N. 28 - Aprile 2010
(LIX)
ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE XII – IL BATTELLO DEL TEMPO
di Gianrigo Marletta
Se
mai
ci
si
chiedesse
come
vissero
i
nostri
antenati
nel
Medioevo,
nel
Rinascimento
o un
secolo
fa,
basta
venire
qui.
2007-1907
non
è
cambiato
molto
da
queste
parti.
A
parte
la
quantità
eccessiva
di
buste
di
plastica
che
i
birmani,
ma
gli
asiatici
in
generale,
usano
per
contenere
qualsiasi
cosa
e
che
disperdono
nell’ambiente
a
termine
d’uso
e il
rumore
assordante
dei
claxon,
che
forse
a
quei
tempi
erano
più
tenui,
sembra
essere
rimasto
tutto
come
allora.
In
un
secolo
di
enormi
cambiamenti
storici,
scientifici
e
tecnologici
le
variazioni
nello
stile
di
vita
di
queste
persone
sono
mutate
appena.
Il
sole
si è
alzato
appena
venti
minuti
fa.
La
pioggia
invece
da
ore
non
smette
di
cadere.
Avremmo
dovuto
salpare
alle
5:30.
Sono
le
sei
ed
ancora
siamo
strettamente
legati
alla
banchina.
Bagan
dista
quindici
ore
di
viaggio,
con
la
corrente
a
favore,
lungo
il
fiume
Irrawaddy.
L’imbarcazione
non
è
altro
che
un
ammasso
di
ferraglia
sporca
ed
arrugginita.
Su
entrambi
i
piani,
seduti
sul
pavimento
di
legno,
migliaia
di
persone
mangiano,
dormono,
aspettano,
parlano,
osservano,
come
un
tappeto
umano.
Se
solo
uno
volesse
alzarsi
per
sgranchirsi
le
gambe
….
Si
salpa!
Sdraiati
a
terra
si
dorme
scomodi,
ma
almeno
si
dorme.
Accucciato
sul
pavimento
per
qualche
ora
sono
riuscito
a
prendere
qualche
minuto
di
sonno.
Dall’altro
capo
del
battello,
superata
la
barriera
umana,
c’è
un
piccolo
e
sporco
chiosco
che
serve
anche
il
caffè,
indispensabile.
Alla
prua,
in
una
cabina,
siedono
sei
monaci
ed
un
piccolo
gruppo
di
persone
benvestite.
Far
sedere
i
monaci
davanti
è di
buon
auspicio
e
un’assicurazione
di
buona
sorte
per
un
viaggio
lungo
come
questo.
Ora
sono
seduto
anche
io
nella
cabina
con
loro.
Mangiano.
Uno
ha
infilati
nelle
orecchie
degli
auricolari
collegati
a
non
so
cosa
nascosto
sotto
i
veli
color
ocra,
forse
un
lettore
mp3.
Le
rive,
da
entrambi
i
lati,
sono
piatte.
Verdi,
fangose
e
piatte.
Non
un
palo,
non
un
palazzo,
non
una
fabbrica,
non
un
porto.
Solo
qualche
capanna
di
legno
e
tantissimi
coni
dorati
degli
Stupa
(simbolo
buddhista
che
serve
a contenere
le
reliquie
di
qualche
santo)
rompono
la
tranquilla
monotonia
della
sublime
vista
che
di
fronte
agli
occhi
di
tutte
queste
persone
scorre.
Ore
a
scivolare
lungo
il
letto
dell’Irrawaddy
e
non
un
simbolo
del
progresso,
non
una
sua
invenzione,
non
una
sua
rumorosa
macchina.
Solo
natura.
È
ovvio
che
anche
lungo
le
rive
del
Rio
delle
Amazzoni
non
si
incontreranno
segni
di
modernità,
ma
nemmeno
ci
si
imbatte
nella
presenza
umana.
Gli
uomini
qui
ci
sono,
e
come!
