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N. 18 - Giugno 2009 (XLIX)

ASIA, BUDDHA E UN REPORTER SENZA LAVORO
PARTE II - SULLE TRACCE DEI KHMEr

di Gianrigo Marletta

 

Questo viaggio è iniziato leggero. Sono partito con una borsa nera con dentro solo un paio di pantaloni di cotone e quattro magliette. Qui a Bangkok ho comprato tutto il necessario.
 

Molti viaggiatori che iniziano il loro viaggio asiatico a Bangkok lo fanno qui, a Kao San Road. Questa strada lunga poco più di cinquecento metri rappresenta il covo d’inizio per gli “avventurieri”. C’è un continuo andare e venire, giorno e notte, di capelloni, rasta, santoni, giovani, signori di mezz’età, ragazze bellissime, viaggiatori e viaggiatrici solitarie e tutti con lo zaino in spalla oppure momentaneamente appoggiato in qualche guesthouse da cinque dollari a notte.

 

Una strada, una semplice via che collega due arterie più grandi e trafficate, entrata per qualche strana ragione nella storia di Bangkok come punto d’incontro, d’interesse e di svago per migliaia di viaggiatori. Mezzo chilometro di caos, via vai, luci, suoni e odori che attraggono e che affascinano ma che allo stesso tempo spaventano e che a me, ora, a distanza di anni di brevi soggiorni nelle stanzette putride delle centinaia di guest house che ne delimitano i confini, danno un senso quasi di fastidio, obbligandomi a rifugiarmi in altre parti della città assai più silenziose e meno turistiche.


Tre sono le attività principali a Kao San Road. La prima è lo shopping: orecchini, bracciali, amache, vestiti, tesserini falsi, incensi e così via vengono esposti giorno e notte sulle bancarelle lungo i marciapiedi. Segue la culinaria con infiniti locali e localini incastrati tra un negozietto e l’altro che offrono cibi e bevande thai oltre che a pietanze occidentali. Infine, qui a Kao San, ci si programma il viaggio. Agenzie di viaggio accampate in baracche strette, calde ed umide, con una ragazza dietro una scrivania piena di scartoffie ed un telefono, sono il luogo perfetto per avere qualsiasi informazione necessaria per un viaggio, più o meno avventuroso, in qualsiasi luogo del Sudest Asiatico. Venditori ambulanti vendono guide di viaggio a colori, fotocopiate da quelle originali costosissime.


Qui a Kao San Road ho comprato quel poco necessario di vestiti, un’amaca, un paio di Ray Ban falsi da tre dollari ed una bomboletta di repellente per zanzare. Il giusto necessario per un viaggio verso l’ignoto dalla durata ignota.

“Cambodia, Cambodia!” urlava l’uomo che camminava lungo la via seguito da un branco di giovani con pesantissimi zaini sulle spalle. L’uomo andava verso il Bus.


La mia sveglia è suonata verso le sette di stamattina. Nell’insonnia di stanotte avevo già preparato tutto. Una rapida colazione, una visitina all’agenzia di viaggio dove ho acquistato il biglietto ed eccomi a seguire anch’io l’uomo che urlava: “Cambodia, Cambodia!”


Ora Bangkok scorre veloce dal mio finestrino. Un ammasso di cemento e automobili è l’opprimente quadro che mi appare davanti. Il cielo è ricoperto da una nebbiolina grigia e fitta creata dallo smog. Grattacieli e baracche, grattacieli e baracche: Bangkok- Pnom Penh, il viaggio inizia.


Attraversato il confine si nota subito la differenza. Si lascia una Tailandia tutta fighettina, cementata e moderna e si trova una vera e propria … “Cambogia!”


I motorini, tutti scassati, ronzano a centinaia in un caos che solo i loro guidatori sanno decifrare per non scontrarsi l’un con l’altro. L’addetto che mi ha aiutato con le pratiche di confine mi ha accompagnato, col suo motorino (scassato), ad un “ufficio di cambio valute”. Questo consiste in un tavolo di legno posato sul bordo della strada con una serie di banconote sparse all’interno di una scatola di vetro appoggiata sul tavolo. Cambio duecento dollari.

Il taxi, procurato sempre dall’”addetto”, era un’auto scricchiolante stracarica di gente e di roba.

 

Il portabagagli a malapena si chiudeva ed a me, straniero pagante, avevano riservato il posto davanti. Sulla mia destra però, tra me e l’autista, una bella donna sui trent’anni, sedeva una ragazza. Dietro c’erano incastrati un monaco, un signore silenzioso e una donna con tanta voglia di chiacchierare. La strada, completamente sterrata, a malapena si vedeva dal fitto polverone alzato dalle macchine passanti. Per evitare di precipitare nelle buche, che sembravano più dei crateri, la mia autista era continuamente costretta a grandi sterzate e brusche frenate. Guardo la mappa e quella è segnata come autostrada!


