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N. 23 - Novembre 2009
(LIV)
ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE VII - EMERGENCY IN CAMBOGIA
di Gianrigo Marletta
“La
guerra
é
una
cosa
triste,
ma
ancora
più
triste
é
che
ci
si
fa
l’abitudine”
scrisse
una
volta
Tiziano
Terzani,
lo
stesso
Terzani
che
pochi
anni
dopo
ci
raccontò
la
triste
e
macabra
storia,
che
lui
stesso
visse
in
prima
persona,
della
Cambogia.
Oggi,
in
questo
paese,
la
guerra,
quella
cosa
orribile
che
uccide,
ammazza
e
distrugge,
fortunatamente
da
ormai
quasi
un
decennio
non
si
mostra
più
nella
sua
forma
cruenta
e
bellica,
ma
si
legge
ancora
negli
sguardi
delle
persone
e
sopratutto
si
ricorda
ad
ogni
esplosione
di
una
delle
sei
milioni
di
mine
rimaste
ancora
integre
e
sotterrate
ad
attendere,
pazienti,
che
qualcuno
le
calpesti
o
che
le
raccolga.
E se
ci
sono
persone
che
combattono
le
guerre
ci
sono
anche
quelle
che
combattono
contro
le
guerre,
persone
che
quell’abitudine
non
l’hanno
mai
fatta
e
che,
usando
le
loro
stesse
parole,
hanno
scelto
di
non
solo
commuoversi
ma,
soprattutto,
di
muoversi.
Pedalando
con
la
mia
bicicletta
in
direzione
nord
lungo
la
sterrata
e
caotica
strada
statale
numero
5,
che
dal
centro
di
Batambang
porta
alle
periferie,
sulla
sinistra,
in
mezzo
all’accampamento
disordinato
di
baracche
e
palafitte,
come
un’oasi
bianca
e
pulita,
appare
il
Centro
Chirurgico
Ilaria
Alpi,
l’ospedale
della
associazione
medici
volontari
di
Emergency.
Al
cancello
c’é
un
grande
cartello
col
simbolo
di
un
mitra
barrato
e la
scritta
“NoWeapons”,
no
alle
armi.
Il
benvenuto
mi
viene
dato
da
una
gentilissima
infermiera
italiana
e
dallo
staff
di
sicurezza,
due
giovani
uomini
khmer
con
la
divisa
da
guardia
giurata
che,
sorridendo,
perquisiscono
chiunque
entri
ed
esca
(
per
evitare,
mi
viene
poi
spiegato,
che
vengano
introdotte
armi
o
altri
materiali
pericolosi
e
che
vengano
rubati
ed
esportati
beni
dell’ospedale).
Mi
viene
chiesto
di
attendere
alcuni
minuti
perché
la
persona
che
mi
avrebbe
fatto
da
“guida”
era
ancora
impegnata.
Attendo
dunque
in
una
stanza,
quella
del
caffè;
a
tenermi
compagnia
due
simpaticissimi
medici
italiani
lì
in
missione
da
alcuni
mesi.
Barbuti
e
spiritosi
non
hanno
affatto
l’aria
di
chi
si
sente
superiore
o
migliore,
bensì
presentano
quella
semplicità
ed
umiltà
che
solo
un
uomo
che
ha
dedicato
la
propria
vita
al
prossimo
sa
mostrare.
Tra
le
righe
capisco
che
questa
“missione”,
come
la
chiamano
qui
e
che
dura
al
massimo
sei
mesi,
é
per
loro
quasi
come
una
villeggiatura.
Ormai,
mi
dicono,
questo
centro
non
é
più
un
ospedale
di
guerra,
bensì
uno
che
svolge
un
lavoro
di
“routine”.
Mi
accorgo
infatti
dell’atmosfera
rilassata,
regna
il
buon
umore
e la
tranquillità.
Quella
parola
routine
però
varrebbe
solo
in
un
paese
come
l’Italia,
ma
qui
in
Cambogia,
il
lavoro
svolto
da
Emergency
é
estremamente
speciale.
In
un
paese
dove
la
corruzione
decide
ancora
le
sorti
delle
persone,
in
cui
ai
pazienti
viene
spesso
nascosta
l’esistenza
di
un
centro
di
cura
completamente
gratuito
come
lo é
l’ospedale
Ilaria
Alpi,
per
far
andar
loro
nelle
cliniche
private
a
pagamento
spesso
mal
fornite
e
con
personale
incapace,
lo
sforzo
volontario
di
questi
medici
ed
infermieri
é
egualmente
utile
e di
primaria
importanza
a
quello
di
chi
offre
le
proprie
cure
in
guerra.