Eppure
la
loro
presenza
appena
si
nota
e
certamente
non
stona
col
paesaggio.
Un
viaggio
nel
tempo
senza
tempo.
Ad
ogni
fermata
del
battello
vengono
estratte
due
tavole
di
legno
e
collegate
con
la
terra
ferma.
Ogni
fermata,
un
paesaggio
diverso.
Un
villaggio
con
le
capanne
di
paglia
e
bambù,
una
spiaggia
deserta,
una
riva
rocciosa,
una
prateria,
una
risaia.
Ma
in
tutte
un’orda
umana
ad
attendere.
Ceste
piene
di
manghi
in
bilico
sul
capo
delle
donne,
caschi
di
banane
appoggiate
direttamente
sulla
testa
delle
ragazze,
giovani
ad
aiutare
chi
sale
e
chi
scende,
chi
carica
e
chi
scarica.
Su e
giù
per
le
tavole
di
legno,
un
via
vai
continuo
di
persone.
Ad
attendere
gli
approdati
non
i
taxi
né
gli
autorikshò,
non
autobus
né
furgoncini,
ma
carri
di
legno
trainati
da
una
coppia
di
eleganti
buoi
dalla
gobba
gigante.
Su
ogni
carro
vengono
montati
barili,
biciclette,
casse,
scatoloni,
pacchi
e
persone.
Un
vociare
assordante,
chissà
cosa
dicono.
In
quel
quarto
d’ora
in
cui
la
barca
si
ferma
nel
loro
villaggio
passa
l’intero
impegno
di
tutta
la
giornata.
È
l’evento
attorno
al
quale
ruota
gran
parte
della
loro
vita.
Un
evento
che
capita
solo
la
Domenica
e il
Mercoledì,
in
cui
arrivano
i
beni
dalla
città
ed i
clienti
a
cui
vendere
i
propri
prodotti.
Uno
scambio
vitale,
un
quarto
d’ora
che
decide
la
sorte
dei
giorni
a
venire,
uno
spazio
di
tempo
che
interrompe
una
monotonia
fatta
di
semplicità
e di
equilibrio
naturale.
I
giovani
intenti
nel
lavoro,
in
quei
quindici
minuti
ridono,
giocano,
si
spingono
l’un
l’altro
nel
fiume
dando
prova
di
chi
è il
più
forte,
pavoneggiano
con
le
signorine
che
osservano
dalla
barca.
Le
donne,
invece,
in
fila
indiana
salgono
sul
battello,
sorridenti,
sperando
di
vendere
almeno
uno
dei
coloratissimi
manghi
e di
guadagnare
quei
100
Kyat,
otto
centesimi
di
dollaro,
che
potranno
scambiare
nel
loro
villaggio
con
qualcosa
di
diverso,
che
il
loro
giardino
non
produce.
Prima
di
ogni
fermata
l’urlo
acuto
del
claxon
annuncia
l’arrivo
del
battello.
Il
villaggio
si
prepara.
A
bordo
tutto
è
calmo.
Le
persone
avvolte
nei
longy
rimangono
accucciate
a
terra.
Mangiare
è il
più
grande
passatempo
e
quando
il
momento
arriva
le
donne
tirano
fuori
dalle
loro
borse
di
paglia
i
tegamini
d’acciaio
contenenti
riso,
verdure
e
qualche
salsa.
Le
bustine
di
plastica
una
volta
svuotate
dal
loro
contenuto
vengono
gettate
spensieratamente
nel
fiume.
Un
gesto
comunissimo,
che
a me
fa
venire
i
brividi.
A
fare
il
tragitto
inverso
invece,
dicono,
ci
vogliono
due
giorni.
Due
giorni
per
fare
duecento
chilometri.
Dov’è
lo
spazio
per
la
fretta
quando
le
cose
stanno
così?
