.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

.

attualità


N. 24 - Dicembre 2009 (LV)

ASIA, BUDDHA E un reporter senza lavoro
PARTE VIII – STORIE DI BAMBINI CAMBOGIANI

di Gianrigo Marletta

 

Ad agosto Jennifer ed io andammo ad abitare a Phnom Penh. La Cambogia ci fece sentire a casa e così decidemmo di provare a stabilircisi per un po’. Resistemmo solo quattro mesi.

In quel periodo contattammo un canale televisivo americano: Current Tv, fondato dall’ex vice presidente americano Al Gore.

Mandammo loro dei progetti di brevi documentari su cui stavamo lavorando. Volevamo raccontare la storia di alcuni personaggi incontrati nelle strade di Phnom Penh. Nello specifico quella di un gruppo di bambini “randagi” che vivono e crescono a bordo dei suoi marciapiedi.

Current Tv accettò la nostra proposta e finalmente arrivò il primo giorno di riprese. Finalmente il primo ingaggio: un mini documentario sui bambini di strada costretti a vendere libri che trasportano in pesantissime ceste legate sulle spalle e che alle volte, per pochi dollari in più, oltre ai volumi si vedono costretti a vendere anche i loro corpicini a qualche turista voglioso (anche se, e bisogna ricordarlo, i più grandi “consumatori” di prostituzione infantile sono gli asiatici stessi).

Chiamarli bambini, se non fosse per la piccola statura e la giovanissima età, sarebbe quasi incorretto. Autosufficienti già dall’età di quattro anni, questi piccoli esseri umani, hanno l’astuzia e la furbizia di un ragazzo, la violenza di un uomo e la saggezza di un vecchio.

Sono talmente abili nel parlare da mettere in difficoltà chi ha trent’anni di vita in più.

Per noi oggi hanno cantato e poi ci hanno raccontato la loro storia. Orfani, senza dimora, senza educazione, senza passato e senza futuro.

A metà degli anni settanta, ossia nel periodo in cui il comunismo sconfisse l’America prendendo il sopravvento sull’intera penisola indocinese, quarantamila famiglie cambogiane furono accolte dagli Stati Uniti come rifugiati politici e profughi di guerra. Emigrarono principalmente donne e bambini.

Approdate le sponde degli U.S.A. però, ad accoglierli non vi erano gli eleganti quartieri dalle tipiche villette a due piani, circondate da giardinetti ritagliati perfettamente e sottratti ai bei viali di cemento, col canestro da basket e la piscina nel backyard. Quelle ville sono sempre state riservate a un’altra tipologia di cittadino.

Le famiglie khmer furono disposte invece nei quartieri cosiddetti “svantaggiati”, meglio conosciuti come “ghetti”. Madri e pochi padri, in gran parte analfabeti, si videro scaraventati in un nuovo mondo di cui conoscevano ben poco. Dovettero imparare a decifrare, ma soprattutto a sopravvivere in quella che era una giungla di nuovi impulsi, di nuovi costumi e soprattutto di nuove difficoltà.

Credevano di aver abbandonato da povertà lasciando il loro paese, ma presto si accorsero che la povertà non aveva abbandonato loro. Lavoro ce n’era poco, aiuto sociale ancor di meno. Presto l’unico conforto e senso di familiarità iniziarono ad arrivare da una sola direzione: la propria comunità. I cambogiani segnarono un cerchio e se lo strinsero attorno.

Così fecero i laotiani, i vietnamiti e tutti gli altri derelitti sopravvissuti alle bombe sganciate dal paese che ora, così generosamente, li ospitava. In uno stesso quartiere vivevano cittadini di paesi diversi e ognuno di questi “paesi” chiuse le proprie frontiere.

I bambini pian piano crescevano. Bambini diventati americani ma nati altrove. Bambini rinchiusi nei confini etnici di nazioni che, a migliaia di chilometri oltre oceano, praticamente non avevano mai visto. Bambini poveri, poverissimi che presto divennero adolescenti e poi adulti. Le scuole da frequentare erano le peggiori, l’educazione nei “ghetti” americani, come si sa, non è tra le più prestigiose.

Le famiglie, smarrite, vittime di stress post traumatici, arrabbiate e a questo punto ostili verso tutto e tutti, non furono dei veri e propri “modelli” per i loro figli e questi, in grandissima parte, divennero negl’anni a seguire il prodotto dei loro quartieri: membri delle gang.