In
seguito
nella
giornata
apprendo
la
storia
di
una
signora,
una
loro
paziente
dimessa
pochi
giorni
fa,
che
per
un
piccolo
intervento
chirurgico
dovette
vendere
la
sua
casa,
il
suo
pezzo
di
risaia
ed
il
suo
unico
bue.
Nessuno
le
aveva
detto
che
a
pochi
chilometri
da
casa
sua,
da
dieci
anni,
c’era
un
ospedale
in
cui
quel
piccolo
intervento
glielo
avrebbero
fatto
del
tutto
gratuitamente.
Lo
scoprì
troppo
tardi,
quando
la
clinica
per
cui
aveva
sacrificato
ogni
suo
avere
la
lasciò
in
mezzo
alla
strada,
senza
neppure
averla
curata
del
tutto.
La
mia
chiacchierata
con
i
due
medici
simpatici
viene
interrotta
e mi
viene
“assegnata”
una
infermiera
finlandese,
una
donna
delicata
e
gentile,
come
guida.
Merja
Heito,
la
donna
che
avrebbe
risposto
a
tutte
le
mie
domande,
conobbe
il
fondatore
di
Emergency
nel
1992
quando
entrambi
lavoravano
per
la
Croce
Rossa
Internazionale.
“Fu
allora
che
Gino
Strada
mi
espresse
il
desiderio
di
voler
creare
un’organizzazione
tutta
sua,
e
quando
nel
‘94
chiamò
alcuni
di
noi
dei
suoi
vecchi
colleghi,
in
massa
lasciammo
la
Croce
Rossa
per
entrare
in
Emergency”.
Iniziò
così
ad
operare
come
infermiera
volontaria
in
Kurdistan
nel
1995.
Mi
parla
del
Dott.
Strada
come
un
uomo
unico,
attento,
generoso
e
poi
lo
definisce
“uno
dei
migliori
chirurgi
del
mondo,
in
grado
di
operare
qualsiasi
cosa”
e
concorda
con
me
quando
lo
inserisco
anche
tra
i
più
grandi
autori.
Ha
scritto
diversi
libri,
di
cui
tra
i
più
toccanti
ricordo
Pappagalli
Verdi.
Iniziammo
poi
con
i
dati
e i
numeri,
entrambi
grazie
al
cielo
sempre
più
incoraggianti
e
tendenti
a
diminuire,
riguardanti
le
vittime
da
mine.
I
mutilati
si
sono
ridotti
dagli
875
del
2005
ai
440
dell’anno
scorso,
gran
parte
dei
quali
incidentati
nella
provincia
di
Batambang.
La
media
di
questi
tempi
va
da
due
a
quattro
malcapitati
alla
settimana,
uno
ogni
due
giorni.
Nelle
scuole
ora
viene
insegnato
a
riconoscere
oggetti
esplosivi
ed a
non
raccoglierli;
anche
se
spesso
i
bambini,
presi
dalla
foga
del
gioco,
si
dimenticano.
Le
mine
sotto
terra
sono
le
peggiori
perché,
mi
spiegava
uno
dei
due
medici
italiani,
oltre
all’ovvio
danno
agli
arti
inferiori,
la
terra
polverosa
che
con
l’esplosione
viene
sparata
verso
l’alto,
quasi
sempre
acceca.
Questa
spiegazione
mi
ricorda
un
passo
del
libro
del
dott.
Gino
Strada
in
cui
ammette
- “
I
bambini
che
hanno
perso
le
gambe,
grazie
alle
protesi,
prima
o
poi
ci
fanno
l’abitudine,
quelli
che
invece
hanno
perso
gli
occhi
e
che
si
svegliano
nel
buio,
no!”.
Le
mine,
oggi
come
lo
saranno
per
sempre
in
questo
paese,
sono
impossibili
da
togliere.
Sei
milioni
é un
numero
che
fa
paura
a
chiunque
e la
cosa
ancor
più
spaventosa
é
che
della
locazione
di
questi
esplosivi,
nessuno,
come
di
solito
si
fa,
ne
ha
tracciato
una
mappa.
La
stagione
delle
piogge,
cioè
quando
i
contadini
tornano
nei
campi
a
seminare,
é
quella
in
cui
la
media
si
alza
vertiginosamente.
I
contadini
infatti,
insieme
a
cani
e
bufali,
sono
le
vittime
preferite
di
questi
mostruosi
e
disumani
marchingegni.