Come
fanno
a
nascere
sensazioni
tipo
ansia
e
stress
quando
tutto
scorre
a
questi
ritmi?
Lo
sguardo
di
chiunque
è
seduto
su
questa
barca
è
rivolto
all’orizzonte.
Un
orizzonte
fatto
di
praterie,
di
animali,
di
risaie,
di
alberi,
di
simboli
dedicati
al
Buddha,
di
verde,
di
natura,
di
pace.
Una
rossa,
intensa
palla
di
fuoco
si
sta
rapidamente
nascondendo
dietro
la
sagoma
dei
nuvoloni
in
lontananza
regalando
uno
spettacolo
immenso.
Il
vaporetto
ancora
continua
a
trascinarsi
verso
sud
sfidando
ora
il
caldo
vento
proveniente
da
ovest.
Ancora,
dopo
tutte
queste
ore,
non
una
città,
non
una
centrale,
non
un
motoscafo
moderno.
Solo
alberi,
colline
verdi
e
canoe
di
legno.
Poco
fa,
a
una
delle
fermate,
è
salito
un
gruppo
di
donne
con
le
braccia
piene
di
coloratissime
coperte
da
vendere.
In
cambio
non
chiedevano
solo
soldi.
Il
prezzo
della
coperta
diminuiva
se i
turisti,
i
pochi
a
bordo
del
battello,
avevano
qualcosa
di
occidentale
da
scambiare.
Profumi,
T-shirt,
scarpe,
jeans.
Con
incredibile
insistenza
ambivano
ai
prodotti
della
modernità
più
che
alla
loro
stessa
moneta.
La
gioia
nella
faccia
di
un
gruppetto
di
turiste
bionde,
nel
tirar
fuori
dal
loro
zainone,
magliettine
sportive,
aderenti
e
scollate…
la
fierezza
con
cui
sfoggiavano
i
loro
tesori
del
progresso,
quasi
come
missionarie
in
aiuto,
davvero
mi
ha
sconvolto.
Che
bel
modo
rapido
e
facile
di
distruggere
l’identità
di
un
popolo!
La
bramosia
di
queste
donne
accostata
a
quell’atteggiamento
missionario
delle
turiste
io
la
trovo
una
miscela
esplosiva
perfetta
per
far
saltare
in
aria
una
cultura
così
antica
e
compatta.
Come
possono
queste
donne,
proprio
loro
che,
con
i
loro
veli
colorati,
gioielli
intarsiati,
trucchi
delicati,
hanno
ispirato
generazioni
di
stilisti
e di
mode
in
tutto
il
mondo,
desiderare
con
tanto
ardore
la
robaccia
sintetica
del
nostro
mondo?
Loro
che,
con
quei
colli
lunghi
attorcigliati
da
anelli
d’oro,
i
trucchi
fatti
di
sandalo
e
argilla,
i
profumi
estratti
da
un
naturalissimo
pestaggio
e
drenaggio
di
fiori
ed
erbe
da
loro
stesse
raccolte,
rappresentano
l’essenza
della
femminilità.
E le
turiste,
come
fanno
a
non
vedere
la
dipendenza
cui
stanno
costringendo
queste
signore
smarrite,
accecate
da
un
qualcosa
di
nuovo,
di
lontano,
di
cui
però
non
conoscono
la
provenienza?!
“American,
American?”-
domandano.
Gli
occhi
si
illuminano
sui
loro
visi
delicati
nella
speranza
che
tutto
sia
americano.
Sì,
American
sono
le
magliettine
Adidas
cucite
in
Cina
dalle
manine
dei
bambini,
dalla
Cina
che
arma
e
finanzia
il
governo
che
massacrò
i
loro
padri
e
che
tutt’ora
uccide
i
loro
mariti.
“American,
American!”
Nargis,
una
sorpresa
nella
notte
tra
Venerdì
2 e
Sabato
3
Maggio
2008.