Droga, sesso, armi e violenza formarono il quartetto tipico e gli strumenti con cui ogni gangster iniziò a dirigere la propria vita. Ragazzi sofferenti, arrabbiati; appartenenti ad etnie fantasma: americani forse, cambogiani, laotiani e vietnamiti solo per l’onore.

Chi in California, chi a Chicago, chi a New York, chi a Philadelphia, in ogni città del paese il fenomeno si realizzò nella stessa maniera, come se creato ed orchestrato da un’unica mano invisibile, invariante da metropoli a metropoli.

Natura umana? Istinto interiore? Mal gestione del programma per l’immigrazione condotto dal governo statunitense?

Fatto sta che centinaia di questi giovani nati sotto le bombe, trasportati in braccio da madri disperate, approdati in terre sconosciute, divenuti criminali di strada, finirono tutti in prigione. Chi da omicida, chi da stupratore, chi da spacciatore. Le galere americane, alla fine degli anni novanta, si riempirono di figli di profughi.

La sovrappopolazione nelle carceri è un problema crescente in America e nel 2001 (anno in cui gli Stati Uniti, con la scusa delle torri gemelle perdute, approfittarono per regolare quei conti nazionali e internazionali che prima il pudore non gli avrebbe mai permesso) il presidente George Bush fece passare una legge che ordinava l’immediata deportazione di ogni detenuto nato fuori dal suolo americano.

Lo shock colpì loro quando il giudice li convocò per una seduta straordinaria, emettendo una sentenza di cinque semplici parole: “Ve ne tornate in Cambogia!”. Stesso per i laotiani, per i vietnamiti e per tutti gli abitanti dei paesi dilaniati dalle bombe sganciate da quell’America che ora li sbatteva fuori.

La cosa passò in sordina, i media non ci si dedicarono granché e ora, a distanza di pochi anni, qualche centinaio di loro vive nei quartieri “svantaggiati”, o meglio conosciuti come “ghetti”, delle città in cui nacquero. Un “aereo speciale” li ha scaraventati nella loro (ennesima) nuova esistenza.

Gran parte dei deportati non parla la lingua locale; molti di loro a malapena parlano l’inglese, sanno esprimersi solo tramite lo slang di un americano violento. All’arrivo nessuno aveva una famiglia ad attenderli all’aeroporto, semplicemente perché nessuno aveva una famiglia sopravvissuta ai risultati della guerra. Privi di una qualunque forma di educazione, l’unica attività con cui avevano familiarità e con cui si presentavano nella nuova patria era: la delinquenza.

Incontrai alcuni di questi ragazzi a Phnom Penh. Vivono ora sparpagliati per la città. Molti di loro hanno continuato lo stile di vita scelto per loro dal destino, in Asia e in America, e muoiono tra coltellate e overdose. Spacciano, si bucano e si ammazzano. Altri invece hanno subito un cambiamento talmente radicale da lasciare chiunque di senza parole.

Posti davanti ad un bivio con i due cartelli che, puntando le strade in opposte direzioni indicavano continuazione o svolta del corso di una vita che li aveva trascinati fin lì, essi optarono per la seconda ed imboccarono il sentiero che li avrebbe condotti nel punto in cui si trovano oggi: operatori di un’organizzazione umanitaria da loro stessi ideata, creata e portata avanti.

Capelloni, pieni di piercing, vestiti con abiti di almeno dieci taglie troppo grandi, tatuati ovunque (anche in faccia), dalla parlata da spaventare anche il più cattivo dei rapper di Los Angeles, oggi, mentre chiacchiero con loro, mi parlano di compassione, di educazione, di bambini, di aiuti, di donazioni, di O.N.G., di prevenzione e di tutti gli argomenti che occupano e preoccupano chiunque abbia scelto di offrire la propria esistenza all’aiuto verso il prossimo.

Hanno creato un’organizzazione che ripesca i bambini di strada dalle fauci affamate di un destino impaziente che gravita continuamente su di loro: prostituzione, AIDS, colla, eroina.

KK, il fondatore di un’organizzazione chiamata Tiny Toons, un ragazzo dolce e delicato ma anche molto attento a sopprimere tali caratteristiche, fu scovato un pomeriggio da alcuni ragazzini mentre praticava la break dance in un parco vicino casa.

“Insegnaci signore, insegnaci a ballare così!” in coro i bambini lo pregarono. Un po’ perplesso all’inizio, KK impartì qualche mossa. I bambini entusiasti ne vollero ancora. Lui li accontentò.

