.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

contemporanea


N. 24 - Dicembre 2009 (LV)

la verità affondò al Tramonto

Ustica, 27 giugno 1980
di Cristiano Zepponi

 

Alle 20.08 esatte del 27 giugno 1980, dall’aeroporto “Marconi” di Bologna, decollò un DC9 (bimotore a getto da trasporto civile), diretto all’aeroporto “Punta Raisi” di Palermo: è il volo IH870 della compagnia privata ITAVIA. In realtà aveva un ritardo di due ore, visto che avrebbe dovuto prendere il volo alle 18.15.

Il nome del velivolo, per le autorità aeronautiche, è I-TIGI (INDIA-TANGO INDIA GOLF INDIA, in linguaggio militare) . A bordo si trovavano 77 passeggeri, di ogni età, tra cui undici bambini e due neonati, oltre a quattro membri dell’equipaggio.

Dopo la salita, il velivolo virò fino ad incanalarsi nell’aerovia “ambra 14”, nome che codifica uno dei tanti “sentieri del cielo” che attraversano la nostra penisola, conosciuti solo dagli addetti ai lavori, e illuminati da alcuni radiofari. All’altezza di Firenze entrò poi in altra, chiamata “ambra 13”. Quindi, passò sopra il Tirreno, seguito dal radar di zona, quello dell’aeroporto romano di Ciampino, attraverso i “plot”, sagome luminose di risposta che appaiono sul radar quando il segnale elettromagnetico da questo inviato “rimbalza” sul corpo metallico degli aeromobili, segnalandone la posizione, la rotta, la velocità. L’andata ed il ritorno del segnale avvenivano in sei secondi.

L’identificazione, invece, avveniva attraverso un altro segnale, il transponder, che oltre a permettere l’assegnazione di un codice numerico identificativo del velivolo, forniva alla torre anche la quota cui questo viaggiava. Il volo IH870 ricevette da Ciampino il codice 1136.


Una ventina di minuti dopo il decollo il volo procedeva normalmente, come nel resto della giornata, dato che il velivolo aveva compiuto diversi viaggi a partire dalla mattina; ma alle 20.26 il radar di Ciampino, e un altro nei pressi di Ferrara, della difesa aerea, chiesero al DC9 ITAVIA di identificarsi, nonostante il transponder fosse sicuramente attivo, data la “targa” assegnata all’aeroplano, 1136. Il segnale, secondo le torri, appariva confuso, le tracce poco chiare, e la richiesta fu avanzata nuovamente quattro minuti dopo, accompagnata dalla proposta di attivare il transponder stesso.

Ma l’apparecchio funzionava, e bene, tanto che poco dopo riapparve sul radar l’atteso 1136. La torre di Ciampino, allora, chiese informazioni sulla posizione esatta; l’aereo rispose di trovarsi esattamente allineato col radiofaro di Firenze.

“Adesso vedo che sta rientrando”, rispose Ciampino: una frase senza senso per il pilota dell’aereo, il capitano Gatti, che sapeva benissimo di non aver mai variato rotta. E non mancò di farlo notare: “Noi non ci siamo mossi”, precisò.

Alle 20.44, arrivato sul lago di Bolsena, il capitano Gatti comunicò quota e rotta a Ciampino; ed aggiunse che da Firenze avevano incontrato tutti i radiofari spenti, “Abbiamo trovato un cimitero”, testualmente. Non ne funzionava neanche uno: e Ciampino confermò, avvertendo che anche quello di Ponza era fuori uso.

Alle 20.56 il velivolo si trovava a 43 miglia nautiche a sud di Ponza, al limite della portata del controllo aereo di Ciampino, che lo autorizzò a prendere contatto con la torre dell’aeroporto Punta Raisi di Palermo per cominciare la discesa.

All’atterraggio mancavano venticinque minuti, la quota era di 25000 piedi, la velocità di 800 km/h.

L’equipaggio, probabilmente provato, si trovava in cabina, e stava ridendo; si raccontavano barzellette, alcune particolarmente piccanti, e qualcuno tra loro non mancò di farlo notare: “sporca questa”, e subito dopo “sentite questa..”.

Di colpo, una voce concitata aggiunse solo una frazione di parola, “gua..”. Nient’altro.

