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N. 23 - Novembre 2009 (LIV)

ASIA, BUDDHA E UN REPORTER senza lavoro
PARTE VII - EMERGENCY IN CAMBOGIA

di Gianrigo Marletta

 

“La guerra é una cosa triste, ma ancora più triste é che ci si fa l’abitudine” scrisse una volta Tiziano Terzani, lo stesso Terzani che pochi anni dopo ci raccontò la triste e macabra storia, che lui stesso visse in prima persona, della Cambogia.

Oggi, in questo paese, la guerra, quella cosa orribile che uccide, ammazza e distrugge, fortunatamente da ormai quasi un decennio non si mostra più nella sua forma cruenta e bellica, ma si legge ancora negli sguardi delle persone e sopratutto si ricorda ad ogni esplosione di una delle sei milioni di mine rimaste ancora integre e sotterrate ad attendere, pazienti, che qualcuno le calpesti o che le raccolga.

E se ci sono persone che combattono le guerre ci sono anche quelle che combattono contro le guerre, persone che quell’abitudine non l’hanno mai fatta e che, usando le loro stesse parole, hanno scelto di non solo commuoversi ma, soprattutto, di muoversi.

Pedalando con la mia bicicletta in direzione nord lungo la sterrata e caotica strada statale numero 5, che dal centro di Batambang porta alle periferie, sulla sinistra, in mezzo all’accampamento disordinato di baracche e palafitte, come un’oasi bianca e pulita, appare il Centro Chirurgico Ilaria Alpi, l’ospedale della associazione medici volontari di Emergency.

Al cancello c’é un grande cartello col simbolo di un mitra barrato e la scritta “NoWeapons”, no alle armi.

Il benvenuto mi viene dato da una gentilissima infermiera italiana e dallo staff di sicurezza, due giovani uomini khmer con la divisa da guardia giurata che, sorridendo, perquisiscono chiunque entri ed esca ( per evitare, mi viene poi spiegato, che vengano introdotte armi o altri materiali pericolosi e che vengano rubati ed esportati beni dell’ospedale).

Mi viene chiesto di attendere alcuni minuti perché la persona che mi avrebbe fatto da “guida” era ancora impegnata. Attendo dunque in una stanza, quella del caffè; a tenermi compagnia due simpaticissimi medici italiani lì in missione da alcuni mesi.

Barbuti e spiritosi non hanno affatto l’aria di chi si sente superiore o migliore, bensì presentano quella semplicità ed umiltà che solo un uomo che ha dedicato la propria vita al prossimo sa mostrare.

Tra le righe capisco che questa “missione”, come la chiamano qui e che dura al massimo sei mesi, é per loro quasi come una villeggiatura. Ormai, mi dicono, questo centro non é più un ospedale di guerra, bensì uno che svolge un lavoro di “routine”.

Mi accorgo infatti dell’atmosfera rilassata, regna il buon umore e la tranquillità. Quella parola routine però varrebbe solo in un paese come l’Italia, ma qui in Cambogia, il lavoro svolto da Emergency é estremamente speciale.

In un paese dove la corruzione decide ancora le sorti delle persone, in cui ai pazienti viene spesso nascosta l’esistenza di un centro di cura completamente gratuito come lo é l’ospedale Ilaria Alpi, per far andar loro nelle cliniche private a pagamento spesso mal fornite e con personale incapace, lo sforzo volontario di questi medici ed infermieri é egualmente utile e di primaria importanza a quello di chi offre le proprie cure in guerra.

In seguito nella giornata apprendo la storia di una signora, una loro paziente dimessa pochi giorni fa, che per un piccolo intervento chirurgico dovette vendere la sua casa, il suo pezzo di risaia ed il suo unico bue. Nessuno le aveva detto che a pochi chilometri da casa sua, da dieci anni, c’era un ospedale in cui quel piccolo intervento glielo avrebbero fatto del tutto gratuitamente. Lo scoprì troppo tardi, quando la clinica per cui aveva sacrificato ogni suo avere la lasciò in mezzo alla strada, senza neppure averla curata del tutto.

La mia chiacchierata con i due medici simpatici viene interrotta e mi viene “assegnata” una infermiera finlandese, una donna delicata e gentile, come guida.

Merja Heito, la donna che avrebbe risposto a tutte le mie domande, conobbe il fondatore di Emergency nel 1992 quando entrambi lavoravano per la Croce Rossa Internazionale. “Fu allora che Gino Strada mi espresse il desiderio di voler creare un’organizzazione tutta sua, e quando nel ‘94 chiamò alcuni di noi dei suoi vecchi colleghi, in massa lasciammo la Croce Rossa per entrare in Emergency”.