KK e un’altra decina di deportees oggi tengono una scuola che educa circa settecento bambini. Iniziarono con lezioni di break dance, passando poi, negli anni successivi, all’educazione sessuale e all’importanza dell’astensione dalla droga: riempiendo loro il tempo con lezioni di lingua khmer e d’inglese. I bambini imparano a leggere e a scrivere, a comportarsi, a stare attenti, ad amare e ad essere amati.

Questi criminali di strada, senza famiglia, senza patria e senza passato, anticipando le intenzioni che il futuro aveva in serbo per loro, decisero di dargli quel brusco cambio di direzione, quella svolta che tanto avrebbe giovato alla vita altrui, impegnandosi fino in fondo a non far sprofondare altri nello stesso baratro da cui loro stessi stavano ancora risalendo.

Girammo un video reportage (il secondo per Current Tv) su KK e Tiny Toons. Raccontammo la storia dei deportati khmer/americani. Vivemmo a stretto contatto con loro per alcuni mesi, di conseguenza convivemmo momenti anche con coloro che KK e gli altri stanno così stupendamente cercando di salvare: i bambini.

Ispirato da ciò che vissi quei giorni scrissi una lettera contro l’indifferenza e poi la inviai a tutte le mie conoscenze:

Oggi un altro giorno dietro la telecamera. Stiamo lavorando su un progetto che vede protagonisti dei ragazzi cambogiani andati in America come bambini rifugiati di guerra nel 1975 ed ora, a distanza di trent’anni, deportati in Cambogia come criminali di strada. Questi ragazzi nel prendere in mano la loro nuova vita hanno deciso di migliorare anche quella di altri. Settecento bambini oggi godono della loro attenzione. Di un’attenzione che li rende felici, li rende educati, meno affamati ma soprattutto più amati. Siamo andati nella scuola che i nostri amici deportati hanno messo su per questi piccoli: una stanza con i muri di legno e cartone. Una stanza che funge da classe solo quando non è allagata dai monsoni e riempita da tutti i detriti che esso porta. La scuola si trova in un quartiere dietro le quinte. Phnom Penh non è un bel vedere. Questo quartiere è ancora peggio. Si entra da un cancello adiacente alla stazione. Dopo pochi metri le prime carrozze sedentarie. Appoggiati su binari arrugginiti e frammentati questi vagoni ora fanno da casa: vestiti appesi a lunghe corde, spazzatura e puzza di escremento, uscendo dai grandi portelloni di quelli che erano treni merci, confermano. Tra un binario e l’altro un’infinità di baracche con il loro accompagnamento di spazzatura e puzza. Fin dove l’occhio si perde, putridume e catapecchie.

Niente di che per chi vive qui. La Cambogia è fatta di puzza e catapecchie. Ci si fa presto l’abitudine. Il perché di questo che vi sto scrivendo è un altro.

Diverse ore ho trascorso in quella scuola. Ho fatto le mie riprese ed ho fatto sparire, grazie ai giochi di prestigio, il fazzoletto rosso che tengo sempre in tasca. Una bambina di sei ed un bambino di cinque anni si sono particolarmente affezionati. Non mi lasciavano stare un minuto. Il piccolo si arrampicava su di me come fossi stato un albero. Lei voleva solo stare in braccio. Che carina, mentre sudavo (e Dio quanto ho sudato!) lei mi soffiava addosso per rinfrescarmi. Fratello e sorella, orfani, malati di AIDS. I genitori sono morti di AIDS. I genitori come la stragran maggioranza degli abitanti di questo quartiere erano “sex workers”, lavoratori del sesso. Anche loro, i piccoli, presto se non già, lo saranno: distruggendo la loro piccola e graziosa personalità, dipingendo di nero la loro piccola e misera vita e spargendo senza fine questa dannata malattia.

Quella piccola creatura che oggi mi è stata attorcigliata intorno al collo per ore ed ore presto sarà morta. E prima di morire sarà colta da dolore e sofferenza.

Non c’è nulla da fare. Non ci sono soldi che pagheranno per un’educazione ed un’adeguata sanità per tutti gli abitanti del mondo. Non ci sono abbastanza volontari per alleviare le sofferenze o almeno per regalare sufficiente amore. Non c’è nulla che possiamo fare per loro ma c’è molto che possiamo fare per noi stessi.