“Verso
quali
altre
patologie,
dunque,
é
rivolto
il
vostro
impegno?”
chiedo.
Traumi,
morsi
di
serpente,
ustioni
e
chiaramente
casi
chirurgici
acuti.
I
traumi
più
comuni,
come
chiunque
non
venga
qui
in
elicottero
ma
semplicemente
percorrendo
una
di
queste
strade
potrà
immaginare,
sono
quelli
da
incidente
stradale,
ancor
più
precisamente
da
caduta
da
motorino.
Se
nel
nostro
paese
si
scontrassero
due
motorini,
con
le
nuove
leggi
in
vigore,
ormai
non
potrebbero
che
esserci
al
massimo
due
feriti.
In
Cambogia
invece
il
numero
salirebbe
facilmente
ad
otto,
dato
che
ogni
motociclo
qui
trasporta,
quasi
di
norma,
quattro
persone.
Con
grande
sorpresa
apprendo
di
uno
strano
e
caratteristico
modo
per
procurarsi
traumi
l’uno
all’atro:
lotte
con
spade
da
samurai
e
ferite
da
frecce
lanciate
con
l’arco.
Seppure
il
nuovo
millennio
sia
iniziato
da
ben
sette
anni,
il
popolo
Khmer
sembra
spesso
rimediare
a
questi
antichi
metodi
medievali
per
risolvere
i
problemi
domestici.
In
questi
casi
gli
interventi
vengono
complicati
dalla
mancanza
di
placche
metalliche
con
cui
sostituire
la
parte
di
cranio
mozzata
via
e
dai
tentativi
di
cura
fai
da
te
che
prima
di
andare
all’ospedale
(sempre
perché
visto
come
un
posto
costoso
ed
impraticabile),
vengono
azzardati
in
casa.
L’impegno
e lo
sforzo
con
cui
Emergency
ora
si
sta
confrontando
é
anche,
anzi
direi
soprattutto,
quello
di
formare
nuovi
medici.
Pol
Pot
tra
il
‘75
ed
il
‘79
eliminò
dalla
faccia
del
paese,
insieme
alle
altre
classi
intellettuali-pensanti
della
società
Khmer,
quella
medica,
uccidendo
dottori
ed
infermieri
uno
ad
uno,
dopo
averli
torturati
per
avere
i
nomi
dei
colleghi.
Ne
sopravvissero
quattordici,
in
una
società
che
prima
contava
sei
milioni
di
persone,
ridotte
in
quei
quattro
sanguinosi
anni,
a
tre
milioni.
Vi é
un
costante
training
di
medici:
al
momento
ci
sono
8
studentesse
infermiere,
mentre
dal
luglio
prossimo
sono
attesi
19
apprendisti
fisioterapisti,
di
cui
Emergency
si
accolla
le
spese
di
trasporto,
vitto,
alloggio
e
chiaramente
quelle
per
gli
studi.
Alla
mia
curiosità
di
sapere
se
erano
bravi
studenti
é
pervenuta
una
risposta
positiva,
“ il
problema
però
é
quello
della
loro
abitudine
a
non
studiar
sui
libri
ma
di
imparare
tutto
con
la
pratica”.
Ogni
soldo
arriva
dalla
sede
centrale
di
Milano
e
gestito
con
meticolosa
attenzione
dal
personale
internazionale
continuamente
impegnato
nel
limare
le
spese
superflue.
Al
mio
arrivo
la
mia
infermiera
“guida”
stava
nel
mezzo
di
una
trattativa
con
un
tecnico
per
cercar
di
ridurre
i
costi
di
internet:
si
era
studiata
tutti
gli
orari
in
cui
la
rete
veniva
più
utilizzata
e da
lì
ne
cercava
un
piano
tariffario
più
consono
e
meno
costoso.
Gran
parte
delle
uscite,
mi
spiega
Merja,
sono
investite
per
il
mantenimento
indispensabile
degli
standard
elevati
di
igiene,
di
cure
e di
alimentazione;
questi
hanno
dei
costi
impegnativi
e le
spese
superflue
bisogna
costantemente
ritagliarle
dal
contesto
ed
eliminarle.
Lo
staff
é
composto
da
sei
membri
internazionali
di
cui
quattro
italiani
(che
però
variano
ogni
sei
mesi
circa)
e da
180
operatori
locali
tra
cui
medici,
infermieri,
insegnanti
e
addetti
in
altri
settori.
Ognuno
di
quest’ultimi
abita
nella
propria
casa
e,
dipendendo
dal
turno
in
cui
prestano
servizio,
gli
viene
offerto
un
pasto
giornaliero
nella
mensa
appositamente
creata
per
loro.
