N. 19 - Luglio 2009
(L)
ASIA, BUDDHA E un reporter senza lavoro
PARTE III - a caccia del bombardiere pentito
di Gianrigo Marletta
Da
un
documentario
televisivo
apprendo
una
storia
simile
a
quelle
delle
favole,
in
cui
l’uomo
cattivo,
pentito,
diventa
buono
e
tenta
di
salvare
il
maggior
numero
di
vite
possibili.
Quest’uomo,
per
me
senza
nome,
era
un
pilota di
B-52
dell’aviazione
statunitense
durante
la
guerra
contro
il
Vietnam.
Partecipò
a
gran
parte
delle
3.000
missioni
(segrete)
che
presero
il
nome
di
Operation
Menù.
Questa
operazione
durò
circa
quattro mesi
con
lo
scopo
di
distruggere
ogni
presenza
Vietcong
intorno
al
confine
Vietnam/Cambogia.
Furono
lanciate
così 500.000
tonnellate
di
esplosivo
che
uccisero
più
di
700.000
persone,
tutte
in
territorio
cambogiano.
Finita
la
guerra,
probabilmente
divorato
dal
rimorso,
il
nostro
pilota
decise
di
raggruppare
i
suoi
capitali
e di
investirli
in
Cambogia,
precisamente
per
la
costruzione
di
un
centro
di
cura
per
i
mutilati.
Vive
così
da
anni
circondato
da
coloro ai
quali lui
stesso
forse,
un
giorno, causò
la rovina.
Capì
poi
che
il
suo
contributo
non
era
abbastanza,
costruire
e
dare
le
protesi
metteva
sì
le
persone
su
due
gambe,
ma
non
metteva
poi
le
due
gambe
in
un
posto
di
lavoro.
I
mutilati,
infatti,
in
questo
paese,
sono
spesso
emarginati
ed
impossibilitati
a
trovare
o a
continuare
il
proprio
mestiere.
Costruì
dunque
una
piccola
fabbrica
tessile,
in
cui
i
pazienti
intrecciano
scialli
e
lenzuola vendendole
successivamente
a chi
le
commercia.
Questa
storia
mi
affascinava
e
seppure
“rubata”
a un
Tele
Reporter,
mi
sembrava
d’obbligo
scriverla
su
carta.
La
Cambogia
é
piatta,
completamente
piatta.
É
arida
nella
stagione
secca
e
umida
e
paludosa
in
quella
delle
piogge.
Offre
paesaggi
e
colori
spettacolari
ai
viaggiatori,
grande
fertilità
ai
coltivatori,
ma
grandi
facilità,
in
passato,
per
coloro
che
minarono
quasi
un
terzo
del
paese
ed
enormi
pericoli,
oggi,
per
chi
in
quella
infinita
pianura
ci
si
addentra.
La
Cambogia
è
tra
i
paesi
più
minati
del
mondo.
Ma
tutte
queste
mine
chi
le
ha
messe?
Viene
spontaneo
domandarsi.
La
risposta
implica
una
profonda
ricerca
ed
una
buona
conoscenza
della
storia
di
questo
paese.
Tentando
comunque
di
riassumere
brevemente la
cronologia
di tre
decenni si
può
tracciare
così la
sequenza dei
fatti:
Durante
la
guerra
tra
U.S.A.
e
Vietnam,
la
Cambogia,
neutra,
fu
spesso
utilizzata
dai
Vietcong
come
nascondiglio
e
canale
di passaggio
da
una
regione
all’altra
del
Vietnam.
Un
altissimo
numero
di
mine
venne
dunque
depositato
in
quegli
anni
dalle
forze
comuniste
in
fuga.
Gli
americani
a
caccia
di
Vietcong
aggiunsero
un
loro
modesto
carico.
I
Khmer
Rossi,
mezzo
decennio
dopo
la
fine
della
guerra
americana in
Vietnam, contornarono
di mine il
confine
del
piccolo
territorio
al
nord
in
cui si
rintanarono
per ripararsi
dai
vietnamiti
venuti
a
liberare
il
paese.
Allo
stesso
tempo
gli
stessi
vietnamiti
per
colpire
i
Khmer
Rossi
sotterrarono
le
loro.