Iniziò così ad operare come infermiera volontaria in Kurdistan nel 1995. Mi parla del Dott. Strada come un uomo unico, attento, generoso e poi lo definisce “uno dei migliori chirurgi del mondo, in grado di operare qualsiasi cosa” e concorda con me quando lo inserisco anche tra i più grandi autori. Ha scritto diversi libri, di cui tra i più toccanti ricordo Pappagalli Verdi.

Iniziammo poi con i dati e i numeri, entrambi grazie al cielo sempre più incoraggianti e tendenti a diminuire, riguardanti le vittime da mine. I mutilati si sono ridotti dagli 875 del 2005 ai 440 dell’anno scorso, gran parte dei quali incidentati nella provincia di Batambang. La media di questi tempi va da due a quattro malcapitati alla settimana, uno ogni due giorni. Nelle scuole ora viene insegnato a riconoscere oggetti esplosivi ed a non raccoglierli; anche se spesso i bambini, presi dalla foga del gioco, si dimenticano.

Le mine sotto terra sono le peggiori perché, mi spiegava uno dei due medici italiani, oltre all’ovvio danno agli arti inferiori, la terra polverosa che con l’esplosione viene sparata verso l’alto, quasi sempre acceca.

Questa spiegazione mi ricorda un passo del libro del dott. Gino Strada in cui ammette - “ I bambini che hanno perso le gambe, grazie alle protesi, prima o poi ci fanno l’abitudine, quelli che invece hanno perso gli occhi e che si svegliano nel buio, no!”.

Le mine, oggi come lo saranno per sempre in questo paese, sono impossibili da togliere. Sei milioni é un numero che fa paura a chiunque e la cosa ancor più spaventosa é che della locazione di questi esplosivi, nessuno, come di solito si fa, ne ha tracciato una mappa.

La stagione delle piogge, cioè quando i contadini tornano nei campi a seminare, é quella in cui la media si alza vertiginosamente. I contadini infatti, insieme a cani e bufali, sono le vittime preferite di questi mostruosi e disumani marchingegni.

“Verso quali altre patologie, dunque, é rivolto il vostro impegno?” chiedo. Traumi, morsi di serpente, ustioni e chiaramente casi chirurgici acuti. I traumi più comuni, come chiunque non venga qui in elicottero ma semplicemente percorrendo una di queste strade potrà immaginare, sono quelli da incidente stradale, ancor più precisamente da caduta da motorino.

Se nel nostro paese si scontrassero due motorini, con le nuove leggi in vigore, ormai non potrebbero che esserci al massimo due feriti. In Cambogia invece il numero salirebbe facilmente ad otto, dato che ogni motociclo qui trasporta, quasi di norma, quattro persone.

Con grande sorpresa apprendo di uno strano e caratteristico modo per procurarsi traumi l’uno all’atro: lotte con spade da samurai e ferite da frecce lanciate con l’arco. Seppure il nuovo millennio sia iniziato da ben sette anni, il popolo Khmer sembra spesso rimediare a questi antichi metodi medievali per risolvere i problemi domestici.

In questi casi gli interventi vengono complicati dalla mancanza di placche metalliche con cui sostituire la parte di cranio mozzata via e dai tentativi di cura fai da te che prima di andare all’ospedale (sempre perché visto come un posto costoso ed impraticabile), vengono azzardati in casa.

L’impegno e lo sforzo con cui Emergency ora si sta confrontando é anche, anzi direi soprattutto, quello di formare nuovi medici. Pol Pot tra il ‘75 ed il ‘79 eliminò dalla faccia del paese, insieme alle altre classi intellettuali-pensanti della società Khmer, quella medica, uccidendo dottori ed infermieri uno ad uno, dopo averli torturati per avere i nomi dei colleghi. Ne sopravvissero quattordici, in una società che prima contava sei milioni di persone, ridotte in quei quattro sanguinosi anni, a tre milioni.

Vi é un costante training di medici: al momento ci sono 8 studentesse infermiere, mentre dal luglio prossimo sono attesi 19 apprendisti fisioterapisti, di cui Emergency si accolla le spese di trasporto, vitto, alloggio e chiaramente quelle per gli studi. Alla mia curiosità di sapere se erano bravi studenti é pervenuta una risposta positiva, “ il problema però é quello della loro abitudine a non studiar sui libri ma di imparare tutto con la pratica”.

