N. 20 - Agosto 2009
(LI)
ASIA, BUDDHA
E un reporter senza
lavoro
PARTE IV - ciao CAMBOGIA
di Gianrigo Marletta
Il
motore
ruggiva
come
un
leone
e le
strade
d’asfalto
presto
divennero
sterrate
e
poi
quasi
impraticabili.
Un
mio
amico
(Luca)
ed
io
affittammo
due
moto
da
cross
a
Phnom
Penh
per
andare
a
visitare
Bukku,
la
città
fantasma
nel
sud
della
Cambogia.
Partiti
la
mattina
e
dopo
una
giornata
intera
di
viaggio,
al
tramonto,
eravamo
ancora
in
sella
ad
arrampicarci
lungo
il
sentiero
che
già
da
ore
avrebbe
dovuto
condurci
a
Bukku.
Bokor,
come
è
scritto
sulle
mappe,
fu
costruita
dai
francesi
come
stazione
climatica
per
rifugiarsi
dal
caldo
torrido
di
Phnom
Penh
nei
mesi
della
stagione
secca.
Quando
la
colonia
cadde
Bukku
rimase
prima
disabitata,
poi
venne
usata
come
roccaforte
dai
Khmer
Rossi
ed
ora
si
presenta
come
lo
scheletro
di
una
città
fantasma
con
tanto
di
alberghi
e
chiese
abbandonate.
A
mille
e
cento
metri
di
altitudine
in
questa
località
turistica
di
montagna,
vecchia
più
di
un
secolo,
non
mancava
proprio
nulla.
Una
delle
strutture
più
affascinanti
era,
ed è
ancora,
un
lussuoso
casinò
di
tre
piani
con
tanto
di
stanze
per
gli
ospiti.
A
ricordarne
l’estremo
lusso
sono
i
frammenti
di
pavimento
di
marmo
italiano
ancora
rimasti
semi
intatti.
Il
marmo
veniva
importato
direttamente
dall’Italia.
Le
navi
attraccavano
nel
porto
di
Kampot,
alla
base
del
monte
di
Bokor.
Solo
al
pensiero
di
quei
poveri
schiavi
colonizzati,
costretti
a
trasportare
in
spalla
i
blocchi
pesantissimi
su
per
quell’interminabile
sentiero
che
si
attorciglia
intorno
alla
montagna,
in
salita,
non
asfaltata,
fangosa
d’estate,
torrida
nella
stagione
secca,
stretta
e
ripida,
mi
veniva
da
star
male.
Le
nubi,
basse
e
gonfie
d’acqua,
nella
stagione
delle
piogge
coprono
e
scoprono
gli
scheletri
di
queste
strutture
ad
ogni
loro
passaggio.
Da
che
non
si
vede
nulla,
neanche
la
punta
delle
dita
quando
si
allunga
una
mano,
ad
un
tratto
come
un
miraggio,
appare
una
villa,
una
chiesa
o un
enorme
albergo.
La
suggestione
qui
porta
la
mente
molto
lontano,
affascinante
e
terrorizzante,
è un
luogo
quasi
surreale.
Una
qualsiasi
di
queste
strutture
sarebbe
stata
per
noi
una
visione
di
salvezza.
Seduto
su
una
moto
vibrante
per
tutte
quelle
ore,
concentrato
così
intensamente
per
non
scivolare
sui
sassi
che
accumulati
in
maniera
completamente
casuale
costituivano
la
strada,
mi
aveva
procurato
un
forte
mal
di
testa
e di
culo
(nulla,
però,
in
confronto
alla
pena
degli
schiavi).
Il
buio
era
calato
e i
timidi
fari
delle
nostre
moto
illuminavano
un
piccolo
angolo
di
foresta
spezzata
dal
sentiero.
Le
stelle
erano
milioni
e i
suoni
quelli
di
una
giungla
viva,
ma
io
non
vedevo
l’ora
di
trovare
un
riparo
e
soprattutto
di
scendere
da
quel
sellino
duro
come
il
legno.
Finalmente
di
punto
in
bianco
la
foresta
finì
e si
aprì
uno
spazio
di
erba
alta.