Mi
parla
di
altre
organizzazioni
che
spesso
utilizzano
l’80%
dei
fondi
in
spese
amministrative
e
che
molte
volte
queste
includono
nuove
auto
private,
computer
d’ultima
generazione
e,
ahimè,
stipendi
elevatissimi.
Il
caso
di
alcune
biciclette
recentemente
donate
all’ospedale
Ilaria
Alpi
qui
in
Cambogia
(dove
costano
20
dollari
l’una)
e
che
verranno
ora
spedite
alla
sede
in
Sierra
Leone
(dove
costano
da
100
a
150
dollari
l’una)
per
permettere
allo
staff
locale
di
raggiungere
il
proprio
posto
di
lavoro
più
agilmente,
è
uno
dei
tanti
esempi
di
come
vengono
gestiti
e
ridotti
i
costi
all’interno
dell’organizzazione.
La
mia
infermiera
“guida”
si
ritrova
spesso
a
raccontarmi
dei
tempi
in
Iraq,
Afganistan
e
Sierra
Leone,
teatri
delle
sue
missioni
passate
e
luoghi
in
cui
patologie
e
problemi,
spesso
molto
più
gravi,
vengono
complicati
da
circostanze
ben
più
estreme.
La
corrente
elettrica,
l’acqua,
la
mobilità
ed
altri
beni
primari,
che
ormai
qui
in
Cambogia
sono
onnipresenti,
in
quei
paesi
dove
la
guerra
é
ancora
attiva,
vengono
molto
spesso
a
mancare.
L’ingegno
é
un’arma
che
ogni
operatore
volontario
deve
tenere
sempre
con
sé.
Mi
raccontò
di
una
volta
in
Iraq
quando,
insieme
al
Dott.
Gino
Strada,
dovettero
ricorrere
alle
lampadine
dei
fari
dei
pullmini
Volkswagen,
trovate
per
pura
fortuna,
da
sostituire
a
quelle
fulminate
delle
grandi
lampade
da
sala
operatoria
“rubate”
in
un
ospedale
abbandonato.
Facciamo
una
lunga
passeggiata
lungo
le
bellissime
passerelle
esterne,
costeggiate
da
un
fitto
prato
verdissimo
da
cui
spuntano,
alti
e
belli,
diversi
tipi
di
alberelli
tropicali,
incanalandoci
poi
nei
corridoi
interni,
dall’aspetto
tipico
di
qualsiasi
ospedale
europeo.
Passiamo
davanti
ad
una
piccola
aula
dove
vengono
impartite
lezioni
scolastiche
ai
bambini
ricoverati
e me
ne
viene
indicata
un’altra
per
i
pazienti
adulti
in
cui
viene
insegnato
l’inglese.
Per
coloro
che
invece
non
possono
alzarsi
dal
letto,
ci
sono
insegnanti
che
impartiscono
“lezioni”
di
gioco
e di
disegno
”a
domicilio
“ o
meglio
“a
letto”.
Mi
viene
da
ribadire
ancora
sulla
bellezza
estetica,
sulla
pulizia
e
sull’aria
da
oasi
felice
con
cui
il
centro
si
presenta.
“É
un
aspetto
a
cui
il
dott.
Strada
tiene
molto”.
Come
molti
medici
di
terapie
orientali
anche
il
fondatore
di
Emergency
sostiene
che
un
ambiente
caldo
e
accogliente
aiuti
i
pazienti
psicologicamente;
nello
specifico
di
questo
ospedale
perché,
per
ragioni
di
igiene
i
parenti,
a
parte
i
casi
di
ciechi,
paralizzati
e
bambini,
non
sono
ammessi.
Mi
parla
di
Kabul
e di
come
lì
ci
sono
addirittura
dei
roseti.
Appaiono
bambini,
dolci
e
sorridenti,
spesso
abbracciati
alle
mamme
che,
tutte,
portano
stampate
sul
viso
un’espressione
involontaria
di
gratitudine.
Addirittura
un
ragazzo
con
evidenti
ustioni
alle
gambe
e in
sedia
a
rotelle,
che
era
stato
dimesso
da
sabato
scorso
(oggi
é
martedì),
con
gran
sorpresa
di
Merja,
era
ancora
li.
“Qui
si
mangia
troppo
bene,
vi
prego
fatemi
stare
un
altro
po’
“ –
ripeteva.
