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N. 25 - Gennaio 2010
(LVI)
ASIA, BUDDHA E un reporter senza lavoro
PARTE IX – birmania, tesori e cicatrici
di Gianrigo Marletta
Rangoon,
Maggio
2007.
La
Birmania
è
forse
l’ultimo
paradiso
esotico
e
sconosciuto
rimasto.
Non
ancora
intaccato
dal
progresso
e
risparmiato
dalla
rovina
del
turismo,
questo
paese
regala
ancora
oggi
ai
ricercatori
del
remoto
e
dell’antico,
la
possibilità
di
approdare
su
terre
vergini
tutte
da
esplorare.
Passare
dal
caotico,
decadente
aspetto
della
ex
capitale
Yangon,
che
ancora
porta
le
vesti
sbiadite
di
un’architettura
coloniale,
ai
paesaggi
incantati
della
pianura
di
Bagan,
è un
sollievo
per
l’occhio
ma
soprattutto
per
l’anima.
Inghiottiti
da
prati
verdissimi
e da
alberi
infuocati
dal
rosso
dei
fiori,
le
migliaia,
anzi
le
centinaia
di
migliaia
di
pagode
spiccano
dal
terreno
come
piccole
colline:
ognuna
con
la
sua
forma,
ognuna
con
il
suo
colore,
ognuna
con
il
suo
splendore.
All’interno
di
ciascun
tempio
regnano
pacifiche
le
millenarie
statue
in
pietra
di
Buddha
che,
con
lo
sguardo
fisso
nel
vuoto
e le
tuniche
di
stoffa
di
loto
a
coprirgli
la
spalla
destra,
offrono
sorrisi
fatati
e
sguardi
ispiratori.
Perdersi,
con
corpo
e
spirito,
tra
le
vaste
praterie
punteggiate
da
questi
monumenti
dedicati
semplicemente
alla
pace
interiore,
non
lascia
indifferenti
né
permette
di
ripartire
senza
provare
un
profondo
senso
di
appartenenza
ad
un
qualcosa
di
superiore,
che
supera
la
semplice
forma
fisica.
Da
Bagan,
proseguendo
a
est
del
fiume
Irrawaddy,
dopo
otto
ore
di
saltellante
viaggio
in
pullman,
dal
panorama
scenico
e
grandioso,
si
arriva
al
Lago
Inle.
Escursioni
in
lunghe
canoe
scavate
nel
tronco
di
un
albero
spinte
da
un
vibrante
motore
a
diesel
offrono
la
possibilità
di
scovare
remoti
villaggi
galleggianti,
in
cui
gli
abitanti
per
spostarsi
devono
remare
da
una
parte
all’altra.
Si
scivola
via
lungo
gli
stretti
canali
irrigatori
che
tagliano
le
immense
risaie
verde
smeraldo
fino
ad
arrivare
alle
coltivazioni,
anch’esse
galleggianti,
di
fiori
di
loto.
Anche
qui
le
Pagode
non
mancano
e i
monaci
dalle
tuniche
rosse,
che
passeggiano
in
gruppi
sotto
l’ombra
di
un
ombrello,
completano
il
paesaggio.
Mandalay,
la
seconda
metropoli
birmana,
non
offre
particolari
bellezze
in
sé,
ma
basta
uscire
di
qualche
chilometro
ed
ecco
che
ci
si
ritrova,
ancora
una
volta,
immersi
nel
passato.
A
bordo
di
un
calesse
trainato
da
un
solo
cavallo,
unico
mezzo
presente
a
parte
qualche
motorino,
si
trotterella
lungo
i
viali
di
fanghiglia
che
collegano
le
Ancient
Cities,
le
città
antiche.
Splendidi
monumenti,
immersi
nel
verde
e
nel
silenzio,
inseriti
nel
contesto
in
cui
si
trovano,
dove
le
persone
si
recano
qui
e lì
a
piedi,
in
cui
le
donne
qualsiasi
cosa
trasportino
lo
facciano
tenendola
in
bilico
sulla
testa,
dove
le
abitazioni
sono
fatte
di
legno,
i
tetti
di
foglie
e i
buoi
prendono
il
posto
delle
moderne
macchine
di
lavoro,
fanno
davvero
svanire
nel
nulla
i
nostri
concetti
del
tempo.