Ogni soldo arriva dalla sede centrale di Milano e gestito con meticolosa attenzione dal personale internazionale continuamente impegnato nel limare le spese superflue.

Al mio arrivo la mia infermiera “guida” stava nel mezzo di una trattativa con un tecnico per cercar di ridurre i costi di internet: si era studiata tutti gli orari in cui la rete veniva più utilizzata e da lì ne cercava un piano tariffario più consono e meno costoso.

Gran parte delle uscite, mi spiega Merja, sono investite per il mantenimento indispensabile degli standard elevati di igiene, di cure e di alimentazione; questi hanno dei costi impegnativi e le spese superflue bisogna costantemente ritagliarle dal contesto ed eliminarle. Lo staff é composto da sei membri internazionali di cui quattro italiani (che però variano ogni sei mesi circa) e da 180 operatori locali tra cui medici, infermieri, insegnanti e addetti in altri settori. Ognuno di quest’ultimi abita nella propria casa e, dipendendo dal turno in cui prestano servizio, gli viene offerto un pasto giornaliero nella mensa appositamente creata per loro.

Mi parla di altre organizzazioni che spesso utilizzano l’80% dei fondi in spese amministrative e che molte volte queste includono nuove auto private, computer d’ultima generazione e, ahimè, stipendi elevatissimi.

Il caso di alcune biciclette recentemente donate all’ospedale Ilaria Alpi qui in Cambogia (dove costano 20 dollari l’una) e che verranno ora spedite alla sede in Sierra Leone (dove costano da 100 a 150 dollari l’una) per permettere allo staff locale di raggiungere il proprio posto di lavoro più agilmente, è uno dei tanti esempi di come vengono gestiti e ridotti i costi all’interno dell’organizzazione.

La mia infermiera “guida” si ritrova spesso a raccontarmi dei tempi in Iraq, Afganistan e Sierra Leone, teatri delle sue missioni passate e luoghi in cui patologie e problemi, spesso molto più gravi, vengono complicati da circostanze ben più estreme.

La corrente elettrica, l’acqua, la mobilità ed altri beni primari, che ormai qui in Cambogia sono onnipresenti, in quei paesi dove la guerra é ancora attiva, vengono molto spesso a mancare.

L’ingegno é un’arma che ogni operatore volontario deve tenere sempre con sé.

Mi raccontò di una volta in Iraq quando, insieme al Dott. Gino Strada, dovettero ricorrere alle lampadine dei fari dei pullmini Volkswagen, trovate per pura fortuna, da sostituire a quelle fulminate delle grandi lampade da sala operatoria “rubate” in un ospedale abbandonato.

Facciamo una lunga passeggiata lungo le bellissime passerelle esterne, costeggiate da un fitto prato verdissimo da cui spuntano, alti e belli, diversi tipi di alberelli tropicali, incanalandoci poi nei corridoi interni, dall’aspetto tipico di qualsiasi ospedale europeo.

Passiamo davanti ad una piccola aula dove vengono impartite lezioni scolastiche ai bambini ricoverati e me ne viene indicata un’altra per i pazienti adulti in cui viene insegnato l’inglese.

Per coloro che invece non possono alzarsi dal letto, ci sono insegnanti che impartiscono “lezioni” di gioco e di disegno ”a domicilio “ o meglio “a letto”.

Mi viene da ribadire ancora sulla bellezza estetica, sulla pulizia e sull’aria da oasi felice con cui il centro si presenta. “É un aspetto a cui il dott. Strada tiene molto”.

Come molti medici di terapie orientali anche il fondatore di Emergency sostiene che un ambiente caldo e accogliente aiuti i pazienti psicologicamente; nello specifico di questo ospedale perché, per ragioni di igiene i parenti, a parte i casi di ciechi, paralizzati e bambini, non sono ammessi. Mi parla di Kabul e di come lì ci sono addirittura dei roseti.

Appaiono bambini, dolci e sorridenti, spesso abbracciati alle mamme che, tutte, portano stampate sul viso un’espressione involontaria di gratitudine. Addirittura un ragazzo con evidenti ustioni alle gambe e in sedia a rotelle, che era stato dimesso da sabato scorso (oggi é martedì), con gran sorpresa di Merja, era ancora li.

“Qui si mangia troppo bene, vi prego fatemi stare un altro po’ “ – ripeteva.