Questi
ultimi
tentarono,
con
la
riuscita
di
qualcuno, di
scappare
in
Tailandia.
La
Tailandia, per
evitarne
la
migrazione,
minò il
confine
tra
i
due
paesi.
I
vietnamiti
lasciarono
il
paese
ormai
liberato in
mano
al
nuovo
governo
cambogiano
il
quale
minò
nuovamente
il
confine
per
non
far
tornare
quei
Khmer
Rossi
che
si erano
rifugiati
in
Tailandia.
Il
risultato?
Sei
milioni
di
mine,
più
di
trentotto
modelli
diversi, fabbricate
in
oltre nove
paesi, rimaste
ancora
inesplose.
La
scoperta
del
passato
é
assai
coinvolgente e
cercando
il
mio
pilota m’imbatto
in
un’altra storia
interessante,
un’altra
vita
affascinante,
un
altro
destino
incredibile.
Aki
Ra,
un
ragazzo
alto
poco
più
di
un
metro
e
mezzo,
nacque
nel 1973
nella
Cambogia
del
nord.
Due
anni
dopo,
con
l’invasione
dei
Khmer
Rossi,
gli
furono
uccisi
entrambi
i
genitori
e
lui,
piccolissimo,
fu spedito
in
uno
di
quei
campi
'educativi' in
cui
insegnavano
le
uniche
due
cose
che
ogni
Khmer, secondo Pol
Pot, doveva
saper
fare:
amare
il
partito
ed
uccidere
i
nemici.
La
prima
arma
gli
fu
consegnata
quando
compì
dieci
anni e
da
quello, fino
al
tanto
sofferto
giorno
in
cui
la
posò, che arrivò nel
1998,
non
se
ne
separò
mai.
Inizialmente
combatté
al
fianco dei
componenti
della
sua
unica
famiglia,
i Khmer
Rossi.
Catturato
successivamente dai
Vietnamiti fu posto
davanti
ad
una
scelta: la
morte
o
l’arruolamento
nel
loro
esercito.
Si
trovò
dunque
molto
presto
a
sparare
contro
i
suoi
“fratelli” unito
a
coloro
che
lui
stesso,
ormai, vedeva
come
liberatori. Quando
questi
“invasori
buoni”
tornarono
in
Vietnam
lasciando
il
posto
al
nuovo
governo
cambogiano
e
successivamente
al
corpo
di
pace
delle Nazioni
Unite, Aki
Ra si
arruolò
nel
nuovo
esercito.
Fu
poi chiamato
dall’ONU
in
aiuto per
la bonificazione
delle
aree
minate.
Dal
‘98
dunque, data
in
cui
morì Pol
Pot,
ad
oggi, Aki
Ra,
prima
con
la
divisa
dell’esercito
ed
ora
senza
uniforme
né
gradi,
ha
lavorato
e
scavato
incessantemente
estraendo
dal
suolo
fino
a
trecento
mine
al
giorno.
Oggi
quest’uomo,
privo
di
un’educazione
ma
dal
cuore
molto
grande,
ha
creato,
sotto
un
tendone
di
stoffa
sorretto
da
rami
e
pali
di
bambù,
un
museo
chiamato
Landmine Museum
in
cui
sono
raggruppate
e
suddivise
per
tipo,
centinaia
di
migliaia
di
mine,
bombe,
missili
e
proiettili
inesplosi,
perfettamente intatti,
esposti insieme
ad
un
grandissimo
numero
di
foto
e
documenti.
Per
ogni turista
che
lascia
un’offerta
di
due
dollari, lui
riesce, coprendo
le
spese
dei
materiali
e un
misero
stipendio
ad uno
staff
di
aiutanti,
a
estrarre
dal
suolo
circa
tre
mine.
Questo
patriota
coraggioso
non
sapeva
nulla del mio
pilota,
mi
lasciò
pieno
di
utili
informazioni sugli
ordigni
esplosivi
ma
vuoto
d’indicazioni
su
come
rintracciare
il
bombardiere
pentito.