Senza
troppa
fantasia
uno
potrebbe
benissimo
immaginarsi
di
essere
tornato
al
medioevo
o
semplicemente
in
un’era
senza
data.
Sì,
la
Birmania
è
tutto
questo
e
molto
di
più.
Da
quasi
quindici
anni
le
sue
frontiere
hanno
aperto
i
cancelli,
e
oggi,
tra
i
primati
dei
turisti
visitatori
ci
sono…
i
nostri
connazionali.
Dall’Italia,
arrivare
in
Birmania,
è
semplice.
Per
gli
avventurieri
“fai
da
te”
ci
sono
voli
di
linea
che
da
Roma
e
Milano
portano,
dopo
un
breve
scalo
a
Doha,
diretti
a
Yangon.
Per
gli
amanti
dei
tour
in
gruppo
basta
entrare
in
una
qualsiasi
agenzia
di
viaggio
e
sfogliare
uno
dei
tanti
cataloghi
a
tema.
Ogni
lunedì
vi è
anche
un
volo
charter
diretto
da
Malpensa.
Ma
che
si
vada
zaino
in
spalla
o
seduti
alla
decima
fila
di
un
pullman
ad
aria
condizionata,
è
importante
entrare
nel
paese
bene
informati
e
conoscere
la
storia
che
fino
ad
oggi
ha
portato
ogni
cittadino
birmano
a
tanta
sofferenza.
Il
rischio
per
il
turista
di
commettere
errori
è
alto
e
l’ingenuità
potrebbe
davvero
essere
dannosa.
L’aspetto
puro,
naturale,
genuino
e
intoccato
dal
progresso
purtroppo
non
è
casuale
e il
prezzo
pagato
per
tale
nomina
fu,
ed è
ancora,
davvero
caro.
Negli
ultimi
quarant’anni
oppressioni,
stragi,
torture,
ingiustizie,
spargimenti
di
sangue
e
violenze
di
ogni
genere
hanno
tormentato
centinaia
di
migliaia
di
birmani,
riempiendo
le
pagine
dei
lunghissimi
rapporti
di
Amnesty
International,
delle
Nazioni
Unite,
della
Human
Right
Watch,
della
Croce
Rossa,
dei
Medici
Senza
Frontiere,
e di
numerosissime
altre
organizzazioni
umanitarie
operanti
nel
campo.
Il
responsabile?
Il
governo.
Un
susseguirsi
di
governi
militari
dal
1962
hanno
guidato
il
paese
fino
ad
oggi,
tenendolo
schiacciato
sotto
un
pesantissimo
“scarpone
da
soldato”.
L’ultimo,
attualmente
in
vigore,
è a
capo
dal
settembre
del
1988.
Appena
due
mesi
prima
il
generale
Ne
Win
consegnava
le
dimissioni.
Ne
Win
fu
il
padre
dell’odierna
dittatura
birmana.
Fu
lui
che
con
il
colpo
di
stato
del
‘62
ribaltò
completamente
il
destino
del
paese,
che
fino
a
quel
momento
godeva
di
una
struttura
politica
democratica
ed
era
benedetto
da
un
vastissimo
patrimonio
di
risorse
naturali
(non
a
caso
soprannominato
“la
risaia
dell’Asia”).
In
meno
di
tre
decenni
Ne
Win
fu
in
grado
di
raccogliere
l’intero
patrimonio
pubblico
e di
infilarlo
nelle
tasche
di
una
ristretta
cerchia
di
prediletti,
tutti
militari.
Il
regime
estorse
alla
popolazione
ogni
suo
avere,
schiacciandola
e
costringendola
infine
alla
fame.
In
quell’anno
i
generali
presero
il
posto
dei
ministri,
gli
ufficiali
divennero
funzionari,
i
soldati
semplici
gli
esecutori
di
stragi,
arresti
e
torture,
i
cittadini
trasformati
in
spie
di
se
stessi.
