.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

.

attualità


N. 25 - Gennaio 2010 (LVI)

ASIA, BUDDHA E un reporter senza lavoro
PARTE IX – birmania, tesori e cicatrici

di Gianrigo Marletta

 

Rangoon, Maggio 2007. La Birmania è forse l’ultimo paradiso esotico e sconosciuto rimasto. Non ancora intaccato dal progresso e risparmiato dalla rovina del turismo, questo paese regala ancora oggi ai ricercatori del remoto e dell’antico, la possibilità di approdare su terre vergini tutte da esplorare.

Passare dal caotico, decadente aspetto della ex capitale Yangon, che ancora porta le vesti sbiadite di un’architettura coloniale, ai paesaggi incantati della pianura di Bagan, è un sollievo per l’occhio ma soprattutto per l’anima. Inghiottiti da prati verdissimi e da alberi infuocati dal rosso dei fiori, le migliaia, anzi le centinaia di migliaia di pagode spiccano dal terreno come piccole colline: ognuna con la sua forma, ognuna con il suo colore, ognuna con il suo splendore.

All’interno di ciascun tempio regnano pacifiche le millenarie statue in pietra di Buddha che, con lo sguardo fisso nel vuoto e le tuniche di stoffa di loto a coprirgli la spalla destra, offrono sorrisi fatati e sguardi ispiratori.

Perdersi, con corpo e spirito, tra le vaste praterie punteggiate da questi monumenti dedicati semplicemente alla pace interiore, non lascia indifferenti né permette di ripartire senza provare un profondo senso di appartenenza ad un qualcosa di superiore, che supera la semplice forma fisica.

Da Bagan, proseguendo a est del fiume Irrawaddy, dopo otto ore di saltellante viaggio in pullman, dal panorama scenico e grandioso, si arriva al Lago Inle. Escursioni in lunghe canoe scavate nel tronco di un albero spinte da un vibrante motore a diesel offrono la possibilità di scovare remoti villaggi galleggianti, in cui gli abitanti per spostarsi devono remare da una parte all’altra.

Si scivola via lungo gli stretti canali irrigatori che tagliano le immense risaie verde smeraldo fino ad arrivare alle coltivazioni, anch’esse galleggianti, di fiori di loto.

Anche qui le Pagode non mancano e i monaci dalle tuniche rosse, che passeggiano in gruppi sotto l’ombra di un ombrello, completano il paesaggio.

Mandalay, la seconda metropoli birmana, non offre particolari bellezze in sé, ma basta uscire di qualche chilometro ed ecco che ci si ritrova, ancora una volta, immersi nel passato. A bordo di un calesse trainato da un solo cavallo, unico mezzo presente a parte qualche motorino, si trotterella lungo i viali di fanghiglia che collegano le Ancient Cities, le città antiche.

Splendidi monumenti, immersi nel verde e nel silenzio, inseriti nel contesto in cui si trovano, dove le persone si recano qui e lì a piedi, in cui le donne qualsiasi cosa trasportino lo facciano tenendola in bilico sulla testa, dove le abitazioni sono fatte di legno, i tetti di foglie e i buoi prendono il posto delle moderne macchine di lavoro, fanno davvero svanire nel nulla i nostri concetti del tempo. Senza troppa fantasia uno potrebbe benissimo immaginarsi di essere tornato al medioevo o semplicemente in un’era senza data.

Sì, la Birmania è tutto questo e molto di più. Da quasi quindici anni le sue frontiere hanno aperto i cancelli, e oggi, tra i primati dei turisti visitatori ci sono… i nostri connazionali.

Dall’Italia, arrivare in Birmania, è semplice. Per gli avventurieri “fai da te” ci sono voli di linea che da Roma e Milano portano, dopo un breve scalo a Doha, diretti a Yangon. Per gli amanti dei tour in gruppo basta entrare in una qualsiasi agenzia di viaggio e sfogliare uno dei tanti cataloghi a tema. Ogni lunedì vi è anche un volo charter diretto da Malpensa.

Ma che si vada zaino in spalla o seduti alla decima fila di un pullman ad aria condizionata, è importante entrare nel paese bene informati e conoscere la storia che fino ad oggi ha portato ogni cittadino birmano a tanta sofferenza.

Il rischio per il turista di commettere errori è alto e l’ingenuità potrebbe davvero essere dannosa. L’aspetto puro, naturale, genuino e intoccato dal progresso purtroppo non è casuale e il prezzo pagato per tale nomina fu, ed è ancora, davvero caro.