In un’atmosfera dall’aria decadente si nota subito qualcosa di strano. Nulla è vecchio. Tutto è nuovo. Il cemento dei palazzi è decrepito ma quasi fresco; le strade son state fatte da poco, con un budget bassissimo, ma fatte da poco. Di vecchi, anziani, finora ne ho visti pochissimi e l’aria di tutte le cose appare giovane.


La storia qui è fresca, si respira nell’aria e spesso quasi si sente ancora il puzzo del sangue e dei cadaveri che fino a pochissimi anni fa erano riversati a putrefarsi ovunque, in fiumi, campi, strade. Io ora son qui per vivere e raccontare il post, il dopo, adesso, la pace.


Il sorriso nella faccia della gente pare essere ricomparso dopo quasi un intero secolo e sembra proprio che ora, una volta ripreso, non vogliano più toglierselo dalle labbra. Dal bambino più piccolo ai pochi vecchietti rimasti, tutti mostrano un sorriso ed una cordialità quasi imbarazzanti. Accoglienza e calore sono le uniche cose che ricevo e la sola cortesia con cui posso contraccambiarli è qualche misero dollaro. Un dollaro qui ti compra una cena, una lunga corsa in taxi e due pacchetti di sigarette .

In un paesino incastrato tra il confine e la capitale, nella stanza 211 dell’Asie Hotel, durante la mia prima notte in Cambogia, non ho fatto altro che incubi. Sono le quattro e mezzo del mattino e non riesco più a dormire. Credo che le energie negative siano davvero forti qui. Il terrore e l’orrore che per anni ha aleggiato, stagnandosi nell’etere, ancora si avverte, o a me pare di percepirlo.


Oggi, lungo la strada, vedendo gli stagni immaginavo centinaia di cadaveri galleggiarci dentro lasciati a gonfiare e a putrefarsi. Nelle stradine di campagna quasi vedevo le lunghe file di persone con i fucili puntati addosso dirigersi verso i campi della morte. Dio mio, come ha fatto un solo uomo a creare tutto questo?


Pol Pot ha massacrato quasi metà dell’intera popolazione. Chi aveva le dita troppo lunghe e fine e dunque non da contadino doveva morire, chi portava gli occhiali o semplicemente sapeva leggere e scrivere, a morte. Intere fosse comuni di studenti, professori, musicisti, scrittori e persone con le dita snelle.


Anche io sono contro il principio della “metropoli”, ma lui ha massacrato chi ci viveva dentro scaraventando i superstiti in qualche remota campagna dalla parte opposta del paese o in qualche campo di concentramento. Il suo folle piano di de-urbanizzare le città fu, nei cinque anni di dittatura, portato a termine.

 

I bambini, tutti, furono sottratti ai genitori e messi nei campi di addestramento, i “killing camps”, dove imparavano soltanto una pratica: uccidere. Questi bambini sono ora adulti.


Ieri arrivando dal nord ho visto cambiare l’aspetto di questo paese, bellissimo da guardare, in mille panorami diversi.


Phnom Penh, la caotica capitale che meno di trent’anni fa fu completamente svuotata ed in parte rasa al suolo, appare ora come una tipica metropoli orientale, forse però ancora in cerca di una vera identità.


L’altra mattina non mi fu difficile trovare un ragazzo che mi avrebbe accompagnato col motorino al Tuol Sleng, una ex scuola superiore trasformata poi nel famoso S-21 (carcere di Sicurezza 21), luogo dove vennero eseguite le più orribili torture e spietate esecuzioni, tutte poi meticolosamente documentate.


Il Toul Sleng era un liceo composto da tre palazzine di due piani con aule ed un enorme cortile interno. Ciò che per quattro anni questo liceo è stato è molto difficile da descrivere perché nessuna parola né scritta né detta può far capire a chi legge o sente il macabro orrore, la disumana violenza, l’incontrollata crudeltà che degli uomini hanno usato contro altri uomini.