Dal
1962
la
Birmania
iniziò
lo
scivolone
che
lo
portò
dal
paese
più
ricco
dell’Asia
a
uno
dei
più
poveri
del
mondo.
Odiato
dal
popolo
che
ormai
da
tempo
fermentava,
organizzava
scioperi
e
piccole
rivolte,
Ne
Win
scelse
di
passare
in
secondo
piano,
lasciando
il
pizzo
finale
delle
redini
in
mano
ad
un
gruppetto
di
nuovi
dittatori
da
lui
scelti
personalmente,
tra
cui
l’odierno
capo
della
giunta:
il
generale
Than
Swe.
Ne
Win
avrebbe
condotto
dall’ombra,
Than
Swe
e
gli
altri
sarebbero
stati
la
nuova
faccia
del
regime.
Il
popolo
però
ne
aveva
avuto
già
abbastanza:
i
vertici
si
arricchivano,
ostentando
un
tenore
di
vita
dal
lusso
straordinario,
quasi
maniacale.
La
gente
invece
iniziava
letteralmente
a
morire
di
fame.
Il
fermento
arrivò
al
culmine:
nell’agosto
del
1988
centinaia
di
migliaia
di
persone
scesero
in
piazza
e
lungo
i
viali
di
Rangoon.
La
protesta
fu
spontanea,
gli
studenti
furono
i
primi
a
radunarsi,
si
unirono
poi
i
negozianti,
i
tassisti,
i
ristoratori.
I
megafoni
esclamavano
richieste
di
pace
e
democrazia.
Gli
slogan
erano
di
pace
e
fratellanza.
Le
persone
disarmate.
La
manifestazione
fu
soffocata
nel
sangue:
i
soldati
spararono
sulla
folla
dalle
terrazze
dei
palazzi.
A
terra
rimasero
più
di
tremila
cadaveri,
studenti,
donne
e
tanti
bambini.
Da
quel
giorno
il
terrore
entrò
nell’anima
di
ogni
birmano
e
ancora
oggi
alloggia
in
ogni
casa,
capanna
o
baracca
che
sia.
Nel
1990
pareva
che
il
pugno
di
ferro
si
fosse
allentato.
La
giunta
si
esibì
con
un’improvvisa
e
sorprendente
disponibilità:
permise
una
libera
elezione
democratica.
La
dittatura
sarebbe
scesa
dal
podio
e si
sarebbe
allineata
con
i
partiti
d’opposizione
permettendo
al
popolo
di
scegliersi
il
governo
che
preferiva.
A
quelle
elezioni
vinse,
anzi
stravinse,
la
NLD
(Lega
Nazionale
per
la
Democrazia)
battendo
dunque
la
giunta.
La
NLD
fu
fondata
dopo
la
strage
dell’88
dall’eroina
pacifista
e
icona
della
Birmania
libera:
Aung
San
Suu
Kyi.
I
militari
però,
sbalordendo
ancora
una
volta
il
mondo
intero,
non
riconobbero
mai
quelle
elezioni
e
continuarono
a
governare
il
paese,
che
a
questo
punto
chiamarono
Myanmar,
con
terrore.
Massacrando
chiunque
lo
obbiettasse.
Il
1990
fu
l’anno
in
cui
il
regime
cambiò
di
nuovo
nome,
da
SLORC
divenne
SPDC
(Consiglio
di
Stato
per
la
Pace
ed
il
Development,
lo
Sviluppo!)
un
nome
che
assurdamente
tentava
di
cancellare
dalla
memoria
il
massacro
di
una
piazza,
il
genocidio
di
interi
gruppi
etnici,
gli
assassinii
e le
torture
dei
prigionieri
politici.
Nel
1990
la
giunta
apre
anche
le
frontiere
ad
un
turismo
che
da
allora
diventerà
sempre
più
massiccio.
Anche
i
monaci
divennero
presto
nemici.
Con
un’azione
di
boicottaggio,
nel
1989,
portarono
avanti
un
tentativo
di
protesta:
nei
paesi
buddisti
ogni
famiglia
allo
spuntar
del
sole
riceve,
sulla
porta
di
casa,
la
visita
dei
religiosi
in
tonaca
bordò,
che
dai
monasteri
s’incamminano
a
piedi
nudi
verso
le
abitazioni
dei
laici,
per
la
collezione
delle
offerte.