Nella
sala
da
pronto
soccorso,
perfettamente
allineata
con
un
viottolo
che
conduce
al
cancello
d’entrata
per
le
ambulanze,
trovo
tre
pazienti
e
quattro
medici
(Khmer).
Il
sangue
donato
viene
tenuto,
dopo
aver
subito
gli
stessi
controlli
che
subirebbe
in
qualsiasi
paese
sviluppato,
in
uno
stanzone
adiacente,
sterile
e
ben
controllato.
Entrati
nella
farmacia
si
aprono
file
lunghissime
di
scaffali
contenenti
scatole
di
medicinali
di
ogni
genere.
Qui
apprendo
un’altra
macabra
notizia,
una
di
quelle
che
fa
sorgere
spontanea
la
domanda
“perché?”.
Emergency,
come
le
tante
altre
istituzioni
mediche
impegnate
a
curare
nei
paesi
del
Terzo
Mondo,
deve
affrontare
un
ennesimo
“contrattempo”:
quello
di
imbattersi
in
venditori
di
medicinali
falsi!
Vi
sono
persone
in
questo
mondo
che
fabbricano
pillole
in
cui,
al
posto
del
principio
attivo,
mettono
lo
zucchero
e
spacciano
così,
in
confezioni
identiche
a
quelle
vere,
medicinali
falsi.
Entriamo
poi,
quasi
in
punta
di
piedi,
in
quella
che
forse
é la
sala
più
sensibile
e
toccante,
dove
le
speranze
per
la
vita
duellano
duramente
con
la
morte:
il
reparto
di
terapia
intensiva.
Con
gran
sollievo
però,
vedo
che
solo
tre
letti
su
nove
sono
occupati
e
che
tutti
e
tre
gli
occupanti
hanno
gli
occhi
aperti
e...
sorridono!
Chiudendo
la
porta
della
sala
intensiva,
questa
a
fine
corsa
scricchiola
rumorosamente.
“Ah!
Devo
dire
al
reparto
di
manutenzione
di
dargli
un’occhiata”.
Ebbene
sì,
nell’ospedale
Ilaria
Alpi,
qui
in
Cambogia,
vi é
anche
un
reparto
di
manutenzione.
Molti
tra
coloro
che
vi
offrono
servizio,
dai
cuochi
agli
addetti
alle
pulizie,
dalle
guardie
agli
specialisti
alla
manutenzione,
sono
ex
pazienti
spesso
mutilati
che
ora,
grazie
ad
Emergency,
oltre
a
trovarsi
una
protesi
che
gli
sostituisce
l’arto,
si
ritrovano
un
lavoro,
perfino
pagato
dignitosamente.
Lenzuola
e
pigiami
vengono
cuciti
“in
casa”:
procurata
la
stoffa
a
costi
bassissimi,
dei
sarti
cuciono
tutto
su
misura
a
seconda
delle
varie
necessità.
Passiamo
velocemente
tre
stanzoni.
“Queste
sono
le
sale
dove
teniamo
i
ricoverati”-
in
ognuna
vi
sono
almeno
quattro
file
di
letti,
di
cui
25
in
quella
per
le
donne
e
per
i
bambini,
45
in
quella
per
gli
uomini
e 26
nella
terza,
che
é
mista.
Una
palestra
assai
spartana,
situata
poco
più
avanti,
funge
da
reparto
di
fisioterapia.
Merja
mi
chiede
di
notare,
utilizzando
olfatto,
vista
ed
udito
che
in
ogni
angolo
dell’ospedale
non
vi
siano
odori
sgradevoli,
sporcizia
né
rumori
fastidiosi.
É
verissimo.
Mi
spiega
i
rigidi
metodi
di
pulizia
con
cui
una
volta
alla
settimana
disinfettano
ogni
singolo
centimetro
del
centro.
La
doccia
per
ogni
paziente
che,
dal
momento
che
entra,
per
ogni
giorno
di
convalescenza
fino
a
quello
che
esce,
é
obbligatoria
e lo
é
persino
per
i
parenti
che
soggiornano
qui
per
assistere
i
propri
cari.
Le
urla
di
una
ragazza
mi
vanno
dall’orecchio
dritto
allo
stomaco
-” é
appena
uscita
dalla
sala
operatoria”-
mi
tranquillizza
la
mia
infermiera
e
come
chiunque
che
si
risvegli
da
un
intervento
chirurgico
ovviamente
non
può
che
mostrare
il
dolore
provato.
Vediamo
parcheggiata
fuori
l’unica
ambulanza
che
il
centro
possiede.