Alla
Handicap
International
Center,
una
delle
organizzazioni
mondiali
che
si
occupa
di
tutte
le
malformazioni
genetiche
e
accidentali
che
impattano
sugli
arti,
mi
arriva
la
conferma
che
nessun
ospedale
qui
in
Cambogia
per
le
persone
adulte,
a
parte
il
Centro
Chirurgico
Ilaria
Alpi
a Batambang,
é
gratuito.
Neanche
per
i
poveri
calpestatori
di
mine.
Un
intervento
chirurgico
va
dai
75
ai
150
dollari
e,
sempre
secondo
i
dati
ufficiali
della
Handicap
International,
il
costo
di
una
protesi
(va
ricordato
che
queste,
come
un
paio
di
scarpe,
vanno
consumandosi
e
dunque
rimpiazzate
ogni
due
anni
e
per
un
bambino
in
crescita
ogni
sei
mesi)
va
dai
120
dollari
per
le
amputazioni
dal
ginocchio
in
giù
ai
180
dollari
per
quelle
dal
ginocchio
in
su.
Lo
stipendio
medio
di
un
lavoratore
Khmer
é di
40
dollari
al
mese.
“Noi
applichiamo
gratuitamente
le
protesi
e
assistiamo
i
pazienti
con
tutta
la
fisioterapia
necessaria” -
spiega Eng
Saloth,
Manager
del
reparto
d’informazione
della
Handicap International -
“ma
le
prime
cure
e le
amputazioni
sono
fatte
negli
ospedali
e
quelle
devono
pagarle
i
pazienti”.
A
primo
impatto
mi
viene
da
sospettare
di
questa
Handicap
International
- come
ormai
sospetto
di
tutte
le
grandi
organizzazioni
umanitarie
internazionali
-
perché
potrebbe
essere
una
di
quelle
che
“spendono
l’80%
delle
donazioni
in
spese
amministrative”
come
mi
avvertì l’infermiera
volontaria
per Emergency,
durante
la
mia
visita
a
Batambang.
Il
mio
sospetto,
rafforzato
dalla
bella
presenza
dell’ufficio
in
cui
sono
accolti
i
visitatori,
si
manifestò
presto
sottoforma
di
domanda:
“Quanto
spendete
voi
in
amministrazione?”
Fui
parzialmente
smentito.
Eng
Saloth
non
mi
ha
risposto,
mi
ha
fatto
direttamente
vedere
con
i
miei
occhi.
Nessun
locale
é
raffreddato
da
erogatori
d’aria
condizionata,
lo
staff
lavora
in
uffici
e
ambienti
molto
modesti,
il
cuoco
é
uno
solo
e
cucina
per
tutti
e
l’unico
autista
é
anche
colui
che
sbriga
tutte
le
commissioni.
Gli
stipendi
sono
bassi,
i
beni
non
sperperati
e a
me
non
resta
che
sperare
che
lo
stesso
avvenga
negli
uffici
amministrativi
in
Belgio,
Francia
e
Stati
Uniti.
Il
centro
della
Handicap
International
di Siem
Riep
é
comunque
di
vitale
aiuto
per
il
sostentamento
della
popolazione
locale.
Ogni
mese
al
suo
interno
vengono
riabilitate
circa
230
persone,
fornite
dalle
75
alle
85
protesi
e
spedite
circa
280
visite
a
domicilio
ai
pazienti
immobilizzati.
Anche
da
questo
istituto
esco
riempito
di
utili
nozioni,
ma
nessuno
ne
ha
mai
sentito
parlare,
quindi
trovare
l’americano
pilota
diventa
quasi
un’utopia.
Prendendo
però
spunto
dal
suo
lavoro
decido
di
scoprire
quante
associazioni
che
forniscono
posti
di
lavoro
a
questi
mutilati
esistono.
Vedendone
tantissimi
per
le
strade
a
chiedere
l’elemosina,
mi
viene
il
sospetto
che
non
ve
ne
siano
molti.
La
storia
di
Chou
Phon,
45
anni,
ex
soldato
“Khmer
Rosso”
accecato
da
un
razzo
nel
1982
é
davvero
una
rarità.
Egli
parla
con
fierezza
in
un’intervista
al
The
Cambodia
Daily: “non
sono
malato,
perché
dovrei
chiedere
l’elemosina?”.