Questa
visita
è
per
ogni
devoto
di
vitale
importanza
e di
ottimo
auspicio.
Offrire
ai
monaci
è
come
offrire
al
Signore,
ed è
offrendo
a
Lui
che
si
spera
di
rientrare
nelle
Sue
Grazie,
a
tempo
debito.
Nel
tentativo
di
cambiare
le
cose,
dando
uno
scossone
all’aspetto
più
delicato
del
regime:
la
superstizione,
i
monaci
boicottarono
le
famiglie
dei
soldati
evitando
il
loro
ricevimento.
Da
quel
momento,
loro,
non
rientravano
più
nelle
Grazie!
Tale
sciagura
creò
grandi
scompigli
all’interno
dei
nuclei
familiari
dei
militari,
e
per
del
tempo
sembrava
che
la
protesta
stesse
funzionando.
Così
però
non
fu.
Giocando
ancora
la
carta
della
violenza,
con
lo
slogan
“ripuliamo
la
religione
dalla
politica”,
i
militari
entrarono
nei
monasteri
picchiando,
uccidendo
ed
infine
costringendo
a
smonacarsi
migliaia
di
bonzi.
Neanche
la
magica
cittadina
di
Bagan
fu
risparmiata
da
atroci
ingiustizie.
Ai
turisti
non
viene
raccontato
ed i
proprietari
alberghieri
si
guardano
bene
dal
farlo
sapere.
Fino
al
1990
a
Bagan,
tra
quelle
cinquemila
pagode,
si
ergevano
le
migliaia
di
capanne
di
quel
popolo
che
da
millenni
custodiva
il
magico
segreto
di
questa
antica
capitale.
Si
dissetavano
dal
fiume
che
serpenteggia
tra
i
templi.
Coltivavano
i
verdi
campi
che
inghiottivano
questi
monumenti
e
ciascuna
famiglia
si
occupava
della
cura
di
ogni
statua
di
Buddha
che
giorno
dopo
giorno
siede,
da
oltre
mille
anni,
a
gambe
incrociate
sotto
l’ombra
di
quei
coni
estesi
verso
il
cielo.
L’odore
d’incenso
era
onnipresente,
il
mantenimento
delle
pagode
era
genuino
e
l’atmosfera
vivente.
Nel
1990
-
anno
in
cui
il
Myanmar
apre
le
frontiere
al
turismo
- La
giunta
decide
che
Bagan
deve
diventare
zona
archeologica.
La
parte
abitata,
viva,
va
smantellata.
I
militari
avvertono
la
popolazione
dando
loro
un
preavviso
di
cinque
giorni
per
spostarsi
a
sud
dove,
con
grande
“benevolenza”,
il
governo
aveva
messo
su
qualche
baracca
ad
accoglierli.
Le
ruspe,
alla
scadenza
dei
cinque
giorni,
distrussero
ogni
abitazione.
La
protesta
era
equivalente
all’arresto.
Dal
2007
sulla
mappa
che
viene
consegnata
ai
turisti
appaiono
oggi,
ben
distinte,
una
Bagan
Vecchia
ed
una
Bagan
Nuova.
La
prima
è
quella
archeologica,
quella
da
visitare,
la
seconda
quella
urbana,
quella
dove
diciassette
anni
prima
il
governo
ha
spostato
l’intera
popolazione.
Nella
Bagan
Vecchia
spuntano
ancora
le
Pagode,
bianche,
dorate,
rosse,
incantevoli.
Accanto
a
loro
invece,
spesso,
troppo
spesso,
erge
anche
un
lussuoso
albergo.
Gli
orti
sono
diventati
semplici
praterie
ed
una
rete
di
strade
di
cemento
collega
i
vari
siti
più
importanti.
Nessuno
più
accende
gli
incensi
e i
monumenti
oggi
appaiono
molto
più
freddi.
Cartelli
in
inglese
e
frotte
di
venditori
di
souvenir
occupano
l’entrata
di
ogni
tempio.