Nella sala da pronto soccorso, perfettamente allineata con un viottolo che conduce al cancello d’entrata per le ambulanze, trovo tre pazienti e quattro medici (Khmer). Il sangue donato viene tenuto, dopo aver subito gli stessi controlli che subirebbe in qualsiasi paese sviluppato, in uno stanzone adiacente, sterile e ben controllato.

Entrati nella farmacia si aprono file lunghissime di scaffali contenenti scatole di medicinali di ogni genere. Qui apprendo un’altra macabra notizia, una di quelle che fa sorgere spontanea la domanda “perché?”. Emergency, come le tante altre istituzioni mediche impegnate a curare nei paesi del Terzo Mondo, deve affrontare un ennesimo “contrattempo”: quello di imbattersi in venditori di medicinali falsi!

Vi sono persone in questo mondo che fabbricano pillole in cui, al posto del principio attivo, mettono lo zucchero e spacciano così, in confezioni identiche a quelle vere, medicinali falsi.

Entriamo poi, quasi in punta di piedi, in quella che forse é la sala più sensibile e toccante, dove le speranze per la vita duellano duramente con la morte: il reparto di terapia intensiva.

Con gran sollievo però, vedo che solo tre letti su nove sono occupati e che tutti e tre gli occupanti hanno gli occhi aperti e... sorridono!

Chiudendo la porta della sala intensiva, questa a fine corsa scricchiola rumorosamente. “Ah! Devo dire al reparto di manutenzione di dargli un’occhiata”.

Ebbene sì, nell’ospedale Ilaria Alpi, qui in Cambogia, vi é anche un reparto di manutenzione.

Molti tra coloro che vi offrono servizio, dai cuochi agli addetti alle pulizie, dalle guardie agli specialisti alla manutenzione, sono ex pazienti spesso mutilati che ora, grazie ad Emergency, oltre a trovarsi una protesi che gli sostituisce l’arto, si ritrovano un lavoro, perfino pagato dignitosamente.

Lenzuola e pigiami vengono cuciti “in casa”: procurata la stoffa a costi bassissimi, dei sarti cuciono tutto su misura a seconda delle varie necessità.

Passiamo velocemente tre stanzoni. “Queste sono le sale dove teniamo i ricoverati”- in ognuna vi sono almeno quattro file di letti, di cui 25 in quella per le donne e per i bambini, 45 in quella per gli uomini e 26 nella terza, che é mista.
Una palestra assai spartana, situata poco più avanti, funge da reparto di fisioterapia.

Merja mi chiede di notare, utilizzando olfatto, vista ed udito che in ogni angolo dell’ospedale non vi siano odori sgradevoli, sporcizia né rumori fastidiosi. É verissimo.

Mi spiega i rigidi metodi di pulizia con cui una volta alla settimana disinfettano ogni singolo centimetro del centro. La doccia per ogni paziente che, dal momento che entra, per ogni giorno di convalescenza fino a quello che esce, é obbligatoria e lo é persino per i parenti che soggiornano qui per assistere i propri cari.

Le urla di una ragazza mi vanno dall’orecchio dritto allo stomaco -” é appena uscita dalla sala operatoria”- mi tranquillizza la mia infermiera e come chiunque che si risvegli da un intervento chirurgico ovviamente non può che mostrare il dolore provato.

Vediamo parcheggiata fuori l’unica ambulanza che il centro possiede. Questa opera nel raggio di 20 chilometri al di fuori dei quali Emergency ha realizzato cinque centri di primo soccorso nel distretto di Samlot, zona coperta da foreste e molto minata, dove i pazienti dei villaggi lontani, vengono accolti, stabilizzati e poi trasportati in questo centro, chiamato Madre.

La pace duratura ormai stabilitasi in questo paese e il funzionamento ormai “standardizzato” e di “routine” del Centro Chirurgico Ilaria Alpi mi fanno pensare che presto Emergency potrà affrontare il prossimo ed ultimo passo verso la conclusione della missione che lei stessa si prefigge in ogni paese: passare il proprio lavoro nelle mani del governo.

Con un forte controllo iniziale seguito da una mera speranza, si cercherà di prevenire questi dall’introdurre anche in questa oasi bianca il suo sistema spesso basato sulla corruzione, permettendo così a tutto lo staff di Emergency di andare avanti a cercare nuovi paesi, nuovi fronti dove operare ed aiutare, senza il rimorso di aver lasciato in mani sbagliate questo glorioso ospedale quale il Centro Chirurgico Ilaria Alpi é .

