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N. 26 - Febbraio 2010 (LVII)

ASIA, BUDDHA E un reporter senza lavoro
PARTE X – SPERANZA AL DI LÀ DELLE MONTAGNE

di Gianrigo Marletta

 

Mae Sot, 17 marzo 2007. Ottenuto un permesso invisibile, costato 500 Bath (10 euro) da alcune autorità invisibili, pagate a un uomo intermediario tangibile, sono riuscito ad infiltrarmi nel campo profughi di Mae Lae, a cinquanta chilometri da Mae Sot, città di confine tra Thailandia e Birmania.

 

A Mae Lae vivono al momento più di 50.000 rifugiati della tribù Karen.

 

Con meno di 24 ore a disposizione ed un limitatissimo permesso di mobilità all’interno del campo ho potuto constatare quanto segue: le testimonianze sono atroci.

 

I lunghi giorni di cammino tra la cruda foresta e le zone altamente minate, col continuo terrore di imbattersi in qualche pattuglia dell’SPDC (Stae Peace and Development Council), i soldati del governo birmano, sembrano di poco conto se accostate alle orribili esperienze che ognuno di questi profughi ha dovuto sopportare prima di iniziare quella tormentosa fuga.

 

I racconti più comuni sono quelli di stupri e torture. “Quando arriva l’esercito nei villaggi, gli uomini vengono trascinati fuori dalle case, presi a calci e pugni e le donne portate via”. 

 

Portate dove? “In mezzo alla foresta, a qualche chilometro dal villaggio, ad essere stuprate spesso da un intero plotone”.

 

Naw Moo Moo, una ragazza di vent’anni, è una dei 4000 casi riportati in un rapporto pubblicato nel febbraio scorso dalla KWO (Karen Women’s Organisation).

 

Naw Moo Moo fu stuprata ripetutamente da quattro soldati della 246° divisione e poi uccisa con un colpo di pistola nella vagina.

 

Il fenomeno dei ‘portatori’ e degli ‘apri pista’ è sempre più frequente.

 

Uomini e donne costretti, senza mai essere nutriti, a portare in spalla le pesantissime casse di cibo e munizioni per l’esercito o ancor peggio, a camminare qualche metro davanti ai militari pronti a saltare in aria in caso calpestassero una mina.

 

Storie di donne afflitte da aborti spontanei, costrette a continui lavori forzati, mal nutrite e malate, non riuscendo quindi a portare a termine una gravidanza arrivano di continuo alle mie orecchie.

 

Le persone qui sono tantissime ma rimangono sempre le poche fortunate ad aver raggiunto questo campo.

 

Ognuno ha una, due, dieci storie disumane da raccontare e moltiplicarle per quel numero che supera i 50.000, fa davvero paura.

 

All’interno del campo tutto sommato si notano tantissimi sorrisi, calore familiare e grande solidarietà.

 

Dalla prima ondata del 1995 a quella di quest’anno, causata dall’ ultima offensiva da parte del governo, i Karen hanno ricreato qui, sul lato orientale del monte che li divide dal loro territorio, un villaggio, seppure affollatissimo, identico a quelli in cui hanno sempre vissuto ed ora dati al fuoco dall’esercito birmano.

 

Capanne e palafitte di legno e bambù dai tetti fatti di foglie secche fanno da abitazioni, negozi, parrucchieri, templi, chiese ed infermerie. Non vi è la minima presenza di cemento e l’elettricità, rarissima, è nei pochi casi alimentata da generatori a benzina.

 

Una cosa però manca quasi del tutto, la cosa su cui ogni uomo e donna Karen ha da sempre contato: la coltivazione. Non vi sono che sporadici orticelli di pochi centimetri quadrati che più per il sostentamento di una famiglia sembrano tristi monumenti dedicati a ciò che, per millenni, è stata l’attività principale di un intero popolo.

 

Non potendo più coltivare, ogni famiglia deve arrangiarsi per sfamarsi. Le Organizzazioni Non Governative, numerosissime nella zona, con i loro aiuti sono pressoché l’unica salvezza per queste persone. Nessuno in teoria può varcare i cancelli di filo spinato che costeggiano l’intero campo.