Una volta “liberata” la Cambogia, Pol Pot ed i suoi Khmer Rossi, attuarono subito il piano numero uno: la de-urbanizzazione. Letteralmente questo volle dire svuotare in primis tutti i centri abitati, interi villaggi e città, per poi spostare da una parte all’altra del paese le masse di sfollati. I “partigiani” armati di soli megafoni convinsero la popolazione che gli americani, indispettiti dal fallimento, avrebbero bombardato le città. Andavano dunque abbandonate le metropoli: “solo per qualche giorno” - “lasciate tutto così com’è che lo ritroverete al vostro ritorno”- veniva urlato dagli altoparlanti. Una volta create le fiumane di profughi, i Khmer Rossi (ora armati di fucili e pistole), spaccarono le famiglie -perché queste non potessero riunirsi a complottare- separando mariti da mogli, madri da figli, sorelle da sorelle, padri da madri, obbligandoli a “trasferirsi” uno a nord l’altro a sud. Ognuno in posti nuovi con gente nuova, lontana da legami di ogni sorta.


Svuotate le città andava attuato il piano numero due: eliminare gli individui non adatti alla nuova società, cioè a quella istituzione rurale tanto desiderata da tutte le rivoluzioni comuniste del novecento. Dovevano essere eliminati i soggetti benestanti e ancor peggio quelli pensanti. In poche parole quasi tutti. Intellettuali, persone con le mani prive di calli, persone che sapevano leggere e scrivere, gente con gli occhiali o che faceva un mestiere che andava dal medico all’avvocato, dal professore all’infermiere, doveva morire. Vennero richiamati con l’inganno tutti i khmer che risiedevano all’estero. Studenti, professori, medici, ingegneri: “torna, il tuo paese ha bisogno di te” - gli veniva detto. Molti tornarono e ad attenderli all’aeroporto vi era un’automobile diretta all’S21.


Phnom Penh ormai deserta venne in parte distrutta, in parte utilizzata come quartier generale dei Khmer Rossi. Ed ecco che Tuol Sleng divenne da liceo a campo di concentramento con nulla da invidiare ad Auschwitz, sia in orrore che in aspetto; questo campo del terrore si presenta oggi come ad allora, recintato da un muro incorniciato da tre strati di filo spinato.


Nel cortile appena entrati già si presenta il primo strumento di tortura. Tre travi di legno inchiodate a forma di porta da calcio, dove con delle corde appese alla trave sovrastante i boia tiravano su gli arti superiori della vittima che li aveva legati dietro la schiena, facevano da crudo arnese spezza braccia. Con le ossa, i muscoli ed i legamenti trucidati il detenuto inevitabilmente sveniva. A quel punto per fargli riprendere i sensi gli veniva infilata la testa in un anfora piena di escrementi e, una volta ripresa conoscenza, la tortura iniziava nuovamente. Strumenti del genere, di un’atrocità difficile pure da immaginare, si trovano tutti al secondo piano dell’edificio centrale, raccolti in quella che forse era l’aula magna.


Nelle aule in basso vi sono ancora gli scheletri dei letti (la base con la rete) sui quali, come mostrano le foto attaccate al muro in ogni stanza, i prigionieri venivano uccisi, spesso a colpi di sedia. Nei piani superiori poi, accompagnati da foto che riportano fedelmente alla realtà e all’orrore di quei giorni, appaiono le aule suddivise in celle dove in massa venivano legati l’uno all’altro in spazi disumanamente minimi e poi frustati.


La cosa incredibile e forse interessante da capire, è quest’assurda folle determinazione nel voler azzerare un’intera società. Ricrearla da zero, dall’inizio, eliminando la vecchia distruggendo tutto ciò che avesse potuto ricordarla minacciando così la nuova. Uccidendo circa tre milioni di persone, i Khmer Rossi, ci erano quasi riusciti.


Il 9 novembre del 1953 il movimento indipendentista capeggiato dal principe Sihanouk, figlio del re Norodom Suramarit, ottenne l’indipendenza dalla colonia francese. La Cambogia si sottrasse così dai confini forzati di un paese creato dagli invasori: l’Indocina.


Sihanouk governò il paese per quasi due decenni mantenendo, tutto sommato, un tranquillo clima di pace e questo forse fu l’unico periodo privo di spargimenti di sangue nell’ultimo secolo di storia cambogiana. Nel gennaio del 1970, attraverso un colpo di stato, mentre il monarca era in visita in Europa, i servizi segreti americani introdussero al suo posto un maresciallo di nome Lon Nol, con lo scopo di piazzare un “burattino” fedele alla potenza capitalista, a capo del paese. Il motivo della manovra fu per permettere a Nixon di intervenire indisturbato in territorio cambogiano con scariche di bombe e passaggi di truppe durante le offensive contro i Vietcong. Il principe Sihanouk non lo avrebbe mai permesso. Il metodo americano fu efficace e gli Stati Uniti, intenti a distruggere le vie di collegamento lungo la Ho Chi Min Trail (che in una linea serpentina da nord a sud usciva dal Vietnam settentrionale, passava per la Cambogia orientale e rientrava infine nel Vietnam meridionale) bombardarono due terzi del paese.