Chau
Phon
riesce
ancora
a
fare
bene
il
suo
lavoro
da
contadino
“ed
ora”
–
racconta -
“le
cose,
invece
di
vederle
con
gli
occhi,
le
sento
con
le
orecchie”.
La
moglie
di
44
anni, Sek
Pin,
anche
lei
carnefice
tra
i
militanti
Khmer
Rouge
la
quale
ha
perso
la
gamba
sinistra
su
una
mina
nell’83
dice:
“ho
solo
una
gamba,
ma
posso
benissimo
badare
alla
mia
famiglia.
Sono
determinata
a
non
abbassarmi
mai
a
chiedere
l’elemosina”.
Certo
é
che
questa
coppia,
attiva
in
brutali
assassinii
in
passato
ed
ora
semplici
monchi
che
inducono
molta
pena,
rimane
tra
quelle
più
fortunate,
con
un
tetto
sotto
cui
ripararsi
ma
soprattutto
con
un
campo,
se
pur
modesto,
da
coltivare.
“Sulla
strada”
-
infine
dicono -
“si
guadagnano
due
dollari
e
mezzo
al
giorno
che
sono
tanti.
Chi
é
che
preferirebbe,
come
facciamo
noi,
a
lavorare
per
la
metà
di
quella
somma?”.
Molti
cartelli
affissi
qua
e là
per
la
cittadina
di
Siem
Reap
pubblicizzano
un
concerto
che
avviene
tutti
i
sabati
alle
19:15
nell’ospedale
della
Kantha
Bopha
Foundation,
chiamato
da
tutti
“l’ospedale
per
bambini”.
Speranzoso
di
trovare
lì
qualche
utile
informazione
per
rintracciare
il
bombardiere
americano pentito, decido di
andare
a
vedere.
Alle
19:10,
arrivando con
la
mia
bicicletta,
si
aprì
dinnanzi
a me
un
edificio
alto
ed
imponente
fatto di
mattoni
rossi.
Una
gigantesca testa
di
Buddha,
copia
di
una
delle
statue presenti
nella
vicina
Angkor Wat,
veglia
su
tutto
l’ospedale incastrata in
un
gazebo
appoggiato
sul tetto
dell’edificio
principale.
La
folla,
che
contava
diverse
centinaia
di
persone,
tutte
occidentali,
entrava come
un
serpentone
nell’auditorium
sorprendentemente
di
un
lusso
straordinario.
Le
pareti
ed
il
palco
in
tek,
l’aria
condizionata
gelida,
le
poltrone
imbottite,
il
sistema
d’illuminazione
futuristico
e
l’impianto video
ed
acustico
modernissimo,
a
primo
impatto
mi
fecero visualizzare
in
concreto
quell’80
%
di
“spese
amministrative”
di
cui
mi
parlò
l'infermiera
di Emergency.
Il
pubblico,
che
riempiva
ogni
singola
poltrona,
sembrava
assai
incuriosito
quando,
accomodandosi,
notava
che seduto
sul
palco
vi
era un
signore
basso
e grassottello,
con
occhiali
spessissimi,
abbracciato
a un
violoncello.
Per
le 19:15
eravamo
tutti
seduti
e in
silenzio.
Fu
in
quel
momento
che
l’uomo
dall’aspetto
buffo
iniziò
a
suonare
un
pezzo
di
Bach.
Le
aspettative
di
ognuno dovevano
essere diversissime.
Dai
cartelloni
pubblicitari
si
poteva
immaginare
che la
musica sarebbe
stata
suonata
da
un’orchestrina
di
bambini
o
che
i
piccoli
pazienti,
uno
ad
uno,
si
sarebbero
esibiti
con
qualche
canzoncina.
Invece
al
centro
dell’attenzione
di
quel
vasto
pubblico
c’era
un
uomo,
per
giunta in
età
avanzata!
Finito
il
pezzo
e
l’applauso
che
lo
seguì,
con
quattro
battute
di
spirito,
seppure
su argomenti
profondissimi, fece
scoppiare
quattro
risate
ingenue
e spontanee
da
parte
di
un
pubblico
ormai
attentissimo.
Fu
una
velocissima
ora
e
mezza.