 

I tanti giovani che, nel tentativo di raggiungere le città più vicine in cerca di un lavoro, vengono presi sono rispediti nelle mani dei loro carnefici in Myanmar.

 

Il campo è suddiviso in tre settori: A, B e C, dai confini invisibili. Disposto su circa tre chilometri lungo la strada statale 105 che costeggia parte del confine Thailandia/Birmania non mancano le suddivisioni in fazioni religiose. I cattolici, che prevalgono di numero, sembrano essere molto osservanti.

 

La domenica si radunano a centinaia nelle cinque chiese sparse nel campo. Tre messe al giorno con tanto di canti corali e piccole pianole che fungono da organo, permettono ai fedeli di portar a termine i loro doveri da cristiani. “Che Dio ti benedica” è la frase che conclude ogni conversazione.

 

In cima al picco più alto della lunga montagna, invece, spunta uno Stupa buddista. Subito sotto, in una caverna, abitano tre monaci che, sereni e meditativi, vegliano continuamente sull’intero villaggio.

 

Anche i musulmani hanno la loro comunità ed una moschea dove pregare.

 

“Non sempre però vi è pace tra i gruppi religiosi” - mi spiega Luka, padre del reverendo Arther. Ogni anno si verificano piccoli tumulti tra fazioni che finiscono solitamente con qualche ferita da coltello.

 

Togliendo comunque i piccoli disturbi dovuti sicuramente dalla sovrappopolazione e dunque ad un continuo contatto troppo intimo e forzato, io percepisco molta serenità.

 

I bambini, le loro madri, i loro padri ed i loro nonni, tutti, sembrano avere un costante sorriso. Incuriositi dalla presenza di un uomo bianco, venivo seguito da gruppetti di curiosi pronti a ridere ad ogni mio movimento ed espressione.

 

La loro vita, seppur povera e semplice, sembra alimentata da un grandissimo senso di comunità. Nessuno si sente solo e seppure il desiderio di tornare “a casa” sia fortissimo la determinazione ed il senso di appartenenza ad una delle tribù più antiche del mondo sono fortemente radicati nello spirito di ognuna di queste persone e questo forse un giorno aiuterà loro a ritornare nei loro villaggi, a lavorare in pace i loro campi ed a continuare a chiamarsi con fierezza: “Tribù Karen”.

 

Entrambi gli articoli qui su riportati furono pubblicati: il primo dalla rivista 50&più, il secondo da Peace Reporter (il giornale italiano online, privo di censure e di manipolazioni, che si occupa di notizie provenienti da tutto il mondo).

 

Le immagini dei monaci scesi nelle strade catturate nell’estate del 2007, e che hanno fatto il giro del mondo, ancora dovevano essere riprese e la ‘comunità internazionale’ sapeva troppo poco sulla situazione birmana.

 

Quando facevo l’Assistente di Volo operavo spesso la tratta Milano-Yangon, trasportando centinaia di turisti alla volta.

 

Turisti che avrebbero in massa occupato le bellissime spiagge del sud, visitato le sublimi Pagode delle città e goduto dei sorrisi umili e caldi degli abitanti delle campagne.

 

Turisti ignari del regime, delle torture, dei massacri. Era il mio scopo terminare o almeno ridurre questo flusso di villeggianti.

 

Fortunatamente la rivoluzione dei monaci portò ad una coscienza globale sulla realtà del paese e i Tour Operator stessi terminarono i loro pacchetti viaggio in Birmania. Per adesso.

Domenica 27 maggio del 2007, a mezzogiorno ora locale di Yangon doveva essere liberata la Leader della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD).

 

I tassisti lo sapevano, i ristoratori se ne rallegravano, tutti ne erano a conoscenza ma nessuno ne parlava. Il terrore è ancora vivo e solo per pronunciare il suo nome ogni birmano prima si guarda intorno per controllare che nessuno lo stia spiando, poi abbassa la voce e quasi a sussurrare pronuncia le quattro parole: Aung San Suu Kyi.