Per
i
turisti,
che
qui
arrivano
in
massa,
c’è
una
vasta
scelta
di
mezzi
per
gironzolare
tra
le
pagode.
Bici,
calesse,
taxi
o
pullman.
Nella
Bagan
Nuova
invece
si
soffre.
Gli
abitanti
ancora,
tacitamente,
si
lamentano.
Quando
possono
raccontano
la
loro
storia
a
qualche
turista
interessato.
“Le
Pagode
per
noi
rappresentano
la
vita.
Il
nostro
tempo
era
scandito
dal
suono
dei
loro
campanelli
che
tintinnavano
al
vento.
Ora
siamo
troppo
lontani”.
Le
donne
non
ce
la
fanno
ad
andare
ogni
giorno
all’alba
a
fare
le
offerte
di
frutta,
ad
accendere
i
primi
incensi
e a
rivestire
con
le
stoffe
le
antiche
statue.
Gli
uomini
non
hanno
i
mezzi
per
recarsi
a
offrire
le
visite
giornaliere
ai
loro
protettori.
La
loro
vita
è
stata
estirpata
da
un’antichissima
tradizione.
E
per
aggiungere
anche
la
beffa,
nella
Bagan
Nuova,
non
vi è
né
acqua,
né
elettricità,
né
spazio
per
la
coltivazione.
I
contadini
sono
ora
costretti
a
supplicare
i
turisti
per
denaro.
Talvolta
vendendo
statuine,
cartoline,
cappellini
di
paglia,
ed
altri
inutili
oggetti,
talvolta
semplicemente
allungando
la
mano
aperta.
Negli
alberghi,
che
spesso
spuntano
a
soli
pochi
metri
dalle
loro
baracche,
l’acqua
scorre
a
volontà
dai
rubinetti
e
l’elettricità,
che
alimenta
i
condizionatori
d’aria
per
i
turisti,
illumina
quasi
a
sfregio
le
insegne
per
tutta
la
notte.
Incontro
un
uomo
gentilissimo.
La
sua
storia
tristissima.
Ha
una
moglie
e un
figlio
di
dieci
anni.
Mi
racconta
di
quei
terribili
giorni
di
diciassette
anni
fa e
poi
mi
confessa
che
non
è
finita.
Lui
fu
uno
dei
pochi
fortunati
a
cui
venne
permesso
di
mantenere
un
piccolo
fazzoletto
di
terra
nella
vecchia
Bagan.
Su
quello
spazio
ci
aveva
costruito,
in
legno
e
bambù,
un
ristorantino.
Pochi
tavoli
ed
un
fornelletto
a
gas
per
anni
sono
stati
il
sostentamento
di
questa
famiglia
così
deliziosa.
Come
la
sua
altre
quattro
famiglie,
messe
in
fila
indiana
accanto
al
suo,
hanno
avuto
il
privilegio
di
possedere
un
piccolo
ristorante.
Il
locale
era
il
loro
vitto
ed
il
loro
alloggio.
Il
bimbo
poteva
permettersi
di
andare
a
scuola
e la
famiglia,
tutto
sommato,
viveva
una
vita
decente.
Ma
appena
un
cittadino
birmano
si
dimentica
della
potenza
schiacciante
del
governo
ecco
che
lui,
come
una
bestia
affamata,
si
presenta
per
ricordare
quanto
insignificante
la
vita
di
ogni
povero,
per
lui,
è.
Le
ruspe
si
presentarono
alla
porta,
solo
qualche
giorno
fa,
accompagnate
da
un
gruppo
di
poliziotti.
“Togliti,
dobbiamo
rimuovere
questa
baracca”
-
furono
le
uniche
spiegazioni.
Al
posto
del
suo
vogliono
ora
far
sorgere
un
ristorante
di
lusso.
L’uomo
ora,
nel
raccontarmi,
piange.
Non
vuole
aiuto
né
compassione.
Non
cerca
giustizia
né
vendetta.
Egli
desidera
solo
riavere
la
sua
vita
e la
possibilità
di
crescere,
in
pace,
la
sua
famiglia.