Il
dottor
Beat
Richner,
questo
il
suo
nome,
fondatore
del
Kantha
Bopha
Foundation,
alternando
musica,
parole
ed
immagini
regala
così,
tutti
i
sabati
sera,
forti emozioni
e
grasse
risate
alle
migliaia
di
persone
che
curiose
vanno
ai
suoi
“concerti”
nell’ospedale
per
bambini.
Da
pediatra
alle
prime
armi,
lavorò
in
un piccolo
ospedale
pediatrico nella
capitale
Phnom
Penh
dal
1974 fino
al
tragico momento
di
quel
‘75
in
cui, con
l’arrivo
dei
Khmer
Rossi,
dovette
fuggire,
lasciando
alla
morte
tutti
i
suoi
colleghi
ed
amici.
Nel
1991 fu
invitato
dall’appena
rimpatriato
Re Sihanouk
per
ripristinare
quella
parte
dell’intera
inesistente
istituzione
medica,
dedicata
ai
bambini.
Fu
così
che
in
quello
stesso
anno
fu
ricostruito
l’ospedale
di
Kantha
Bopha
I, il
centro in
cui
aveva
lavorato
sedici
anni
prima, disponendo
ora
di 126
posti
letto.
Nel
1996
fu
fondato
sempre
a
Phnom Pen,
il Kantha
Bopha
II e
niente
poco
di
meno
che
all’interno
del
palazzo
reale.
Questo
centro,
il
cui
spazio
fu
donato
nuovamente
dal
Re, contiene
210
letti.
Infine
nel
1999,
nell’area
ben
più
critica
e
paludosa
di Siem
Reap,
fu
fondato lo
Jayavarman
VII
Hospital con
i
suoi
555
posti
letto.
L’impegno
profuso
negli
anni
successivi
ha
visto,
oltre
all’espansione
con nuovi
reparti
dello
stesso Jayavarman
VII
Hospital, anche
la
nascita
di
un
Centro
Conferenze
e di
Formazione
per
la
divulgazione
della
“filosofia
di Kantha
Bopha”.
In
quel
centro,
io
insieme
al
pubblico,
eravamo
tutti
seduti,
ammutoliti
e
concentrati
nell’ascolto.
Presentando
un
quadro
generale,
Beat
Richne,
parla
della
situazione
sanitaria
in
Cambogia
definendola
catastrofica.
Racconta
delle
nuove
vittorie
tecnologiche
che
hanno
ridotto
drasticamente
il
numero
d’infetti
da
AIDS: “con
i
nuovi
farmaci
riusciamo
ora
ad
evitare
il
passaggio
del
virus
dell’HIV
dalla
madre al
figlio
nascituro”.
Spiega
come
solo
nella
giornata
di
oggi,
di
questo
sabato
17
febbraio
2007,
ci
sono
state
presso
il
suo
ospedale
cinquantaquattro
nascite,
di
cui
la
maggior
parte
affette
da
malattie
e
deformazioni.
Ripetendo
spesso
la
frase: ”la
situazione
sanitaria
in
Cambogia
é
catastrofica” -
elenca, sempre
nella
sua
maniera unica,
profonda
e
spiritosa, le
tre
ragioni per
cui, secondo
lui,
tale
situazione
catastrofica
sia
presente:
la
guerra,
la
“negativa
attitudine”
da
parte
dei
paesi
occidentali
e la
corruzione.
La
guerra
in
questo
paese,
e
non
teme
di
ricordarlo,
fu
portata
dall’Occidente.
“La
guerra”
- insiste
- ”ha portato
la tubercolosi,
conseguenza
di
quei
decenni di
miseria
non
ancora
finiti
e che
negli
anni
ha
continuato
a
spargersi,
trovando
(il
virus)
diverse
forme
per
adeguarsi
ai
diversi
sistemi
immunitari” -
e
poi
definisce questa
malattia:
“killer
numero
uno”.
Passò poi
alla
sua
teoria
su
“l’attitudine
negativa”
da
parte
dei
paesi
occidentali.