(Articoli
tratti
dalla
mia
corrispondenza
con
Peace
Reporter).
Yangon,
i
venti
hanno
iniziato
ad
alzarsi
verso
le
22:00.
È
alle
tre
del
mattino
che
siamo
stati
svegliati
dallo
sbattere
delle
lamiere
dei
tetti
delle
case,
ormai
staccate
quasi
del
tutto.
La
pioggia
ancora
non
aveva
iniziato
a
cadere.
Le
antenne
paraboliche
son
quelle
che
hanno
causato
più
danni,
sembravano
dei
giganteschi
frisbee
impazziti
lanciati
contro
case
e
palazzi,
schiantandosi
infine
sulle
auto
parcheggiate
in
strada.
Verso
le
cinque
ha
iniziato
a
precipitare
una
pioggia
torrenziale
riempiendo
d’acqua
le
abitazioni
ormai
prive
di
tetti.
In
poco
più
di
un’ora
il
livello
dell’acqua
nelle
strade
si é
alzato
fino
all’altezza
delle
maniglie
degli
sportelli
delle
auto.
I
venti,
soffiando
fino
ai
220
Km/h,
accompagnati
da
un
ininterrotto
acquazzone,
non
hanno
lasciato
tregua
ai
cittadini
di
Yangon
e al
resto
della
popolazione
del
sud
del
Myanmar
fino
alle
dieci
del
mattino
quando,
d’improvviso,
una
silenziosa
calma
ha
pervaso
il
terreno
ormai
distrutto.
Yangon
era
devastata.
Due
alberi
su
tre
sono
stati
sradicati
dal
suolo
trascinando
con
loro
anche
l’intera
lastra
di
cemento
circostante.
Non
un
cartello
rimasto
in
piedi.
Ci
son
volute
quarantotto
ore
per
raggiungere
Dalah,
il
quartiere
più
povero
della
città,
appoggiato
sulla
sponda
sud
del
fiume
Irrawaddy.
Qui
le
case
in
mattone
e
cemento
si
contavano
sulle
dita
di
una
mano,
il
resto
delle
abitazioni
non
era
altro
che
un
ammasso
di
baracche
di
legno
e
bambù,
di
cui
le
porte
erano
costituite
da
un
telo
di
plastica.
Le
zone
più
colpite
ed
ancora
inaccessibili
sono
le
cittadine
appoggiate
sul
delta
del
fiume
Irrawaddy.
Bogale
é il
villaggio
più
colpito,
più
di
10.000
morti.
“Solo
dieci
case
sono
rimaste
in
piedi”
– é
la
voce
che
é
arrivata
al
nostro
tassista.
Poi
Laputá
con
circa
2.000
morti,
Pyapon
circa
1.500
e
Gheliá
con
1.000
decessi
circa
(poche
settimane
dopo
la
pubblicazione
di
questo
articolo
il
numero
complessivo
dei
morti
venne
confermato
tra
i
centocinquanta
ed i
duecentocinquantamila).
In
questa
regione
all’altitudine
del
livello
del
mare,
composta
da
campi
e
risaie,
l’acqua
é
salita
fino
a
cinque
metri,
annegando
e
portando
via
ogni
forma
di
vita.
La
rabbia
della
gente,
seppur
contenuta
nella
loro
solita
paura,
é
diretta
quasi
interamente
al
governo
che
“ha
dato
pochissimo
preavviso
e
quello
che
ha
dato
era
sbagliato”.
In
effetti
solo
nei
grandi
alberghi
e
nei
lussuosi
palazzi
di
uffici
a
Yangon
sono
apparse
circolari
di
avvertimento.
A
quella
parte
di
popolazione
proprietaria
di
radio
o
televisione
era
stato
accennato
che
verso
le
14:00
di
Sabato
una
grande
tempesta
avrebbe
colpito
l’ex
capitale.