 

Conosciuta internazionalmente ormai come The Lady, una donna di sessantadue anni, figlia del generale che prima regalò l'indipendenza alla Birmania e che poi venne assassinato da una congiura di oppositori, sconfisse con l’ottantatre per cento dei voti l’attuale governo durante le elezioni “concesse” dalla giunta nel 1990. Al termine dei risultati, Aung San Suu Kyi non solo non ottenne quella leadership, ma vide se stessa e tutti gli altri membri del partito arrestati con la tortura e l'uccisione di molti segretari.


Costretta agli arresti domiciliari per la prima volta nel 1989, Aung San Suu Kyi da allora ha visto la libertà solo quattro volte in occasione di sporadiche posizioni di apertura da parte della giunta militare che dal 1962 tiene il paese schiacciato sotto un regime di terrore e oppressione. Tali aperture si sono sempre concluse in ripensamenti che hanno visto la Suu Kyi rimessa davanti alla solita scelta, esilio o arresto. The Lady si è ogni volta rifiutata di lasciare il paese. Dotata di forte convinzione che solo da “dentro” le sarebbe stato possibile avere un’influenza maggiore sul regime e sapendo bene che mai le avrebbero permesso di tornare in patria in caso si esilio, Aung San Suu Kyi ha sempre optato per gli arresti domiciliari.

 

Vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 1991 la Leader della NLD doveva già essere liberata il 27 Maggio dell'anno scorso. La data venne rinviata all'anno successivo, ad oggi.

 

Cosa sarebbe cambiato? Una domanda per una risposta difficilissima da ottenere. Certo è che il governo non aveva alcuna intenzione di passare il potere in altre mani. In prevenzione di questo la giunta militare, con a capo il generale Than Shwe, ha posto tra i primi punti della nuova costituzione (ancora in fase di scrittura) che in nessun caso può elevarsi alla guida del paese chi è, o è stato, sposato con uno straniero (Aung San Suu Kyi è vedova di Daniel Aris antropologo e cittadino inglese) e chi è stato imprigionato. Il “caso” vuole che la Suu Kyi abbia trasgredito entrambi i punti.

 

L’ultimo tassista che stamani mi ha condotto alla University Avenue, la strada costruita dagli inglesi durante l’occupazione dove ora si trova la casa/prigione di Aung San Suu Kyi, viveva ancora nell’illusione che la Leader pacifista dopo qualche ora sarebbe stata liberata. Neanche lui, come me, sapeva che già da tre giorni l’intera comunità internazionale era stata avvertita con un breve comunicato da parte della giunta che la scarcerazione sarebbe stata rinviata di altri dodici mesi. Il blocco totale delle reti televisive internazionali e quella parziale di internet rende impossibile qualsiasi tipo di aggiornamento dall’interno.

 

Il terrore porta la gente a non parlare e quindi a non scambiarsi informazioni. “Non lo so” - è la tipica risposta ad ogni domanda. Lo stesso terrore porta a una reazione nulla ad ogni evento come quello di oggi. Nei pressi della University Avenu non spicca un cartello di “ben tornata” né uno di protesta, non s'intravede un raduno di persone, non un giornalista. L’unica variazione alla norma è il blocco totale di quella via al traffico. Sei soldati con i mitra puntati all’asfalto chiacchierano sulla sponda più trafficata, dall’altra parte i militari sono solo tre. Il governo non sente nemmeno la minaccia di una potenziale insurrezione. La gente sa bene che non sono quei nove soldati armati da temere, bensì le centinaia di spie che ogni giorno si aggirano nelle strade, nelle piazze e nelle sale da tè ad ascoltare e a registrare ogni conversazione.

 

“Registrano tutto e se non gli piace ciò che dici, ti fanno la foto e poi tok tok, nella notte bussano alla porta e ti portano via”- questa la frase di un tassista che semplicemente ripete le confessioni di moltissimi altri. La svolta di oggi sicuramente non avrebbe regalato nessun cambiamento politico al paese ma certamente avrebbe potuto riaccendere quella piccola speranza che ogni cittadino birmano tiene soffocato nell’abissale fondo del cuore per un diritto che qui da troppi anni non esiste più, la libertà.


 

 

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