Durante
un
filmato
che
raccoglie
immagini
riprese
nei
tre
ospedali
della
Kantha
Bopha
Foundation,
la
sua
voce
al
microfono
spiegava
che,
di
tutti
i
bambini
presenti
in
quei
fotogrammi e che
davanti
agli
occhi
dell’intero
auditorium
entravano
in
shock
e morivano,
nessuno
nei
paesi
così
detti
evoluti
ne
ha
parlato.
Questo
perché
il
mondo
era
troppo
impegnato
ad
avvertire
le
proprie popolazioni
dell’imminente
pericolo con
cui il
nuovo
virus SARS
in
quegli
anni
stava
contaminando
l’Oriente.
Spiegò
anche
che
in
Cambogia
non
ci
fu
un
singolo
caso
di SARS, ma
che nel
2006 dodicimila
bambini
sono
morti
affetti
dalla
DENGUE.
Il
dottor
Beat Richner,
sempre
con il
suo
spirito
energico
e
divertente, raccontò
alla
sua
platea
di
come, nelle
ultime
visite
da
parte
di
alcune delegazioni
di
certi
paesi
europei, fu
accusato
di
aver
adottato
degli
standard
troppo
alti
rispetto
al basso
livello
economico
del
paese.
“Questo” -
continua
-
“l’idea
che
i
paesi
poveri
debbano
avere
una
povera
istituzione
medica,
é
l’idea
che
ha
ucciso
milioni
di
persone
e
che
tutt’oggi
continua
a
fare un
altissimo
numero
morti.
Per
evitare
il contagio
dell’AIDS
o
dell’Epatite da
un
donatore
di
sangue a
un
paziente,
bisogna
fare
delle
analisi
adeguate,
moderne
e
costose, seguire
dunque
gli
standard
europei.
Per
vedere
le
emorragie
nel
cranio
di
un
bambino
in
Cambogia
ci
vogliono
gli
stessi
strumenti
per
vedere
l’emorragia
nel
cranio
di
un
bambino
in
Europa”. Con
altri
esempi
del
genere
fece
davvero
riflettere
su
questa
sua
idea
della
negativa
attitudine
da
parte
delle
delegazioni
dei
paesi
sviluppati.
“La
corruzione”
-
spiega
infine
- “é
un’altra
tra
i
principali
killer”.
In
un paese
in
cui
le
cure
gratuite avvengono
solo
in pochissimi
ospedali
fondati
da
organizzazioni
internazionali,
quali
Emergency
e Kantha
Bopha,
la
corruzione
decide
la
sorte
delle
persone.
“Chi
non
ha
il
contante
muore” -
con
questa
fredda
espressione
mise
tutti
davanti
a
tal
crudele
realtà. Nel
suo
ospedale,
e
solo
lì,
la
corruzione
fu
abolita
dall’inizio.
Questa
vittoria
fu
ottenuta
grazie
ai
buoni
salari
che
l’organizzazione
distribuisce al
personale
medico,
che
quindi
non
deve rivolgersi ai
pazienti
per
ulteriori
“paghette”.
Concluse
la
serata
con
una
formula
simpatica,
chiedendo
agli
spettatori
più
giovani donazioni
di sangue,
a
quelli
più
anziani
donazioni
di
soldi
e a
quelli
in
mezzo
una
donazione
di
tutti
e
due.
Forse
é
proprio
vero
che
quando
si
cerca
una
cosa
se
ne
trovano
altre
cento.
Il
pilota
del
B-52
che
da
killer
diventò
salvatore
non
sono
riuscito
a
trovarlo,
in
compenso
ho
scovato
queste
tre
storie
che
mi
auguro
facciano
riflettere
almeno
per
un
istante.
Sono
sdraiato
su
un
divanetto
appoggiato
sulla
terrazza
affacciata
sul
lago
Boeng
Kak.
Il
suono
delle
piccole
onde
che
s’infrangono
contro
il
bordo
della
balconata
mi
culla
e la
vista
delle
stelle,
che
invadono
l’intero
mio
campo
visivo,
rendono
l’ebbrezza
di
natura
ancora
più
inebriante.
Mi
viene
da
ringraziare.
Dire
grazie
a
quel
qualcosa
che
rende
vero
tutto
questo,
che
rende
me
testimone
di
tanto
splendore.
Sono
grato
e mi
sento
fortunato.
Questa
guest
house
è
per
me,
per
i
miei
gusti,
perfetta.
