ve
n’era
una
molto
più
grande
per
lo
spirito
che
porta
soldi
e
fortuna
(le
due
ossessioni
dei
i
Cinesi).
All’interno
di
quella
tazzona
vi
era
incastrata
una
strana
creatura
di
ceramica:
una
specie
di
rana
con
tre
zampe
che
in
bocca
tiene
una
monetina.
“Guardami
e
curami
che
io
ti
porterò
soldi,
dice
la
rana”
–
dice
il
giovane.
E
così
ad
ogni
versare
del
tè
per
noi,
ce
n’era
anche
per
lei.
Nel
bere
il
tè
vi
è,
secondo
me,
questo
qualcosa
di
spirituale
e di
sacro,
una
pratica
spesso
associata
ad
una
particolare
filosofia:
lo
Zen.
Lo
Zen
è
quella
scuola
di
buddhismo
Mahayana,
che
dall’India,
nei
secoli,
si è
fatta
strada
fino
al
Giappone
passando
per
la
Cina.
È la
scuola
di
buddhismo
più
semplificata
e
ridotta.
Il
buddhismo,
come
lo
troviamo
oggi
nel
mondo,
fondamentalmente
si
divide
in
due
correnti
di
pensiero,
Mahayana
e
Teravada,
ognuna
delle
quali
si è
sviluppata
intorno
a
concetti
diversi
espressi
duemila
e
cinquecento
anni
fa
dal
maestro
fondatore,
il
Buddha.
La
scuola
Teravada
basò
semplicemente
i
propri
principi
intorno
al
concetto
di
Arahant,
cioè
colui
che
ottiene
l’illuminazione
tramite
sacrifici
e
dure
pratiche
individuali.
Quella
Mahayana
invece
ha
come
modello
il
Bodhisattwa,
cioè
colui
che
dedica
la
vita
al
prossimo
e
che
raggiunge
l’illuminazione
tramite
una
pratica
ben
precisa:
la
compassione.
Lo
Zen
è la
parte
di
Mahayana
più
scarna,
semplificata
e
per
questo,
se
possiamo
dire,
più
diretta.
Nello
Zen
non
ci
si
rivolge
né a
testi
sacri
né a
rappresentazioni
di
esseri
umani
o
superiori,
ma
si
venerano
semplicemente
gli
elementi
della
natura
come
il
fuoco,
l’acqua,
l’aria,
la
terra
e
l’etere.
Si
rastrella
la
sabbia,
la
si
orna
con
dei
sassi,
si
custodiscono
e si
curano
gli
alberi
(nasce
così
l’arte
del
Bonsai),
si
costruiscono
fontanelle
e
cascate,
ognuna
con
il
suo
fruscio
delicato.
Attorno
ai
templi
Zen,
infatti,
si
scorgono
solo
questi
elementi,
spesso
raccolti
in
grandi
giardini,
pacifici
e
curati,
mentre
nel
loro
interno
non
vi è
null’altro
che
spazio
vuoto,
stuoie
su
cui
sedersi
per
la
meditazione
ed
un
piccolissimo
altare
minimale
messo
li a
venerare
uno
o
tutti
e
cinque
gli
elementi.
Il
metodo
più
famoso
introdotto
dallo
Zen
per
raggiungere,
nel
minor
tempo
possibile,
l’illuminazione
è il
Koan:
un
breve
indovinello
apparentemente
privo
di
alcun
senso
logico
votato
a
cancellare
dalla
mente
del
discepolo
qualsiasi
principio
da
lui
appreso
fino
a
quel
momento.
In
Zen
si
arriva
all’illuminazione
solo
abbattendo
la
razione,
distruggendo
ogni
processo
logico,
portando
la
mente
a
dimenticare
i
luoghi
comuni
ed a
spingersi
verso
una
conoscenza
maggiore,
derivata
dall’intuito
e
dalla
mente
pura,
una
mente
non
condizionata
da
concetti
e
pensieri,
seguendo
così
il
principio
fondamentale
del
buddismo
in
generale,
e
cioè
che
nulla
è
come
noi
lo
sperimentiamo.