Il
sentiero
non
saliva
più,
la
strada
era
piana.
Il
vento
si
alzò
d’improvviso
sbattendo
forte
un
cartello
d’alluminio
contro
qualcosa
che
non
si
capiva
bene
cosa
fosse
e
solo
dopo
esserci
avvicinanti
con
i
fari,
scoprimmo
essere
un
tempio,
o
ciò
che
ne è
rimasto.
Siamo
arrivati.
Certo
lo
scenario
non
era
come
me
lo
ero
immaginato,
anzi
era
proprio
come
speravo
non
fosse:
tenebroso,
cupo
e
lugubre;
ma
ciò
che
ora
contava
davvero
era
spegnere
il
motore
e
scendere
per
attraccare
l’amaca
e
cucinare
qualcosa.
Man
mano
che
il
vento
cresceva
trovammo
posto
in
un
edificio
che
doveva
essere
una
villa.
Per
terra
c’era
ancora
il
marmo
ma
di
porte
e
finestre
nemmeno
le
tracce.
Sui
muri
imbrattati
di
scritte
c’era
appeso
qualche
chiodo
arrugginito
che
usammo
come
appiglio
per
l’amaca.
Fatta
la
legna,
moncando,
poverino,
un
alberello
nei
dintorni,
mettemmo
su
il
riso,
cuocendolo
su
un
gustoso
soffritto
di
gamberoni
portati
sulle
spalle
sin
dalla
partenza.
Luca
ovunque
va
si
porta
dall’Italia,
compresa
nella
sua
inesauribile
scorta
di
cose
utili,
due
pentolini
che
quella
notte
si
rivelarono
una
salvezza.
Passammo
la
notte
sulle
nostre
amache.
Il
vento
persistette
fortissimo
fino
al
mattino,
senza
tregua
ed
io
nell’insonnia
m’immaginavo
gli
spiriti
dei
morti
ammazzati
dai
Khmer
Rossi
che
mi
aleggiavano
intorno
immersi
con
me
in
quel
buio
soffocante.
Le
rovine
di
Bokor
verranno
presto
rimosse,
buttate
giù
dai
bulldozer.
Al
loro
posto
sorgerà
un
Golf
Resort,
dove
ricchi
turisti
di
mezza
età
potranno
godere
del
clima
favorevole
e
della
vista
mozzafiato,
tra
una
noiosissima
partita
di
golf
e
l’altra.
E
della
storia,
dal
colonialismo
francese
alla
guerriglia
khmer
rossa,
non
rimarrà
altro
che
un
vago
ricordo,
impresso
nella
memoria
di
chi,
come
me,
ha
avuto
la
fortuna
di
visitarlo.
Pretendere
è
una
patetica
lotta
contro
l’impermanenza.
Il
Mekong
al
tramonto
si
dipinge
di
rosso,
s’infiamma.
Largo
e
possente
riflette
come
uno
specchio
i
colori
infuocati
del
cielo.
Tutto
intorno
palme
e
villaggi
di
palafitte
di
legno.
Anche
questa
canoa
è
interamente
fatta
di
legno,
bassa,
stretta
e
lunga.
Ad
un
tratto
dall’acqua
finalmente
sbuca
in
lontananza
il
dorso
di
un
delfino.
Delfini
di
acqua
dolce.
Ormai
diventati
un’attrazione
turistica
una
trentina
di
esemplari
nuotano,
fortunatamente
ancora
liberi
e
vispi,
in
questo
tratto
di
fiume.
Ve
ne
erano
migliaia
in
passato,
ma
le
dighe
cinesi
ed
il
massiccio
inquinamento
li
hanno,
negli
ultimi
anni,
decimati.
Il
popolo
khmer
sembra
rispettare
la
loro
presenza
e
per
fortuna
il
turismo,
non
ancora
invasivo,
non
fa
gola
a
nessuno
che
voglia
“sviluppare
tale
risorsa”.
In
questo
angolo
di
paradiso
ogni
cosa
su
cui
si
posa
lo
sguardo
è
un’esaltazione
dello
spirito,
un
godere
dell’anima.