Con la decisione di scrivere articoli e creare filmati ho deciso di fare da tramite. Di mediare tra questo mondo e quello, il nostro, il vostro. È per questo che mi son preso la libertà di scrivere a tutti voi. Con quello che c’è qui vorrei far vedere alle persone quello che hanno lì.

Spesso, troppo spesso siamo accecati dai Nostri problemi. Fobie, paranoie, incazzature, gelosie.

Arrivismo, odio, rancore, ingordigia. Superficialità, ignoranza, ambizione e mancanza di carità.

Tutti stati mentali che nel corso di una giornata almeno una volta si affacciano. Crediamo che sarà la fine se non riusciamo ad ottenere una certa cosa o ancor peggio per ottenerla non guardiamo in faccia a nessuno.

Non guardiamo in faccia a nessuno! Ci disperiamo per cazzate, vogliamo sempre di più, non siamo mai soddisfatti con ciò che fino ad oggi ci ha tenuto in vita. Certo non è questo sempre il caso. Ma se lo fosse è qui che voglio colpire. Pensiamoci di più prima di incazzarci. Pensiamoci di più prima di voler assolutamente ottenere. Pensiamo di meno al passato e al futuro e godiamoci di più il presente. Perché volente o nolente è quello che stiamo vivendo, il presente. Trattiamo meglio tutti. Se si ha tempo da perdere non regaliamolo alla noia. Diamone a chi ne potrebbe gioire. I bambini, i malati ed i vecchi più delle medicine hanno bisogno di amore. E l’amore si da con l’attenzione. Basta dare un minimo di attenzione, cosa facilissima, e qualcuno gioisce. Ti rendi conto? Facilissimo! Noi possiamo molto, basta farlo.

Chi visita un paese non dovrebbe limitarsi ai costumi ed ai sapori locali. Non dovrebbe visitare solo i musei e le attrazioni tipiche. Chi visita un paese, specie del Terzo Mondo, deve trovare quel qualcosa che gli cambia la vita e che magari aiuti a cambiarla a qualcun’altro. E quando torna deve spartirlo con gli amici in modo che anche loro possano sentirsene ispirati. Quella bambina con suo fratello oggi mi hanno cambiato la vita. Mi hanno ispirato. Ora sono io a voler ispirare voi.


Ieri finalmente, dopo un lunghissimo tragitto in un pullman notturno da Bangkok, ho attraversato il confine con il Laos. Le pratiche per il visto sono avvenute in una remota frontiera proprio mentre il sole sorgeva. Lo spettacolo fu immenso. La bandiera di questo paese, simile a quella del Giappone, composta però da tre colori, rappresenta perfettamente ciò che ieri mattina ho vissuto. Al centro un cerchio, il sole, in un campo blu, il cielo, in un riquadro rosso, l’alba.

Questo viaggio, che non vorrei mai terminasse, mi sta regalando tantissimo. Come in ogni altro viaggio vivo la libertà.

Vedere le stelle la sera è più bello, non ci sono pensieri né preoccupazioni che offuscano il piacere di osservare. La luna, quando piena, è di grande aiuto perché illumina le strade e i sentieri spesso bui, e mi fa rendere conto che un altro mese è passato. La libertà è assoluta. Il muoversi, lo spostarsi caccia via le noie, le abitudini. Regala nuove emozioni. Guardare fuori dal finestrone dei pullman o dei treni mentre questi lasciano il conosciuto per l’ignoto, vedere i paesaggi che cambiano, i visi che mutano, è una sensazione difficile da descrivere. Le differenti frontiere, lingue, monete e abitudini di volta in volta mi regalano enormi emozioni ed io ne resto ogni volta esterrefatto.

In un’atmosfera fatta di preistoria mista a recente attività bellica, la valle delle giare conduce gli animi a rifugiarsi dietro la sua bellezza ed a rintanarsi nella suggestiva meraviglia delle sue pianure.

La stagione secca è ormai agli sgoccioli e la vegetazione insieme alla popolazione sembra sopportare a stento tanta mancanza d’acqua. Il Laos con le sue palafitte di legno, i bambini giocosi e sorridenti e le strade raramente asfaltate si presenta caldo nel clima ma anche nell’anima. La fierezza e gentilezza della gente, che sembra appena in questi anni uscir fuori dalle pene che hanno messo il loro paese nel primato tra quelli più bombardati del pianeta, accoglie i visitatori con un gesto delicato di benvenuto rendendo la visita ad ogni viaggiatore piacevole ed indimenticabile. I segreti da scoprire risalendo dalla capitale Vientiane passando per Vang Vieng e Luang Prabang sono infiniti, ma uno dei più antichi, unici e misteriosi è quello che si trova qui, a mille metri di altitudine e a soli quindici chilometri dal centro di Phonsavan: la piana delle giare.