I
lumini
a
candela
illuminano
i
tavoli
bassi
disposti
lungo
la
terrazza.
I
divanetti,
di
un
legno
leggero
e
alti
qualche
centimetro,
sono
l’espressione
della
comodità.
La
musica
è
ora
di
quelle
rilassanti
a
tratti
elettronica
a
tratti
indiana.
Gli
alberelli
sparsi
qua
e là
di
giorno
sfoggiano
il
rosso
acceso
dei
tanti
fiori
che
li
ricoprono,
di
notte
invece
si
illuminano
con
le
centinaia
di
lucine
colorate
che
in
occidente
indicherebbero
l’arrivo
del
natale.
L’atmosfera
è
bella.
I
pochi
turisti
che
alloggiano
qui,
nella
Lake
Side Guest
House,
passano
qui
gran
parte
del
loro
tempo.
Molti
viaggiatori
solitari,
quasi
tutti
anglosassoni,
alcune
coppie
e
qualche
ragazzo
cambogiano,
adoratore
delle
chiacchierate
fatte
di
luoghi
comuni.
Io
tendo
sempre
di
più
a
chiudermi
in
me
stesso.
Le
conversazioni
tra
viaggiatori
ormai
mi
danno
la
nausea.
Si
inizia
sempre
alla
stessa
maniera:
con
un
background
fatto
di
domande
sulla
provenienza,
nazionalità
ed
intenzioni
sui
futuri
spostamenti.
Ognuno
con
la
propria
storia
da
raccontare
e
nessuno
col
vero
interesse
su
ciò
che
l’altro
ha
da
dire.
Discorsi
vuoti
sul
prezzo
di
biglietti,
trasporti,
vestiti
e
souvenir.
Se
poi
le
“energie”
s’intrecciano
in
maniera
positiva
ed
entrambe
le
parti
rimangono
colpite,
ecco
che
si
scambiano
anche
gli
indirizzi
e-mail,
indirizzi
che
inevitabilmente
poco
dopo
andranno
a
finire
nel
dimenticatoio
di
un’anonima
pagina
di
un
quadernetto
da
viaggio.
Poi
mi
pongo
una
domanda
esistenziale:
se
le
sensazioni
che
ognuno
prova
viaggiando
sono
così
eternamente
individuali
eppure
tanto
identiche
per
moltissimi,
e i
metri
di
giudizio
incredibilmente
comuni
a
tanti,
addirittura
da
essere
raccolti
in
libri-guida
come
una
Lonely
Planet,
perché
vengono
(le
persone)
in
questi
posti
alla
ricerca
di
qualcosa
di
diverso?
Perché
seguo
anch’io
questo
modello
di
ricercatore
individuale
appartenente
ad
un
branco?
Alle
persone
qui
intorno
sembrano
piacere
le
stesse
cose
che
piacciono
a
me,
seguiamo
lo
stesso
percorso
geografico,
amiamo
le
stesse
stranezze
e
diversità,
eppure
io
mi
sento
diverso
da
loro
e
non
voglio
immischiarmi.
Sento
di
dover
giustificare,
soprattutto
a me
stesso,
la
mia
presenza
qui
e la
scusa
che
mi
viene
in
mente
è
che…
io
sono
qui
per
raccontare.
Se
ora
facessi
un
buco
a
terra,
scavando
oltre
il
centro
del
pianeta,
sbucherei
certamente
molto
vicino
all’Italia.
Sono
dall’altra
parte
del
mondo.
E da
qui
voglio
raccontare,
nella
speranza
di
accendere
un
barlume
di
curiosità
nella
mente
di
qualcuno.
E
che
questo
qualcuno
possa
andare
nell’armadio
a
cercare
una
sacca,
armarsi
di
passaporto
e
spirito
di
avventura
e
venire
lui
stesso
a
sedersi
qui,
a
guardare
queste
stelle
ed a
parlare
con
questi
indigeni.
Viaggiare
è
bello,
muoversi,
cambiare,
provare,
rischiare.
Nuovi
odori,
nuovi
sapori,
nuove
lingue,
nuove
visioni,
nuovi
orizzonti.
Tutto
è
nuovo.