Cosa
conta
veramente?
Lasciare
tutto,
lasciare
tutto.
Quando
viaggio,
in
posti
così
lontani
e
remoti,
quando
l’aria
di
un
fiume
al
tramonto
mi
soffia
sul
viso,
quando
intorno
a me
una
famigliola
piccola
ma
completa
rema
stando
in
bilico
sulla
canoa
per
andare
a
pescare
la
propria
cena,
quando
vivo
così
intensamente
la
libertà
naturale
presente
nell’atmosfera,
mi
pongo
quella
domanda:
cosa
conta
veramente?
Lasciare
tutto,
lasciare
tutto.
È la
risposta
che,
senza
pensarci
troppo
su,
do a
me
stesso.
Le
cose
a
cui
tengo
tanto,
qui,
non
mi
mancano;
le
cose
che
odio,
qui,
non
le
disprezzo.
Quello
che
reputo
indispensabile
in
realtà
non
è
tale.
Mi
sembra
di
aver
un
continuo
bisogno
di
tante
di
quelle
cose
in
realtà
così
superflue
che
ora,
qui,
mi
sento
ridicolo.
Siamo
schiavi
dei
desideri.
Rincorriamo
sogni
ed
oggetti,
vogliamo
possedere
cose
e
persone,
eliminare
le
insicurezze
e le
insoddisfazioni.
Tutti
siamo
risucchiati
da
questo
vortice
di
desideri
e
pochissimi
sanno
davvero
come
uscirne.
Quando
un
sogno
si
avvera
siamo
poi
così
felici?
Forse
per
un
attimo,
un
giorno,
un
mese,
ma
poi?
La
nostra
attenzione
si
sposta,
il
mirino
del
desiderio
punta
un
altro
obbiettivo,
e
noi
di
nuovo
ci
rimettiamo
ad
utilizzare
tutte
le
nostre
energie
per
ottenere.
Cerchiamo,
otteniamo,
e
cerchiamo
ancora.
Io
questo
lo
chiamo
vortice.
Questa
bramosia
sempre
più
frenetica,
nella
nostra
società
occidentale
modernistica,
crea
malattie
fisiche
e
mentali.
La
società
intera
si
ammala,
i
valori
si
perdono,
si
allontanano
sempre
di
più
da
quelli
naturali
biologici.
Tumori,
suicidi,
alcolismo,
criminalità,
superficialità,
ansia
e
stress
sono
i
nostri
malanni,
le
malattie
di
questa
società
così
avanzata,
così
intelligente.
Più
ti
allontani
dalla
natura,
più
impazzisci;
più
ti
allontani
da
te
stesso,
più
ti
svuoti;
più
ti
allontani
dall’amore,
più
t’incattivisci;
più
ti
allontani
dalla
vita,
più
ti
avvicini
alla
morte.
Lasciare
tutto
vuol
dire
mollare
i
desideri
ossessivi.
L’uomo
meno
ha e
meglio
vive,
questo
è
ormai
sempre
più
palese.
Perché
l’indiano
che
quasi
muore
di
fame
porta
sempre
un
sorriso
stampato
sulle
labbra
e il
milanese
con
la
sua
Mercedes
bestemmia
di
continuo
al
telefonino
mentre
è
incastrato
nel
traffico
della
tangenziale?
Perché
l’indiano,
che
indossa
solo
uno
straccio
per
coprire
le
sue
parti
intime,
non
ha
nulla
da
perdere
e
nulla
da
guadagnare.
Egli
gode
del
semplice
essere,
gioisce
della
propria
vita
e
non
si
dispera
all’idea
che
questa
finisce.
Mollare
l’attaccamento
a
cose
e
persone
è
l’unico
rimedio
a
quelle
nostre
terribili
malattie,
mollare
tutto.
Seduto
sulla
canoa
ora
il
sole
mi
appare
davanti
come
una
enorme
palla
rossa.
Non
ho
bisogno
di
altro.
Non
poteva
finire
meglio
la
mia
visita
in
questo
paese.