La guerra in Vietnam però non durò così a lungo e il governo fantoccio di Lon Nol presto non ebbe più la garanzia della difesa americana, ormai con un piede fuori dalla penisola. Ecco che, mascherati da bravi partigiani, i Khmer Rossi intervennero per la “liberazione” del paese.


La Cambogia era a quel punto una nazione dilaniata dalle bombe. Povertà e malattia uccidevano ai ritmi della guerra appena finita. Il regime Lon Nol non faceva nulla, anzi ne era la causa. I Khmer Rossi (nome dato loro proprio da Sihanouk) d’altro canto, contadini e guerriglieri membri del CPK (Partito Comunista della Kampuchea) abbigliati in una tuta blu con l’inconfondibile foulard a scacchi bianchi e rossi legato attorno al collo, che dalle campagne del nord si dirigevano verso la capitale, sembravano il giusto rimedio per una situazione ormai precipitata da tempo. Vennero accolti dalla popolazione come veri e propri liberatori. Rivoluzione era la loro promessa. Rivoluzione fu. I Khmer Rossi entrarono nella capitale il 17 Aprile del 1975 cacciando dal paese le ultime forze straniere rimaste ed eliminando quelle del regime Lon Nol.


Da quel giorno fino al Gennaio del 1979 Pol Pot, la sua delegazione e i Khmer Rossi attuarono il grande progetto, la rivoluzione delle rivoluzioni: ricreare una nuova società contadina, fedele ed ubbidiente all’unico partito, eliminando quella già esistente “borghese” ed intellettuale. Mao cercò di farlo in diversi decenni, Pol Pot lo fece in pochi mesi.


Fortunatamente la follia dei Khmer Rossi non si limitò ai confini del proprio paese. Fortunatamente Pol Pot ritenne opportuno rioccupare la regione del delta del fiume Mekong, anticamente territorio della potenza khmer ma che oggi fonda la solida base del Vietnam moderno. Il Vietnam, che usciva da poco vittorioso dalla grande guerra contro il colosso statunitense, con un potente esercito armato di modernissima artiglieria, non ebbe alcuna difficoltà né a difendersi né successivamente ad invadere, liberando finalmente la Cambogia dall’olocausto.


Negli anni a seguire non mancò un massiccio spargimento di sangue. L’occupazione vietnamita e la resistenza dei Khmer Rossi non lasciarono spazio ad una pace che, ormai utopica, arrivò finalmente nel 1998 con la morte di Pol Pot (e quindi con la totale arresa dei Khmer Rossi).


Cammino per strada, nei mercati, nelle botteghe e percepisco la storia. Le persone sono da poco tornate ad essere buddiste, mostrano ancora timidamente i Buddha d’oro sugli altarini decorati con fiori e frutti, sembra quasi che abbiano ancora paura: prima essere buddisti voleva dire essere deportati, torturati ed uccisi. I monaci sono ancora pochi e gran parte dei templi appaiono in costruzione o in fase di restauro. Seppure il buddismo sia in rapida ripresa sorprende quanto le persone abbiano già radicata dentro la tranquillità e serenità tipica dei paesi devoti al Buddha.


Molti edifici sono ancora semidistrutti, se ne vede solo lo scheletro, i muri maestri spogli ed isolati. Ci sono ancora gli stracci di chi forse ci è morto dentro o forse è riuscito a scappare. Ci sono i mutilati che hanno pestato accidentalmente una delle sei milioni di mine ancora presenti nel suolo; ci sono i monchi sopravissuti alle torture di uno dei tanti regimi; ci sono i cinesi, presenti ovunque e che se non fosse per la loro presenza, questo paese sarebbe deserto e probabilmente ancora più arretrato.


Non mi è capitato mai di trovarmi in un paese con la storia così fresca e drammatica, non mi ero mai davvero confrontato con la guerra e questa è, come tutte le cose, un’esperienza che si deve fare, comprensibile davvero solo se vissuta direttamente.


Come un inviato di dopoguerra mi trovo ora a vivere e a descrivere ciò che la guerra è stata, lontano dal sangue e dai proiettili, col senno del poi. Come tutte le guerre anche questa fu inutile. Vinsero i comunisti ed ora è in vendita ai capitalisti.

 

La Cambogia è oggi un terreno fertile e appetibile per moltissime multinazionali americane, europee e cinesi che ogni anno, sempre in numeri maggiori, vengono qui ad investire.

 

Questa guerra, come tutte, ha portato orrore e terrore, fame e malattie, ingiustizia ed infamie, ha portato inutilmente sofferenza a milioni di persone, ma che, finché tra quei milioni non ci siamo noi, non capiremo mai.


 

 

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