Gli
abitanti
son
stati
colti
di
sorpresa
con
dodici
ore
di
anticipo,
da
un
vero
e
proprio
uragano,
proprio
nel
cuore
della
notte.
La
situazione
presente
rimane
ancora
critica.
Gli
sfollati
in
gran
parte
sono
radunati
nelle
Pagode
(i
monasteri
buddisti),
le
uniche
strutture
di
cemento.
Le
famiglie
più
ricche
offrono
quel
che
possono,
riso,
acqua
potabile,
soldi.
L’aiuto
dell’esercito
non
è
ancora
visibile.
Sui
giornali
e le
TV
governative
appaiono
foto
ed
immagini
di
soldati
sorridenti
che
offrono
ai
civili
scatoloni
di
viveri.
Ma
né
in
strada
a
Yangon
né
nei
villaggi
circostanti
s’intravede
una
divisa
verde.
Oggi
pomeriggio
abbiamo
cercato
di
visitare
un
centro
d’accoglienza
messo
su
in
un
liceo
statale.
All’ingresso
una
ventina
di
uomini,
alcuni
in
divisa,
altri
in
borghese,
armati
di
radioline
ci
hanno
circondato
e
dopo
un
breve
interrogatorio
ci
hanno
riaccompagnati
al
taxi.
Non
eravamo
i
benvenuti.
“Questi
sono
centri
d’aiuto
solo
in
apparenza,
ma
pochissimo
cibo
ed
acqua
vengono
in
realtà
distribuiti”
–
si
lamentava
il
tassista
una
volta
ripartiti.
Certo
è
che
la
nostra
presenza
e
quella
dei
nostri
obbiettivi
fotografici
non
è
stata
affatto
gradita
in
quello
che
doveva
essere
un
punto
di
forza
per
un
governo
tanto
criticato.
La
Croce
Rossa
Internazionale
dal
suo
piccolo
ufficio
sulla
Strand
Road
a
Yangon
riporta
sulla
“situazione
disastrata
del
delta”.
Hanno
inviato
ieri
delle
squadre
di
soccorso
(composte
solo
da
operatori
locali,
gli
occidentali
non
sono
ancora
ammessi).
L’ONG
svizzera
coordinerà
gli
aiuti
ed
il
lavoro
delle
altre
organizzazioni
che
arriveranno
nei
prossimi
giorni.
Il
governo
ha
ufficialmente
chiesto
l’aiuto
internazionale
(un
aiuto
prettamente
economico
e
non
fisico).
Yangon
rimane
ancora
al
buio.
Acqua
ed
elettricità
sono
disponibili
solo
ai
proprietari
di
generatori.
Il
prezzo
della
benzina
però
è
raddoppiato
e le
prospettive
sono
di
un
continuo
rincaro.
I
supermercati
sono
quasi
vuoti
e le
risorse
di
acqua
potabile
pressoché
esaurite.
La
WHO
(l’organizzazione
mondiale
per
la
sanità)
assicura
che
passeranno
almeno
due
mesi
finché
la
corrente
elettrica
tornerà
nelle
case.
Le
notizie
in
questo
paese
spesso
viaggiano
solo
di
voce
in
voce
e
per
questo
difficili
da
confermare.
Questa
per
ora
è la
situazione
di
Yangon
e
dei
suoi
dintorni.
Morte,
disperazione
e
distruzione.
Siamo
a
Bogale,
un
centinaio
di
chilometri
a
sudovest
di
Yangon,
nel
cuore
della
regione
del
delta
dell’Irrawaddy.
È la
zona
più
colpita
dalle
inondazioni
provocate
dall’uragano
Nargis.
Centinaia
di
cadaveri
gonfi
abbandonati
ovunque.
La
marea
li
ha
lasciati
lì
dove
è
stata
riassorbita
dal
terreno.
Il
corpo
di
un
bambino,
avrà
avuto
due
anni,
ha
ancora
un
laccio
legato
alla
caviglia
destra,
probabilmente
messo
dalla
madre
per
evitare
inutilmente
che
fosse
trascinato
via.