Con
qualche
altro
viaggiatore,
che
come
me
era
stato
invitato
a
banchettare
con
piccanti
specialità
khmer
ed a
bere
vino
di
riso,
mi
son
trovato
seduto
a
terra
in
un
grande
cerchio
umano
sullo
spiazzo
di
legno
galleggiante
della
mia
Guest
House.
I
nostri
ospitanti,
un
gruppo
di
giovani
cambogiani.
L’evento,
il
giorno
d’indipendenza.
Il
sette
gennaio
di
ventisette
anni
fa,
la
mia
età,
i
vietnamiti
invasero
la
Cambogia
ponendo
fine
al
regime
di
Pol
Pot.
“CHUL
MUI.”
con
queste
parole
i
giovani
ed
io
brindavamo
seduti
in
cerchio.
“CHUL
MUI.”
erano
le
parole
che
ogni
ragazzo,
orfano
da
almeno
un
genitore,
intonava
mentre
innalzava
il
bicchierino
straripante;
festeggiando
senza
forse
sapere
più
cosa,
senza
sentire
più
il
reale
orrore
che
fu.
Nei
loro
occhi
non
è
più
impressa
l’immagine
dei
milioni
di
cadaveri,
dei
familiari
uccisi
con
un
secco
colpo
di
canna
di
bambù
alla
nuca,
della
dolorosa
separazione
dalle
persone
amate,
della
paura,
del
terrore.
Brindano,
si
ubriacano
senza
tener
bene
chiaro
del
perché,
e
chissà,
forse
è
meglio
così.
Boom
Boom,
un
ragazzo
perfettamente
rotondo,
col
pancione
ed
il
viso
che
sembravano
disegnati
con
un
compasso,
versava
di
continuo
nei
bicchierini
da
cicchetto
un
liquido
chiaro
che
scivolando
nella
trachea
andava
ad
incendiare
ogni
cellula
ed
organo
dell’intero
apparato
digestivo.
Il
Sar
Soa,
fierezza
nazionale,
che
loro
chiamano
“vino
di
riso”,
altro
non
è
che
fortissimo
sakè
dall’orribile
sapore
di
plastica
misto
gomma.
Era
chiara
nelle
espressioni
di
tutti
i
miei
compagni
occidentali,
l’ansia
e la
speranza
che
quel
bottiglione
da
due
litri,
che
Boom
Boom
continuava
ad
inclinare
sui
bicchierini,
finisse
al
più
presto.
Il
desiderio
di
ringraziare,
alzarsi
e
congedarsi
di
corsa
era
fortissimo.
Boom
Boom
continuava
a
versare.
Ad
ognuno
di
noi
toccarono
cinque
o
sei
di
quei
bicchierini.
“Guarda,
è
quasi
finita”
mi
sussurrò
entusiasta
un
alto
giovane
tedesco
dai
capelli
lunghi;
queste
parole
famose
divennero
presto
le
ultime.
Dal
nulla
spuntò
un
giovane
abbracciando
stretto,
con
aria
soddisfatta,
un
altro
bottiglione
pieno
di
quel
liquido
di
gomma.
I
bicchierini
presto
divennero
dieci,
undici,
dodici;
il
sapore
iniziava
ormai
a
perdere
le
sue
orribili
proprietà
e le
sensazioni
fluttuanti
sempre
più
piacevoli.
Al
terzo
bottiglione,
anche
questo
sbucato
dal
nulla,
eravamo
tutti
fratelli.
Ogni
bevuta
era
un
brindisi,
ogni
battuta
una
ricca
risata
e
ogni
mezzora
era
il
momento
per
vedere
qualcuno
alzarsi
per
andare
a
vomitare.
Osservare
queste
persone
dai
costumi,
la
lingua
e i
lineamenti
così
diversi
e
vederli
sbronzi
a
comportarsi
come
qualunque
persona
presa
dai
fumi
dell’alcol,
gialla,
nera,
rossa
o
bianca
che
sia,
mi
faceva
sentire
così
unito:
io a
loro,
loro
a
me,
loro
a
noi
e
noi
a
tutti.