Arrampicandosi su un sentiero marcato da piastrelle che ne indicano la sicurezza, data dalla mancanza di mine, si arriva in cima ad una collina ricoperta di erba secchissima. Il panorama che si apre di fronte all’osservatore è quasi surreale.

Vastissime valli circondano l’orizzonte giallastro e arido, facendo da sfondo ad uno spettacolo di strani vasi enormi di pietra che spuntano quasi intatti dal terreno, appoggiati spesso l’uno all’altro.

Delle grandi fosse dapprima danno l’impressione di esser state scavate dall’uomo per ricavarne la terra, ma poi, notandole tutte in fila ad intervalli regolari, si capisce che sono crateri creati dalle bombe dei B-52 che hanno così pesantemente bombardato quest’area nel corso della guerra americana contro il Vietnam.

Dei cartelli, infilati al centro di questi buchi, confermano. Il mistero delle giare dunque viene avvolto da una macabra atmosfera fatta di reperti, bombe, mine e guerra.

Una delle teorie ora più avanzata è quella che questi vasi giganteschi alti fino a tre metri, risalenti a circa duemila anni fa, funzionassero da sarcofagi.

A reggere quest’ idea che prevale sulle altre, che li sostengono contenitori per la fermentazione del vino o per la conservazione del riso, sono dei resti di ossa umane trovati all’ interno di alcuni vasi durante il corso delle ricerche che avvennero da parte dell’ illustre archeologa francese Madeleine Colani negli anni ‘30.

In parte distrutte dal tempo, in parte dalle bombe, il segreto di queste giare sta diventando sempre più misterioso.

Un progetto iniziato nel 1998 da una collaborazione tra UNESCO ed il governo laotiano, si trova nel pieno dell’attuazione della seconda fase delle tre prefissate.

La prima fu quella di creare una mappa satellitare (G.I.S.) dell’intera zona archeologica con lo scopo di segnalare tutti questi UXO (unexploaded ordines, ordigni inesplosi) presenti nell’area ed allo stesso tempo permettere la realizzazione della fase due, cioè di creare un inventario di tutti i reperti archeologici.
La terza fase, quella più delicata e decisiva sarà quella della completa rimozione degli UXO. La speranza a seguire è quella di far diventare questa valle un’area turistica sicura ed accogliente, con l’importante e primario compito per lo sviluppo economico di questo paese stravolto da una povertà estrema.

In una calda e rilassata atmosfera la piana delle giare nel suo vasto e silenzioso spazio trasmette la sensazione di essere popolata da innumerevoli spiriti: quelli antichi morti in pace e sepolti con rito nelle giare e quelli moderni trucidati dalle bombe pioventi dal cielo.

Basta sapere che non lontano da qui un siluro americano centrò una caverna dove si nascondevano quattrocento persone che bruciarono vive e quella sensazione diventa ancor più viva dando spesso l’impressione di udire ancora nel vento le urla di tanta innocenza.

L’immaginazione di chiunque, in queste aride pianure, può avere infiniti spunti e persino dare
un suo contributo al grande mistero che avvolge questi vasi giganti provando ad azzardare qualche risposta alle moltissime domande ancora irrisolte: chi li ha costruiti? Quando precisamente? Come li hanno trasportati? E soprattutto, per quale scopo?

Alla stazione degli autobus di Vientiane un orologio fermo da chissà quanto, fisso su un palo alla mia destra, segna le sei e dieci. In realtà sono le tre e venti del pomeriggio. Le panche scomode di legno fanno d’appoggio per me e per i tanti laotiani che pazienti e sudati attendono l’ora della loro partenza. La mia è tra quaranta minuti, alle quattro.

Il gran caldo dettato da un’atmosfera priva di vento si appiccica sul corpo umidiccio rendendolo un paradiso per mosche e zanzare.

Direzione Udonthani, per poi cambiare e alle sette di stasera prendere un autobus per Chang Mai. Quel viaggio durerà almeno nove ore.

La Dengue ha condizionato l’intera durata della mia visita in Laos e alla fine mi sta costringendo a tornare nella moderna Tailandia per fare i vari controlli del sangue necessari.

È buffo come le sensazioni febbricitanti di morte, inflitte da questo virus della zanzara tigre, ora mi appaiano come semplice ricordo.