Due
giorni
fa,
subito
dopo
il
cataclisma,
in
una
baracca
Ma
Gan,
una
giovane
madre
di
ventidue
anni
ha
dato
alla
luce
un
bambino.
Per
una
disfunzione
al
seno
non
riesce
a
produrre
latte,
quindi
è
costretta
a
“nutrire”
il
piccolo
con
l’acqua
putrida,
fangosa
e
piena
di
cadaveri,
del
canale
che
le
scorre
vicino.
Non
c’è
acqua
pulita,
potabile.
E
non
c’è
nemmeno
riso.
I
contadini
raccolgono
quel
che
possono
dai
campi
marci,
frugano
tra
le
macerie
in
cerca
di
chiodi
arrugginiti
per
inchiodare
teli
di
plastica
su
canne
di
bambù,
per
costruire
rifugi
di
fortuna.
Piove
sul
bagnato.
Nargis
se
ne è
andato,
ma i
monsoni
sono
iniziati
e
quindi
la
pioggia
continua
a
cadere
e lo
farà
per
i
prossimi
cinque
mesi.
Una
delle
caratteristiche
del
popolo
birmano,
apprezzata
dai
visitatori
del
mondo
intero,
è la
sua
capacità
di
sorridere
in
ogni
momento.
Sorridono
dopo
esser
stati
massacrati
dai
militari
nelle
manifestazioni
di
piazza;
sorridono
e
chiedono
scusa
quando
al
buio,
per
sbaglio,
se
ne
calpesta
uno
mentre
dorme
sdraiato
in
mezzo
al
marciapiede;
sorridono
i
poveri;
sorridono
i
malati.
Ma
oggi,
qui
a
Bogale,
non
sorride
più
nessuno.
Lo
sguardo
di
tutti
è
cupo,
vuoto.
Qui,
come
in
tutte
le
aree
più
colpite
dal
disastro,
il
referendum
costituzionale
previsto
per
domani
è
stato
rinviato
al
24
maggio.
D’altronde,
tutti
hanno
ben
altro
a
cui
pensare
in
questo
momento.
Torniamo
nella
ex
capitale,
Yangon.
La
corrente
elettrica
non
c’è
ancora.
Le
luci
che
avevamo
visto
l’altra
sera
accendersi
nelle
pagode
e in
alcuni
edifici
erano
alimentate
da
generatori
rimessi
in
moto
dopo
diversi
giorni.
L’acqua
c’è,
ma è
razionata
con
orari
diversi
di
quartiere
in
quartiere.
Ovviamente,
l’acqua
che
esce
dai
rubinetti
non
è,
come
non
è
mai
stata,
minimamente
potabile:
per
berla
bisogna
bollirla.
Nelle
strade
c’è
ancora
gente
armata
di
accetta
e
machete:
tutti
assieme
a
tagliare
e
spostare
gli
enormi
tronchi
caduti
sulle
carreggiate.
Senza
lamenti,
sorridendo,
gli
uomini
si
danno
il
cambio,
tagliano
e
spostano
rami.
Un
popolo
autonomo
che
sa
bene
di
non
poter
contare
sull’aiuto
di
nessuno,
tantomeno
del
proprio
governo.
La
tragedia
è
tutt’altro
che
finita.
Una
tragedia
inutile,
voluta,
cercata.
Oggi
abbiamo
riempito
un
furgoncino
di
cibo
da
portare
nei
campi
profughi
accampati
nelle
zone
del
delta.
Chili
di
riso,
verdure,
aglio
e
legumi.
L’autista
del
veicolo
tira
fuori
dal
cruscotto
una
bottiglia
d’acqua
minerale
e
dopo
averne
bevuto
un
sorso,
in
perfetto
inglese
dice
di
averla
acquistata
al
mercato.