Negli ultimi quarant’anni oppressioni, stragi, torture, ingiustizie, spargimenti di sangue e violenze di ogni genere hanno tormentato centinaia di migliaia di birmani, riempiendo le pagine dei lunghissimi rapporti di Amnesty International, delle Nazioni Unite, della Human Right Watch, della Croce Rossa, dei Medici Senza Frontiere, e di numerosissime altre organizzazioni umanitarie operanti nel campo.

Il responsabile? Il governo. Un susseguirsi di governi militari dal 1962 hanno guidato il paese fino ad oggi, tenendolo schiacciato sotto un pesantissimo “scarpone da soldato”.

L’ultimo, attualmente in vigore, è a capo dal settembre del 1988. Appena due mesi prima il generale Ne Win consegnava le dimissioni. Ne Win fu il padre dell’odierna dittatura birmana. Fu lui che con il colpo di stato del ‘62 ribaltò completamente il destino del paese, che fino a quel momento godeva di una struttura politica democratica ed era benedetto da un vastissimo patrimonio di risorse naturali (non a caso soprannominato “la risaia dell’Asia”).

In meno di tre decenni Ne Win fu in grado di raccogliere l’intero patrimonio pubblico e di infilarlo nelle tasche di una ristretta cerchia di prediletti, tutti militari. Il regime estorse alla popolazione ogni suo avere, schiacciandola e costringendola infine alla fame.

In quell’anno i generali presero il posto dei ministri, gli ufficiali divennero funzionari, i soldati semplici gli esecutori di stragi, arresti e torture, i cittadini trasformati in spie di se stessi. Dal 1962 la Birmania iniziò lo scivolone che lo portò dal paese più ricco dell’Asia a uno dei più poveri del mondo.

Odiato dal popolo che ormai da tempo fermentava, organizzava scioperi e piccole rivolte, Ne Win scelse di passare in secondo piano, lasciando il pizzo finale delle redini in mano ad un gruppetto di nuovi dittatori da lui scelti personalmente, tra cui l’odierno capo della giunta: il generale Than Swe.
Ne Win avrebbe condotto dall’ombra, Than Swe e gli altri sarebbero stati la nuova faccia del regime.

Il popolo però ne aveva avuto già abbastanza: i vertici si arricchivano, ostentando un tenore di vita dal lusso straordinario, quasi maniacale. La gente invece iniziava letteralmente a morire di fame. Il fermento arrivò al culmine: nell’agosto del 1988 centinaia di migliaia di persone scesero in piazza e lungo i viali di Rangoon.

La protesta fu spontanea, gli studenti furono i primi a radunarsi, si unirono poi i negozianti, i tassisti, i ristoratori. I megafoni esclamavano richieste di pace e democrazia. Gli slogan erano di pace e fratellanza. Le persone disarmate.

La manifestazione fu soffocata nel sangue: i soldati spararono sulla folla dalle terrazze dei palazzi. A terra rimasero più di tremila cadaveri, studenti, donne e tanti bambini. Da quel giorno il terrore entrò nell’anima di ogni birmano e ancora oggi alloggia in ogni casa, capanna o baracca che sia.

Nel 1990 pareva che il pugno di ferro si fosse allentato. La giunta si esibì con un’improvvisa e sorprendente disponibilità: permise una libera elezione democratica. La dittatura sarebbe scesa dal podio e si sarebbe allineata con i partiti d’opposizione permettendo al popolo di scegliersi il governo che preferiva.

A quelle elezioni vinse, anzi stravinse, la NLD (Lega Nazionale per la Democrazia) battendo dunque la giunta. La NLD fu fondata dopo la strage dell’88 dall’eroina pacifista e icona della Birmania libera: Aung San Suu Kyi.

I militari però, sbalordendo ancora una volta il mondo intero, non riconobbero mai quelle elezioni e continuarono a governare il paese, che a questo punto chiamarono Myanmar, con terrore. Massacrando chiunque lo obbiettasse.

Il 1990 fu l’anno in cui il regime cambiò di nuovo nome, da SLORC divenne SPDC (Consiglio di Stato per la Pace ed il Development, lo Sviluppo!) un nome che assurdamente tentava di cancellare dalla memoria il massacro di una piazza, il genocidio di interi gruppi etnici, gli assassinii e le torture dei prigionieri politici. Nel 1990 la giunta apre anche le frontiere ad un turismo che da allora diventerà sempre più massiccio.

Anche i monaci divennero presto nemici. Con un’azione di boicottaggio, nel 1989, portarono avanti un tentativo di protesta: nei paesi buddisti ogni famiglia allo spuntar del sole riceve, sulla porta di casa, la visita dei religiosi in tonaca bordò, che dai monasteri s’incamminano a piedi nudi verso le abitazioni dei laici, per la collezione delle offerte.