La notte di Natale la passai da solo con un febbrone da cavallo a vomitare ininterrottamente nel letto della stanza 14 del Tribal Hotel, in un paesino cambogiano incastrato tra il Laos ed il Vietnam. Aspettando Babbo Natale (che non è mai arrivato) ho programmato la visita che avrei fatto, non appena ripreso, nella giungla circostante.

Finalmente la febbre passò ed io riuscii a raggiungere Andrea, Luca (Andrea si è aggiunto in un secondo momento) e le tre amache, che nel frattempo si erano accampati sulla riva di un lago. Per festeggiare la nascita del Bambinello ci siamo cotti (nei soliti pentolini, su legna tagliata a colpi di machete) tre bei piattoni di fettuccine al sugo (con pomodorini freschi!).

Dormire in amaca è scomodo all’inizio ma poi ci si fa l’abitudine, meno facile però è abituarsi alla paura di grandi gattoni felini affamati, accompagnati dai loro amici orsi e coccodrilli pronti anch’essi, nel buio della notte, a un banchetto di Natale.

Una mattina, mentre oziavo cullato nella mia amaca legata tra due palme, alzando gli occhi notai in lontananza due sagome camminare nella mia direzione.

Sihanoukville, quel giorno come gli altri, si presentava nella sua putrida sporcizia, invasa dalle più arroganti strutture di cemento e tutto sembra tranne che la bella località di mare che guide turistiche e depliant continuano a decantare nonostante il reale e palese orrore che questo capoluogo litorale trasmette (le passeggiate lungo la costa sembrano più degli attenti zig zag per evitare di calpestare siringhe, cadaveri di ratti, buste di plastica, pneumatici, assorbenti, pozzanghere di schiuma bianca e agglomerati di gelatine strane e di certo non naturali).

Le sagome, una assai più bassa dell’altra, erano di due corpi femminili e per questo mi fu impossibile distogliere loro gli occhi di dosso finché non ne avessi costatato l’apparenza.

Il mio sguardo “lungo” era giustificato dal fatto che provenivo da trenta interminabili giorni passati tra foreste e zone remote della Cambogia in compagnia di due uomini, tre amache, due pentolini, un machete, una mappa e dell’apparenza di una donna (bella o brutta) neanche l’ombra. Fu per questo che decidemmo di recarci proprio a Sihanoukville per passare il capodanno. Festeggiare l’arrivo del nuovo anno in una zona altamente turistica (seppur orrenda) era una buona occasione per fare incontri piacevoli e magari scambiare qualche differenza culturale con qualche turista vogliosa di fare lo stesso.

Mai avrei immaginato che una delle due sagome, presto rivelatasi dall’aspetto irresistibile, sarebbe stata colei che ancora oggi chiamo: la mia fidanzata.

Quella bassa la scrutai appena. Dall’altra invece non riuscii a distogliere lo sguardo. Man mano che si avvicinava, il suo viso appariva sempre più incantevole ed esotico, i due seni crescevano a dismisura e il corpo mulatto acquisiva forme sempre più perfette.

Di placare il cuore che ormai era impazzito battendomi a ritmi da portare all’infarto, non se ne parlava. Da cento, la loro distanza si era drammaticamente ridotta a pochi metri e ora stavano per passarmi accanto.

Nessuna delle due aveva notato quel fagottino arrotolato nell’amaca ed io dovevo assolutamente trovare un modo per farmi notare. Allungai la mano e dallo zaino estrassi la macchina fotografica, l’unico “lampo di genio” che il mio cervello in quel momento riuscì a produrre.

“Click”. Partì anche il flash.

“Oh, ma che quello ti ha fatto una foto?”- sento dire dall’amica bassa, in un americano inconfondibile.

Entrambe mulatte dai lineamenti orientali a tutto avrei pensato che a due americane.

Lei si voltò, mi scrutò e continuò a camminare, schizzando l’acqua con i piedi nudi lungo il bagnasciuga.

Il bikini nero sembrava inventato apposta per lei e, neanche per un secondo, mi fece inveire (come di solito faccio) contro quelle ragazze che non rispettano i costumi dei paesi che visitano, denudandosi incoscientemente, ignoranti dei grandi tumulti che provocano all’interno della popolazione locale. Quel bikini le stava troppo bene ed io a questo punto volevo piena autorizzazione per tirarne i lacci che lo legavano al corpo.