Rimembro di aver invocato Dio diverse volte, chiedendogli aiuto. È poi bastato andare all’ospedale (una baracca sporca e putrida), spendere otto dollari e ingerire delle anonime pillole verdi, tre volte al giorno per tre giorni, per far cessare quelle sensazioni orribili.

E perché migliaia di persone, specie vecchi e bambini, ogni anno muoiono di Dengue nei paesi del Terzo Mondo? Perché quelle migliaia di persone, otto dollari da spendere all’ospedale, proprio non li hanno.

Dei bambini continuano ad abbordarmi. Chi cerca di vendere gomme da masticare, chi sacchetti di plastica pieni di un liquido con ghiaccio, evidentemente da bere, color piscio.

Delle donne, nella fila di panchine di fronte a me, si stanno truccando, chissà per chi.

Un ragazzo dietro di me mi fissa ormai da più di un’ora.

Trovo divertente come qui in Asia le persone si incantino ad osservare senza interruzione e per tempi lunghissimi chi da loro è diverso. Questo ragazzo non ha la minima idea dell’imbarazzo che crea in colui che viene fissato. Lui è semplicemente curioso e nessuno, da piccolo, gli ha mai insegnato che fissare non sta bene.

Il caldo è insopportabile. La stagione secca è agli sgoccioli. Il Mekong quasi scomparso. Tutto è arido e secco. La vegetazione morta e la popolazione spossata. Il cielo è perennemente, da Vientiane a Luang Prabang, coperto da una nube bianca, secca e sabbiosa. Un misto di fumo dato dagli incendi e di polvere alzata dalle auto.

Vientiane, la capitale del Laos, è poco più grande di un tipico villaggio indocinese, carina, con molti templi, ma senza particolari attrattive e divertimenti.

Vang Vieng è invece un paesino costruito per i turisti “zaino in spalla”. Sorge per cinquecento metri lungo la strada che collega la capitale con Luang Prabang.

Qui i viaggiatori vengono condotti ad intraprendere le attività appositamente prefissate per loro. La principale è la droga. Marijuana, oppio e funghi allucinogeni sono esposti sui menù “speciali” di tutti i ristoranti sotto la voce “happy” e vengono offerti sottoforma di tè, frullato, ingrediente sulla pizza o allo stato naturale. Per poi svagare la mente “in viaggio” gli stessi ristoranti trasmettono senza sosta, ventiquattro ore al giorno, su grandi schermi piazzati qua e là, telefilm e cartoni animati americani.

La birra Lao, fierezza nazionale, scorre a fiumi lungo le gole dei turisti, ogni giorno vengono stappate innumerevoli bottiglioni e chiunque ne beve sembra obbligato a decantarne la bontà urlando a squarcia gola “beer Lao, beer Lao!”

Le altre attrattive sono il tubeing, il kayaking e la visita alle svariate grotte rocciose scavate nei monti circostanti. La prima di queste sarebbe quasi pacifica e illuminante se non fosse per i numerosi bar rumorosi, emittenti di musica ad alto volume e fuori luogo, che s’incontrano lungo la via.

La parola tubeing significa letteralmente andare su un tubo, in questo caso su una camera d’aria. E così è. Si scorre trascinati dalla corrente lungo un fiumiciattolo, affluente del Mekong, con il sedere incastrato nel pneumatico gigante di un camion. Ormai esperti nelle tendenze dei turisti, i laotiani stanno costruendo sulle due sponde del fiume dei veri e propri bar di legno che offrono birra Lao, Lao Lao Whiskey ed altri super alcolici insieme a musica ed altalene da cui gli stranieri ubriachi mostrano tutto il loro coraggio lanciandosi giù nell’acqua urlando a squarciagola.

Il 27 Marzo sono tornato in Italia con un last minute della Singapore Airlines. Il 25 è morta mia Nonna, il 26 il mio Grande Amico Marco Sonnino. Il dolore fu ed è ancora immenso. Ho passato in Italia più di un mese ormai.

Il 4 Maggio però salirò su quello stesso volo della Qatar Airways verso Bangkok che ho già preso mesi fa. L’indomani ho un volo per Rangoon, in Birmania. Ormai il caso è mio. I tragici eventi che occorrono quotidianamente in questo paese e fin troppo trascurati dai nostri media, sono troppo forti per essere ignorati. E le persone, soprattutto quelle che intendono andar lì a farsi la vacanzetta, dovrebbero conoscerli.


 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.