Quando
le
sciagure
succedono
negli
altri
paesi,
agli
altri,
noi
le
sentiamo
lontane,
così
fuori
da
noi.
Negli
schermi
delle
televisioni,
al
telegiornale
o
nei
dossier,
vediamo
facce,
diverse
dalle
nostre,
soffrire.
Visi
scuri
o
con
gli
occhi
“a
mandorla”
e la
loro
sofferenza
sembra
non
appartenerci,
non
ci
tocca,
non
siamo
noi.
Ma
quelli
siamo
noi,
loro
sono
noi.
Amiamo,
soffriamo,
ci
imbarazziamo
e ci
ubriachiamo
tutti
nella
stessa
maniera.
La
sofferenza
non
è
degli
altri,
la
sofferenza
è
anche
nostra
e
non
deve
entrarci
in
casa
per
capire
che
è
troppo
tardi.
La
sofferenza
di
chiunque
deve,
deve
entrare
nei
cuori
di
tutti,
deve
penetrare
i
pensieri
e la
domanda
nascere
spontanea
e
forte:
cosa
posso
fare
per
eliminarla?
Le
azioni,
piccole
ma
potenti,
che
ognuno
di
noi
può
fare
sono
infinite.
Spesso
richiedono
ciò
che
più
è
fastidioso,
ossia
il
sacrificio,
ma è
solo
con
un
po’
di
rinuncia
che
si
può
evitare
la
rovina.
Boicottaggio,
volontariato,
divulgazione
di
messaggi
di
pace
sono
solo
una
briciola
della
grande
pagnotta
che
un
giorno
potrà
sfamare
il
mondo
e
assorbire
il
grande
desiderio
di
odio.
Dopo
Phnom
Penh
ho
risalito
il
paese
per
visitare
ciò
che
assolutamente,
in
Cambogia,
va
visitato;
o
almeno
così
dicono.
Dovevo
rimanere
tre
giorni.
Ho
resistito
uno
e
mezzo.
Dal
mio
diario:
“C’é
chi
dice
che
sia
una
delle
sette
meraviglie
del
modo,
c’é
chi
sente
brividi
dietro
la
schiena
alla
prima
vista,
c’é
chi
passa
mesi
a
osservarli
e a
studiarli,
io,
credo
di
essere
arrivato
nella
stagione
più
sbagliata
dell’anno
per
visitarli
ma
una
cosa
é
certa,
il
loro
imponente
intreccio
con
la
natura
rappresenta
forse
l’unico
caso
di
equilibrio
tra
essa
e
l’uomo,
legno
contro
roccia,
radici
contro
muri,
rami
contro
mattoni,
i
Templi
di
Angkor
sono
maestosi,
sono
sperduti,
sono
belli,
sono
tanti
e
sono
ricoperti
di
turisti”.
“È
l’ora
del
tramonto.
Sono
seduto
ai
piedi
dell’imponenza
e
maestosità
di
Angkor
Wat.
I
turisti
finalmente
a
grandi
folle
si
avviano
verso
l’uscita
ed
il
silenzio
pian
piano
riprende
il
suo
spazio.
Grigio
e
beige,
in
blocchi,
scheggiato,
rovinato,
conservato,
questo
tempio,
se
lo
si
osserva
in
silenzio,
risveglia
romantici
sentimenti.
I
cinque
giganteschi
coni
artisticamente
zigrinati
puntano
dritti
al
cielo
indicando
la
via
divina,
ispirandone
l’immensità.
Grazie
Angkor
Wat”.
“La
Cambogia
è
piatta
che
più
piatta
non
si
può.
Lunghissime
strade,
raramente
asfaltate,
scorrono
lungo
il
paese
costeggiate
da
palafitte
di
legno
e
paglia.
Le
ore
a
guardar
fuori
dal
finestrino
di
un
autobus
e
l’affascinante
spettacolo
non
cambia
mai:
bambini,
polli,
pozze,
capanne,
risaie,
bufali,
biciclette
e
tanta,
tanta
splendida
vita
familiare”.