L’idea della foto non fece scalpore e ora mi trovavo in mano, oltre che a un pugno di mosche, uno scatto mosso della sua schiena che neanche mi sarebbe servito come foto ricordo.

Continuai a seguirla con gli occhi spingendola sottovoce, quasi nel tentativo di convincerla, di voltare a destra verso i cancelli della guest house dove risiedevamo io, Andrea e Luca.

“Destra, destra, gira, gira!”-”Si, si, brava, si!”

Il cuore quasi non sosteneva più le palpitazioni frenetiche e violente.

Convintomi che il destino l’aveva portata a stare nel mio stesso ostello ora stava a me fare qualcosa.

Purtroppo non sono mai stato un bravo abbordatore e in quei momenti non so mai cosa fare né soprattutto cosa dire.

In pochi istanti il mio mondo era stato del tutto scombussolato: da che ero rilassato a dondolare nel mio letto penzolante, ora non riuscivo più a pensare coerentemente.

Cercai di mantenere la calma e di programmare un attento piano d’attacco. Feci così passare del tempo che però non mi portò utili consigli. Smontai l’amaca e mi recai, con la scusa di avere fame, al ristorante della guest house; cercando mentre mi avvicinavo, spiando dietro ogni finestra delle numerosissime stanze, la mia dea della spiaggia.

Nulla da fare, una delle decine di porte di legno che danno sul porticato esterno dell’ostello mi stava dividendo da lei.

Ordinai un panino col tonno, una spremuta di frutta mista e mi misi a chiacchierare col cameriere. La sua storia tristissima mi coinvolse subito e per degli istanti mi distrasse da lei.

Orfano di due genitori, massacrati poco dopo la sua nascita dai Khmer Rossi, egli fu cresciuto dai nonni. Troppo poveri per pagargli gli studi lo mandarono a lavorare proprio lì a Sihanoukville. Trovò occupazione in quel ristorante dove, da due anni, lavora tutto il giorno, tutti i giorni, guadagnando uno stipendio di appena trenta dollari al mese.

Cominciai a fargli domande, la sua storia mi aveva coinvolto emotivamente e quello stesso cuore che prima impazziva elettrizzato dagli ormoni ora batteva a ritmi decisamente più lenti.

E come per confermare quella regola famosa: che quando si pensa troppo ad una cosa questa tarda a venire, presentandosi solo quando si smette di pensarci, le due teste more spuntarono dai gradini di legno che dalla strada conducevano al ristorante. Anche loro avevano fame!

Cosa fare? Il cameriere continuava con i suoi tristi racconti ed io non potevo cambiare espressione né permettermi di interrompere l’ascolto. A pochi passi da me però si avvicinava colei che rese quel giorno uno dei giorni più indimenticabili della mia vita!

Grazie al cielo si sedettero al tavolo accanto al mio e grazie alla sua amica s’intromisero nel discorso tra me e il cameriere. Il canale fu stabilito. Maleducatamente persi presto l’attenzione verso il ragazzo cambogiano e diedi più peso alle due ragazze, non accorgendomi neanche che, ad un tratto, il cameriere era addirittura sparito.

Non ricorderò mai ciò di cui parlammo quel giorno seduti a quei tavoli. L’emozione mi offuscò completamente la memoria. So solo che ci presentammo, che la bassina si chiamava Lyndsay e che lei, la bellissima dea della spiaggia, si chiamava Jennifer.

Entrambe, un particolare difficile da sottovalutare, venivano dalle Hawaii.

Ricordo anche di aver avuto un altro lampo di genio, molto più efficace del primo:
“Would you like some Carbonara pasta on the beach tonight?” domandai sicuro dell’invito irresistibile.

“Sure!” L’idea della Carbonara sulla spiaggia le allettò.

Ormai eravamo esperti in cucina all’aperto e quando chiesi soccorso ai miei due compagni, loro mi aiutarono fino in fondo in quel mio tentativo di prendere Jennifer, letteralmente per la gola.

Quella sera scavammo una buca nella sabbia dove infilammo dei ramoscelli secchi che demmo alle fiamme. Mischiammo poi le uova con le fettuccine e la pancetta in uno dei due pentolini famosi. L’atmosfera quella sera ci avvolse nel suo manto stellato, cullandoci nel fruscio delle onde interrotto solo dallo scoppiettare del fuoco. La Carbonara non venne molto buona ma a quel punto la cosa non ebbe più peso. Quella fu la nostra prima notte d’amore. L’indomani era capodanno: iniziava un 2007 che avrei passato interamente con lei.


 

 

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