Questa visita è per ogni devoto di vitale importanza e di ottimo auspicio. Offrire ai monaci è come offrire al Signore, ed è offrendo a Lui che si spera di rientrare nelle Sue Grazie, a tempo debito.

Nel tentativo di cambiare le cose, dando uno scossone all’aspetto più delicato del regime: la superstizione, i monaci boicottarono le famiglie dei soldati evitando il loro ricevimento. Da quel momento, loro, non rientravano più nelle Grazie!

Tale sciagura creò grandi scompigli all’interno dei nuclei familiari dei militari, e per del tempo sembrava che la protesta stesse funzionando. Così però non fu. Giocando ancora la carta della violenza, con lo slogan “ripuliamo la religione dalla politica”, i militari entrarono nei monasteri picchiando, uccidendo ed infine costringendo a smonacarsi migliaia di bonzi.

Neanche la magica cittadina di Bagan fu risparmiata da atroci ingiustizie. Ai turisti non viene raccontato ed i proprietari alberghieri si guardano bene dal farlo sapere. Fino al 1990 a Bagan, tra quelle cinquemila pagode, si ergevano le migliaia di capanne di quel popolo che da millenni custodiva il magico segreto di questa antica capitale.

Si dissetavano dal fiume che serpenteggia tra i templi. Coltivavano i verdi campi che inghiottivano questi monumenti e ciascuna famiglia si occupava della cura di ogni statua di Buddha che giorno dopo giorno siede, da oltre mille anni, a gambe incrociate sotto l’ombra di quei coni estesi verso il cielo. L’odore d’incenso era onnipresente, il mantenimento delle pagode era genuino e l’atmosfera vivente.

Nel 1990 - anno in cui il Myanmar apre le frontiere al turismo - La giunta decide che Bagan deve diventare zona archeologica. La parte abitata, viva, va smantellata. I militari avvertono la popolazione dando loro un preavviso di cinque giorni per spostarsi a sud dove, con grande “benevolenza”, il governo aveva messo su qualche baracca ad accoglierli. Le ruspe, alla scadenza dei cinque giorni, distrussero ogni abitazione. La protesta era equivalente all’arresto.

Dal 2007 sulla mappa che viene consegnata ai turisti appaiono oggi, ben distinte, una Bagan Vecchia ed una Bagan Nuova. La prima è quella archeologica, quella da visitare, la seconda quella urbana, quella dove diciassette anni prima il governo ha spostato l’intera popolazione.

Nella Bagan Vecchia spuntano ancora le Pagode, bianche, dorate, rosse, incantevoli. Accanto a loro invece, spesso, troppo spesso, erge anche un lussuoso albergo. Gli orti sono diventati semplici praterie ed una rete di strade di cemento collega i vari siti più importanti.

Nessuno più accende gli incensi e i monumenti oggi appaiono molto più freddi. Cartelli in inglese e frotte di venditori di souvenir occupano l’entrata di ogni tempio. Per i turisti, che qui arrivano in massa, c’è una vasta scelta di mezzi per gironzolare tra le pagode. Bici, calesse, taxi o pullman.
Nella Bagan Nuova invece si soffre. Gli abitanti ancora, tacitamente, si lamentano. Quando possono raccontano la loro storia a qualche turista interessato.

“Le Pagode per noi rappresentano la vita. Il nostro tempo era scandito dal suono dei loro campanelli che tintinnavano al vento. Ora siamo troppo lontani”.

Le donne non ce la fanno ad andare ogni giorno all’alba a fare le offerte di frutta, ad accendere i primi incensi e a rivestire con le stoffe le antiche statue. Gli uomini non hanno i mezzi per recarsi a offrire le visite giornaliere ai loro protettori. La loro vita è stata estirpata da un’antichissima tradizione. E per aggiungere anche la beffa, nella Bagan Nuova, non vi è né acqua, né elettricità, né spazio per la coltivazione.

I contadini sono ora costretti a supplicare i turisti per denaro. Talvolta vendendo statuine, cartoline, cappellini di paglia, ed altri inutili oggetti, talvolta semplicemente allungando la mano aperta. Negli alberghi, che spesso spuntano a soli pochi metri dalle loro baracche, l’acqua scorre a volontà dai rubinetti e l’elettricità, che alimenta i condizionatori d’aria per i turisti, illumina quasi a sfregio le insegne per tutta la notte.