Questa
opera
nel
raggio
di
20
chilometri
al
di
fuori
dei
quali
Emergency
ha
realizzato
cinque
centri
di
primo
soccorso
nel
distretto
di
Samlot,
zona
coperta
da
foreste
e
molto
minata,
dove
i
pazienti
dei
villaggi
lontani,
vengono
accolti,
stabilizzati
e
poi
trasportati
in
questo
centro,
chiamato
Madre.
La
pace
duratura
ormai
stabilitasi
in
questo
paese
e il
funzionamento
ormai
“standardizzato”
e di
“routine”
del
Centro
Chirurgico
Ilaria
Alpi
mi
fanno
pensare
che
presto
Emergency
potrà
affrontare
il
prossimo
ed
ultimo
passo
verso
la
conclusione
della
missione
che
lei
stessa
si
prefigge
in
ogni
paese:
passare
il
proprio
lavoro
nelle
mani
del
governo.
Con
un
forte
controllo
iniziale
seguito
da
una
mera
speranza,
si
cercherà
di
prevenire
questi
dall’introdurre
anche
in
questa
oasi
bianca
il
suo
sistema
spesso
basato
sulla
corruzione,
permettendo
così
a
tutto
lo
staff
di
Emergency
di
andare
avanti
a
cercare
nuovi
paesi,
nuovi
fronti
dove
operare
ed
aiutare,
senza
il
rimorso
di
aver
lasciato
in
mani
sbagliate
questo
glorioso
ospedale
quale
il
Centro
Chirurgico
Ilaria
Alpi
é .
La
notte
di
Natale
la
passai
da
solo
con
un
febbrone
da
cavallo
a
vomitare
ininterrottamente
nel
letto
della
stanza
14
del
Tribal
Hotel,
in
un
paesino
cambogiano
incastrato
tra
il
Laos
ed
il
Vietnam.
Aspettando
Babbo
Natale
(che
non
è
mai
arrivato)
ho
programmato
la
visita
che
avrei
fatto,
non
appena
ripreso,
nella
giungla
circostante.
Finalmente
la
febbre
passò
ed
io
riuscii
a
raggiungere
Andrea,
Luca
(Andrea
si è
aggiunto
in
un
secondo
momento)
e le
tre
amache,
che
nel
frattempo
si
erano
accampati
sulla
riva
di
un
lago.
Per
festeggiare
la
nascita
del
Bambinello
ci
siamo
cotti
(nei
soliti
pentolini,
su
legna
tagliata
a
colpi
di
machete)
tre
bei
piattoni
di
fettuccine
al
sugo
(con
pomodorini
freschi!).
Dormire
in
amaca
è
scomodo
all’inizio
ma
poi
ci
si
fa
l’abitudine,
meno
facile
però
è
abituarsi
alla
paura
di
grandi
gattoni
felini
affamati,
accompagnati
dai
loro
amici
orsi
e
coccodrilli
pronti
anch’essi,
nel
buio
della
notte,
a un
banchetto
di
Natale.
Una
mattina,
mentre
oziavo
cullato
nella
mia
amaca
legata
tra
due
palme,
alzando
gli
occhi
notai
in
lontananza
due
sagome
camminare
nella
mia
direzione.
Sihanoukville,
quel
giorno
come
gli
altri,
si
presentava
nella
sua
putrida
sporcizia,
invasa
dalle
più
arroganti
strutture
di
cemento
e
tutto
sembra
tranne
che
la
bella
località
di
mare
che
guide
turistiche
e
depliant
continuano
a
decantare
nonostante
il
reale
e
palese
orrore
che
questo
capoluogo
litorale
trasmette
(le
passeggiate
lungo
la
costa
sembrano
più
degli
attenti
zig
zag
per
evitare
di
calpestare
siringhe,
cadaveri
di
ratti,
buste
di
plastica,
pneumatici,
assorbenti,
pozzanghere
di
schiuma
bianca
e
agglomerati
di
gelatine
strane
e di
certo
non
naturali).
Le
sagome,
una
assai
più
bassa
dell’altra,
erano
di
due
corpi
femminili
e
per
questo
mi
fu
impossibile
distogliere
loro
gli
occhi
di
dosso
finché
non
ne
avessi
costatato
l’apparenza.
Il
mio
sguardo
“lungo”
era
giustificato
dal
fatto
che
provenivo
da
trenta
interminabili
giorni
passati
tra
foreste
e
zone
remote
della
Cambogia
in
compagnia
di
due
uomini,
tre
amache,
due
pentolini,
un
machete,
una
mappa
e
dell’apparenza
di
una
donna
(bella
o
brutta)
neanche
l’ombra.