La
cosa
non
avrebbe
sconvolto
nessuno
se
la
marca
di
quell’acqua
non
fosse
stata
Singha:
un’acqua
imbottigliata
in
Thailandia,
mai
approdata
sul
mercato
birmano.
Quella
bottiglia
faceva
parte
di
un
carico
di
viveri
appena
donato
dal
governo
thailandese.
“Gli
agenti
dell’Usda
(Union
Solidarity
Development
Association),
i
servizi
segreti
del
regime,
vendono
gran
parte
delle
risorse
donate
ai
profughi
ai
mercati,
le
parti
migliori
le
tengono
per
loro
e
una
fetta
minima
la
passano
ai
bisognosi”
– ci
confessa
l’autista.
Una
simile
testimonianza
l’avevamo
raccolta
appena
tre
giorni
prima
a
Sittwe,
capoluogo
dello
stato
di
Arakan,
nel
nord
del
Paese:
“Ogni
anno
da
noi
arrivano
due
o
tre
cicloni
che
uccidono
centinaia
di
persone,
ma
nessuno
ne
parla
perché
qui
non
ci
sono
gli
occidentali”
– ci
aveva
detto
il
preside
di
una
scuola
privata,
aggiungendo
che
–
“L’anno
scorso
la
Croce
Rossa
aveva
donato
migliaia
di
ottime
coperte,
ma
il
governo
se
le
era
tenute
rimpiazzandole
con
degli
stracci
di
bassissima
qualità
comprati
in
Cina,
e
poi
le
ha
rivendute
sul
mercato
a
duemila
Kyats
(due
dollari)
l’una”.
Il
nostro
furgone
viene
fermato
a un
posto
di
blocco
dell’esercito
non
lontano
dalla
ex
capitale
Yangon.
Nonostante
le
nostre
preghiere
e
spiegazioni:
“vogliamo
solo
portare
viveri
a
chi
ne
ha
bisogno”
– i
soldati
ci
rimandano
indietro.
Non
c’è
modo,
per
nessun
occidentale,
di
attraversare
quei
blocchi,
di
portare
aiuto.
Né
per
volontari
indipendenti,
né
per
operatori
di
Ong.
La
fame,
la
sete,
le
malattie
stanno
dilagando
di
minuto
in
minuto.
Le
organizzazioni
sono
impotenti.
I
magazzini
dell’aeroporto
di
Yangon
sono
pieni
di
scatoloni,
ma
nulla
per
adesso
arriva
a
chi
ha
un
disperato
bisogno
del
loro
contenuto.
“Hanno
paura
dei
giornalisti”
–
continua
a
spiegarci
l’autista
–
“paura
che
i
giornalisti
scrivano
sull’omissione
di
soccorso
e
che
denuncino
il
crimine
di
vendere
ciò
che
è
stato
donato
dalla
comunità
internazionale”.
Esiste
un
personaggio
molto
apprezzato
dal
popolo
birmano,
una
figura
scomoda
per
i
generali
della
giunta:
Kyaw
Thu,
attore
famoso,
fondatore
della
FFSS
(Free
Funeral
State
Service),
una
fondazione
che
offre
funerali
completamente
gratuiti
a
chi
non
può
permettersene
uno
e
che
per
l’occasione
si
sta
impegnando
sull’assistenza
post
Nargis.
Decidiamo
di
andare
al
quartier
generale
della
FFSS,
dove
troviamo,
in
un
capannone,
un
centinaio
di
volontari
che
piegano
vestiti
impacchettandoli
in
sacchi
e
scatoloni.
“Vi
ringraziamo
di
cuore
per
questa
donazione”
– ci
dice
un
anziano
seduto
a
una
scrivania
–
“purtroppo
però
non
possiamo
scrivere
sul
registro
dei
donatori
che
questo
materiale
proviene
da
occidentali,
il
governo
ci
darebbe
troppi
problemi”.