Incontro un uomo gentilissimo. La sua storia tristissima. Ha una moglie e un figlio di dieci anni. Mi racconta di quei terribili giorni di diciassette anni fa e poi mi confessa che non è finita. Lui fu uno dei pochi fortunati a cui venne permesso di mantenere un piccolo fazzoletto di terra nella vecchia Bagan.

Su quello spazio ci aveva costruito, in legno e bambù, un ristorantino. Pochi tavoli ed un fornelletto a gas per anni sono stati il sostentamento di questa famiglia così deliziosa. Come la sua altre quattro famiglie, messe in fila indiana accanto al suo, hanno avuto il privilegio di possedere un piccolo ristorante. Il locale era il loro vitto ed il loro alloggio. Il bimbo poteva permettersi di andare a scuola e la famiglia, tutto sommato, viveva una vita decente.

Ma appena un cittadino birmano si dimentica della potenza schiacciante del governo ecco che lui, come una bestia affamata, si presenta per ricordare quanto insignificante la vita di ogni povero, per lui, è.

Le ruspe si presentarono alla porta, solo qualche giorno fa, accompagnate da un gruppo di poliziotti. “Togliti, dobbiamo rimuovere questa baracca” - furono le uniche spiegazioni. Al posto del suo vogliono ora far sorgere un ristorante di lusso. L’uomo ora, nel raccontarmi, piange. Non vuole aiuto né compassione.

Non cerca giustizia né vendetta. Egli desidera solo riavere la sua vita e la possibilità di crescere, in pace, la sua famiglia.

Ad avere la peggio però sono le tribù che da secoli coltivano le colline lungo i confini con Tailandia, Laos e Cina. I loro villaggi vengono usati dal governo come supermercati gratuiti da cui attingere per qualsiasi risorsa di cibo. Costretti ai lavori forzati, i contadini vengono malnutriti, malmenati ed iper-sfruttati, i loro campi svuotati, le loro donne stuprate ed i loro figli portati via ed usati come portatori o apripiste.

I primi sono costretti a portare in spalla le casse pesantissime cariche di cibo e munizioni per i soldati durante le lunghe marce nella foresta. Non vengono nutriti né curati e quando inevitabilmente muoiono, vengono lasciati a marcire laddove sono caduti.

I secondi invece, ancora più macabramente, sono costretti da una pistola puntata alla testa a camminare nei campi con lo scopo di sminarli. Come? Saltando in aria quando ne calpestano una.
La Cina, che da sempre ha appoggiato questo regime, non è più come prima l’unica fonte economica intenzionata a riempire le tasche delle forze militari birmane.

Al gas e alla massiccia esportazione di tek e di pietre preziose si é aggiunto un nuovo fenomeno impegnato a gonfiare il monopolio economico dell’esercito: il turismo.
I Tour Operator stanno costruendo lussuosi alberghi e villaggi per i turisti "a cinque stelle", sponsorizzando così uno dei genocidi più atroci e palesi della storia. Il governo a Yangon ha creato un falso teatrino per i nuovi visitatori, costringendo gli abitanti della capitale ai lavori forzati per riabbellire i quartieri.

I soldi che ogni turista deposita nelle casse del governo vanno dritti nella costruzione di mine antiuomo e di altre armi belliche: “quei soldi diventeranno sporchi di sangue” - mi dice un cittadino birmano.

Per anni andare in Birmania a scopo turistico fu una questione che sollevò molti dibattiti. La campagna di boicottaggio al turismo avanzata dalla Lega Nazionale per la Democrazia, portata avanti dalle ONG e dalle editorie delle principali guide turistiche, sta negli ultimi tempi prendendo una piega sempre meno rigida.

La NLD stessa oggi consiglia di andare… ma di andare facendo attenzione a dove si spendono i soldi e soprattutto con lo scopo di denunciare tutto ciò che appare, dietro alla tendina finta, crudele e disumano.

Ogni paese, con la sua storia e la sua particolarità, offre al viaggiatore i suoi tesori e le sue cicatrici. La Birmania è segnata da una maledizione che fino ad oggi ha mantenuto integri i tesori ma che ha anche inflitto profondissime cicatrici.

L’aiuto per gli abitanti di questo paese potrà arrivare soltanto da una direzione, l’Occidente.

Solo i governi e le ONG mondiali potranno convincere la giunta militare a deporre le armi ed a rimettere in piedi un sistema democratico.

Il turismo può sostenere questa causa, l’importante è non andare con i paraocchi, esser lì consapevoli e tornare con qualcosa che vada al di là del mero ricordo.


 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.