Fu
per
questo
che
decidemmo
di
recarci
proprio
a
Sihanoukville
per
passare
il
capodanno.
Festeggiare
l’arrivo
del
nuovo
anno
in
una
zona
altamente
turistica
(seppur
orrenda)
era
una
buona
occasione
per
fare
incontri
piacevoli
e
magari
scambiare
qualche
differenza
culturale
con
qualche
turista
vogliosa
di
fare
lo
stesso.
Mai
avrei
immaginato
che
una
delle
due
sagome,
presto
rivelatasi
dall’aspetto
irresistibile,
sarebbe
stata
colei
che
ancora
oggi
chiamo:
la
mia
fidanzata.
Quella
bassa
la
scrutai
appena.
Dall’altra
invece
non
riuscii
a
distogliere
lo
sguardo.
Man
mano
che
si
avvicinava,
il
suo
viso
appariva
sempre
più
incantevole
ed
esotico,
i
due
seni
crescevano
a
dismisura
e il
corpo
mulatto
acquisiva
forme
sempre
più
perfette.
Di
placare
il
cuore
che
ormai
era
impazzito
battendomi
a
ritmi
da
portare
all’infarto,
non
se
ne
parlava.
Da
cento,
la
loro
distanza
si
era
drammaticamente
ridotta
a
pochi
metri
e
ora
stavano
per
passarmi
accanto.
Nessuna
delle
due
aveva
notato
quel
fagottino
arrotolato
nell’amaca
ed
io
dovevo
assolutamente
trovare
un
modo
per
farmi
notare.
Allungai
la
mano
e
dallo
zaino
estrassi
la
macchina
fotografica,
l’unico
“lampo
di
genio”
che
il
mio
cervello
in
quel
momento
riuscì
a
produrre.
“Click”.
Partì
anche
il
flash.
“Oh,
ma
che
quello
ti
ha
fatto
una
foto?”-
sento
dire
dall’amica
bassa,
in
un
americano
inconfondibile.
Entrambe
mulatte
dai
lineamenti
orientali
a
tutto
avrei
pensato
che
a
due
americane.
Lei
si
voltò,
mi
scrutò
e
continuò
a
camminare,
schizzando
l’acqua
con
i
piedi
nudi
lungo
il
bagnasciuga.
Il
bikini
nero
sembrava
inventato
apposta
per
lei
e,
neanche
per
un
secondo,
mi
fece
inveire
(come
di
solito
faccio)
contro
quelle
ragazze
che
non
rispettano
i
costumi
dei
paesi
che
visitano,
denudandosi
incoscientemente,
ignoranti
dei
grandi
tumulti
che
provocano
all’interno
della
popolazione
locale.
Quel
bikini
le
stava
troppo
bene
ed
io a
questo
punto
volevo
piena
autorizzazione
per
tirarne
i
lacci
che
lo
legavano
al
corpo.
L’idea
della
foto
non
fece
scalpore
e
ora
mi
trovavo
in
mano,
oltre
che
a un
pugno
di
mosche,
uno
scatto
mosso
della
sua
schiena
che
neanche
mi
sarebbe
servito
come
foto
ricordo.
Continuai
a
seguirla
con
gli
occhi
spingendola
sottovoce,
quasi
nel
tentativo
di
convincerla,
di
voltare
a
destra
verso
i
cancelli
della
guest
house
dove
risiedevamo
io,
Andrea
e
Luca.
“Destra,
destra,
gira,
gira!”-”Si,
si,
brava,
si!”
Il
cuore
quasi
non
sosteneva
più
le
palpitazioni
frenetiche
e
violente.
Convintomi
che
il
destino
l’aveva
portata
a
stare
nel
mio
stesso
ostello
ora
stava
a me
fare
qualcosa.
Purtroppo
non
sono
mai
stato
un
bravo
abbordatore
e in
quei
momenti
non
so
mai
cosa
fare
né
soprattutto
cosa
dire.
In
pochi
istanti
il
mio
mondo
era
stato
del
tutto
scombussolato:
da
che
ero
rilassato
a
dondolare
nel
mio
letto
penzolante,
ora
non
riuscivo
più
a
pensare
coerentemente.
Cercai
di
mantenere
la
calma
e di
programmare
un
attento
piano
d’attacco.
Feci
così
passare
del
tempo
che
però
non
mi
portò
utili
consigli.
Smontai
l’amaca
e mi
recai,
con
la
scusa
di
avere
fame,
al
ristorante
della
guest
house;
cercando
mentre
mi
avvicinavo,
spiando
dietro
ogni
finestra
delle
numerosissime
stanze,
la
mia
dea
della
spiaggia.