In
poche
parole
il
discepolo
impara
a
fare
esperienza
del
mondo
in
una
maniera
completamente
nuova,
priva
di
quei
punti
fermi
che
fino
a
quel
momento
hanno
caratterizzato
la
sua
realtà.
Questo
nuovo
concetto,
che
nulla
è in
realtà
come
noi
lo
sperimentiamo,
lo
si
può
suddividere
in
due
spiegazioni
più
semplificate:
la
prima
è
che
tutto
è in
movimento
ed
in
continua
mutazione,
la
seconda
è
che
tutto
è
interconnesso
con
il
resto
e
che
ogni
circostanza
dipende
da
altre
circostanze
formando
un’infinita
catena
di
eventi.
L’errore,
secondo
questa
filosofia,
sta
nel
nostro
modo
di
vedere
le
cose
in
maniera
assoluta:
una
tazza
come
una
tazza
e
non
come
un
insieme
di
parti,
assemblate
da
materiali
collosi
provenienti
da
polveri
ricavate
dallo
sfregare
di
pietre
scavate
dal
terreno
che
prima
era
sabbia
e
che
poi
si è
condensata
in
roccia
e
così
via.
Ogni
cosa,
disse
il
Buddha,
non
esiste
in
se
stessa
ma
dipende
da
una
catena
infinita
di
fatti
ed
avvenimenti.
Nulla,
dunque,
è.
Niente
esiste
di
fatto,
bensì
ogni
cosa
o
essere
è
semplicemente
una
composizione
transitoria
di
materia
ed
energia
e
per
questo
fragile
e
non
assoluta.
Il
nostro
modo
di
vedere
le
cose
come
assolute,
secondo
lo
Zen,
va
completamente
modificato.
Come
una
formica
che
camminando
sulla
nostra
gamba
sperimenterà
il
nostro
arto,
non
come
tale,
ma
più
probabilmente
come
una
strada
coperta
da
enormi
ostacoli,
che
noi
vediamo
come
peli,
farà
esperienza
di
essa
in
maniera
completamente
diversa
dalla
nostra.
Lei
non
sa
che
quella
è
una
gamba,
un
pezzo
di
corpo
usato
dall’uomo
per
camminare,
lei
vede
solo
una
pista
da
seguire
e
che
magari
porterà
a
del
cibo,
pensando
che
in
caso
di
fortuna,
dovrà
tornare
indietro
ad
avvertire
le
compagne.
E
dunque
chi
ha
ragione?
Quale
punto
di
vista
è
quello
giusto?
La
gamba
come
arto
o la
gamba
come
autostrada?
Ogni
realtà
è
dunque
soggettiva
e
non
oggettiva,
per
cui
non
assoluta.
Tramite
i
Koan
e lo
Zazen
(meditazione)
il
discepolo
è
spinto
verso
una
rapida
evoluzione
mentale
portata
a
vedere
le
cose,
non
più
dal
punto
di
vista
soggettivo,
ma
da
quello
oggettivo,
scoprendo
infine
che
la
visione
assoluta
non
esiste.
Una
volta
persa
la
visione
razionale,
mutato
il
modo
di
percepire
la
realtà,
ecco
che
si
spezzano
le
catene
che
legano
alla
materia
e la
mente
diventa
padrona
totale
di
se
stessa
acquisendo
potere
su
tutto
il
resto.
Dar
un
senso
a
pratiche
filosofiche
tanto
complesse
ed
elevate
non
è
cosa
affatto
semplice
e mi
scuso
con
il
lettore
se
ora,
a
causa
mia,
rimane
più
confuso
di
prima
sul
significato
di
Zen.
Ho
fatto
del
mio
meglio
per
spiegare
concetti
che
io
stesso
ho
avuto
difficoltà
ad
apprendere
ma
che
ora,
talvolta
abbandonando
la
razionalità,
talvolta
dopo
intensa
riflessione,
comprendo
con
più
chiarezza.