Ad
avere
la
peggio
però
sono
le
tribù
che
da
secoli
coltivano
le
colline
lungo
i
confini
con
Tailandia,
Laos
e
Cina.
I
loro
villaggi
vengono
usati
dal
governo
come
supermercati
gratuiti
da
cui
attingere
per
qualsiasi
risorsa
di
cibo.
Costretti
ai
lavori
forzati,
i
contadini
vengono
malnutriti,
malmenati
ed
iper-sfruttati,
i
loro
campi
svuotati,
le
loro
donne
stuprate
ed i
loro
figli
portati
via
ed
usati
come
portatori
o
apripiste.
I
primi
sono
costretti
a
portare
in
spalla
le
casse
pesantissime
cariche
di
cibo
e
munizioni
per
i
soldati
durante
le
lunghe
marce
nella
foresta.
Non
vengono
nutriti
né
curati
e
quando
inevitabilmente
muoiono,
vengono
lasciati
a
marcire
laddove
sono
caduti.
I
secondi
invece,
ancora
più
macabramente,
sono
costretti
da
una
pistola
puntata
alla
testa
a
camminare
nei
campi
con
lo
scopo
di
sminarli.
Come?
Saltando
in
aria
quando
ne
calpestano
una.
La
Cina,
che
da
sempre
ha
appoggiato
questo
regime,
non
è
più
come
prima
l’unica
fonte
economica
intenzionata
a
riempire
le
tasche
delle
forze
militari
birmane.
Al
gas
e
alla
massiccia
esportazione
di
tek
e di
pietre
preziose
si é
aggiunto
un
nuovo
fenomeno
impegnato
a
gonfiare
il
monopolio
economico
dell’esercito:
il
turismo.
I
Tour
Operator
stanno
costruendo
lussuosi
alberghi
e
villaggi
per
i
turisti
"a
cinque
stelle",
sponsorizzando
così
uno
dei
genocidi
più
atroci
e
palesi
della
storia.
Il
governo
a
Yangon
ha
creato
un
falso
teatrino
per
i
nuovi
visitatori,
costringendo
gli
abitanti
della
capitale
ai
lavori
forzati
per
riabbellire
i
quartieri.
I
soldi
che
ogni
turista
deposita
nelle
casse
del
governo
vanno
dritti
nella
costruzione
di
mine
antiuomo
e di
altre
armi
belliche:
“quei
soldi
diventeranno
sporchi
di
sangue”
- mi
dice
un
cittadino
birmano.
Per
anni
andare
in
Birmania
a
scopo
turistico
fu
una
questione
che
sollevò
molti
dibattiti.
La
campagna
di
boicottaggio
al
turismo
avanzata
dalla
Lega
Nazionale
per
la
Democrazia,
portata
avanti
dalle
ONG
e
dalle
editorie
delle
principali
guide
turistiche,
sta
negli
ultimi
tempi
prendendo
una
piega
sempre
meno
rigida.
La
NLD
stessa
oggi
consiglia
di
andare…
ma
di
andare
facendo
attenzione
a
dove
si
spendono
i
soldi
e
soprattutto
con
lo
scopo
di
denunciare
tutto
ciò
che
appare,
dietro
alla
tendina
finta,
crudele
e
disumano.
Ogni
paese,
con
la
sua
storia
e la
sua
particolarità,
offre
al
viaggiatore
i
suoi
tesori
e le
sue
cicatrici.
La
Birmania
è
segnata
da
una
maledizione
che
fino
ad
oggi
ha
mantenuto
integri
i
tesori
ma
che
ha
anche
inflitto
profondissime
cicatrici.
L’aiuto
per
gli
abitanti
di
questo
paese
potrà
arrivare
soltanto
da
una
direzione,
l’Occidente.
Solo
i
governi
e le
ONG
mondiali
potranno
convincere
la
giunta
militare
a
deporre
le
armi
ed a
rimettere
in
piedi
un
sistema
democratico.
Il
turismo
può
sostenere
questa
causa,
l’importante
è
non
andare
con
i
paraocchi,
esser
lì
consapevoli
e
tornare
con
qualcosa
che
vada
al
di
là
del
mero
ricordo.
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