Nulla
da
fare,
una
delle
decine
di
porte
di
legno
che
danno
sul
porticato
esterno
dell’ostello
mi
stava
dividendo
da
lei.
Ordinai
un
panino
col
tonno,
una
spremuta
di
frutta
mista
e mi
misi
a
chiacchierare
col
cameriere.
La
sua
storia
tristissima
mi
coinvolse
subito
e
per
degli
istanti
mi
distrasse
da
lei.
Orfano
di
due
genitori,
massacrati
poco
dopo
la
sua
nascita
dai
Khmer
Rossi,
egli
fu
cresciuto
dai
nonni.
Troppo
poveri
per
pagargli
gli
studi
lo
mandarono
a
lavorare
proprio
lì a
Sihanoukville.
Trovò
occupazione
in
quel
ristorante
dove,
da
due
anni,
lavora
tutto
il
giorno,
tutti
i
giorni,
guadagnando
uno
stipendio
di
appena
trenta
dollari
al
mese.
Cominciai
a
fargli
domande,
la
sua
storia
mi
aveva
coinvolto
emotivamente
e
quello
stesso
cuore
che
prima
impazziva
elettrizzato
dagli
ormoni
ora
batteva
a
ritmi
decisamente
più
lenti.
E
come
per
confermare
quella
regola
famosa:
che
quando
si
pensa
troppo
ad
una
cosa
questa
tarda
a
venire,
presentandosi
solo
quando
si
smette
di
pensarci,
le
due
teste
more
spuntarono
dai
gradini
di
legno
che
dalla
strada
conducevano
al
ristorante.
Anche
loro
avevano
fame!
Cosa
fare?
Il
cameriere
continuava
con
i
suoi
tristi
racconti
ed
io
non
potevo
cambiare
espressione
né
permettermi
di
interrompere
l’ascolto.
A
pochi
passi
da
me
però
si
avvicinava
colei
che
rese
quel
giorno
uno
dei
giorni
più
indimenticabili
della
mia
vita!
Grazie
al
cielo
si
sedettero
al
tavolo
accanto
al
mio
e
grazie
alla
sua
amica
s’intromisero
nel
discorso
tra
me e
il
cameriere.
Il
canale
fu
stabilito.
Maleducatamente
persi
presto
l’attenzione
verso
il
ragazzo
cambogiano
e
diedi
più
peso
alle
due
ragazze,
non
accorgendomi
neanche
che,
ad
un
tratto,
il
cameriere
era
addirittura
sparito.
Non
ricorderò
mai
ciò
di
cui
parlammo
quel
giorno
seduti
a
quei
tavoli.
L’emozione
mi
offuscò
completamente
la
memoria.
So
solo
che
ci
presentammo,
che
la
bassina
si
chiamava
Lyndsay
e
che
lei,
la
bellissima
dea
della
spiaggia,
si
chiamava
Jennifer.
Entrambe,
un
particolare
difficile
da
sottovalutare,
venivano
dalle
Hawaii.
Ricordo
anche
di
aver
avuto
un
altro
lampo
di
genio,
molto
più
efficace
del
primo:
“Would
you
like
some
Carbonara
pasta
on
the
beach
tonight?”
domandai
sicuro
dell’invito
irresistibile.
“Sure!”
L’idea
della
Carbonara
sulla
spiaggia
le
allettò.
Ormai
eravamo
esperti
in
cucina
all’aperto
e
quando
chiesi
soccorso
ai
miei
due
compagni,
loro
mi
aiutarono
fino
in
fondo
in
quel
mio
tentativo
di
prendere
Jennifer,
letteralmente
per
la
gola.
Quella
sera
scavammo
una
buca
nella
sabbia
dove
infilammo
dei
ramoscelli
secchi
che
demmo
alle
fiamme.
Mischiammo
poi
le
uova
con
le
fettuccine
e la
pancetta
in
uno
dei
due
pentolini
famosi.
L’atmosfera
quella
sera
ci
avvolse
nel
suo
manto
stellato,
cullandoci
nel
fruscio
delle
onde
interrotto
solo
dallo
scoppiettare
del
fuoco.
La
Carbonara
non
venne
molto
buona
ma a
quel
punto
la
cosa
non
ebbe
più
peso.
Quella
fu
la
nostra
prima
notte
d’amore.
L’indomani
era
capodanno:
iniziava
un
2007
che
avrei
passato
interamente
con
lei.
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