Alle 20.59, il DC9 ITAVIA scomparve dal radar di Ciampino; alle 21.04, allarmato dalla mancata risposta radar del velivolo, un operatore chiamò la cabina, senza risultati. Si affrettò allora a chiedere informazioni all’aeroporto di Palermo, nel caso in cui l’avesse già preso in carico: ma non lo vedevano neanche loro.

Alle 21.05 ancora la torre romana chiese l’ausilio di un altro velivolo, dell’AIR MALTA, poco distante dal punto in cui era scomparso il volo Bologna-Palermo: ma anche questi i tentativi radio fallirono, non rispondeva nessuno.

Ciampino riprovò con Palermo, senza successo, e poi con il radar della difesa aerea di Marsala (h. 21.09, 21.14), che a sua volta si rivolse al comando di Martinafranca, e questi di nuovo al radar di Licola. Nessuno sapeva.

Alle 21.22, il centro di Martinafranca avviò le procedure di soccorso, allertando il 15° stormo SAR (Search & Rescue) di Ciampino.

Alle 22.00 decollarono i primi elicotteri, degli HH-3F dell’Aeronautica Militare, che arrivarono sul posto un’ora e dieci dopo; ma si accorsero presto che ogni ricerca era impossibile, nel buio, e per di più il radar aveva fornito coordinate sbagliate di cinquanta chilometri: quindi finirono per arrendersi, dopo aver sorvolato invano il tratto di mare adiacente l’isola siciliana di Ustica.

Alle undici e mezzo il telegiornale riportò la notizia dell’aereo scomparso, riferendo anche di “voci” riguardo un presunto dirottamento. L’aereo fu “dato per disperso”, inizialmente, ai parenti dei passeggeri.

Il giorno dopo, intorno alle 5.00, un altro elicottero segnalò detriti sulla superficie del mare; un Atlantic, poco dopo, avvistò una chiazza di cherosene, e poi oggetti, sedili, cuscini. Il mare cominciava a restituire ciò che aveva preso, lentamente; verso le nove, poi, affiorarono in superficie, tra gli altri, anche altre figure: i corpi.

Si recuperarono, confusamente, 38 salme; in più vi erano altri resti umani, inidentificabili, che portarono il totale a 43. Gli altri 38 rimasero in fondo al mare, per sempre.

L’aereo perse innanzitutto il motore destro, secondo le successive ricostruzioni del momento dell’esplosione; poi tutta la fiancata con i finestrini, andò via la luce, la cabina a quel punto si depressurizzò e i passeggeri morirono, tutti, ancora in volo: infatti, le autopsie chiarirono che i passeggeri erano deceduti per “ gravissime lesioni polmonari da decompressione”, con “lesioni traumatiche.

Poi si staccò anche l’altro motore e la cellula dell’aereo si troncò in due, cadendo sulla superficie del mare.

In quei giorni concitati si commisero, probabilmente, molti errori: le salme furono trasportate prima a Napoli e poi a Palermo, per l’autopsia, ma molti familiari si dichiararono contrari, o ne pretesero la restituzione; né fu programmato un inventario degli oggetti rinvenuti, che furono accatastati alla rinfusa, senza criterio. Furono rinvenuti, inoltre, frammenti sicuramente non appartenenti all’aereo: due salvagente ed una sonda metereologica.

Rino Formica, ministro dei trasporti, formò il giorno dopo una commissione tecnica d’inchiesta, affidata all’ing. Luzzatti; contemporaneamente, prima il sostituto procuratore di Palermo Aldo Guarino, poi quello di Roma, Giorgio Santacroce, aprirono un’inchiesta per la Magistratura.

Oltre a Ciampino, come detto al limite dell’autonomia, l’imponente apparato radar della difesa aerea avrebbe potuto garantire i filmati mancanti: in particolare, risultavano coinvolti i centri di Licola e Marsala. Ed infatti, il 14 luglio, i due procuratori si affrettarono a richiedere gli atti dei tracciati radar alle tre torri; ma alcuni problemi cominciarono allora a rallentare i lavori. Il radar di Licola, manuale, affidava la trascrizione dei dati al braccio di un operatore, senza registrarli; questi li trascriveva su un registro, detto DA 1. A Licola si affrettarono a precisare che nessuno aveva visto niente di strano, la sera del 27 giugno; né la Magistratura poté servirsi del DA 1, che nel frattempo era scomparso.

Il radar di Marsala, automatico, poteva servire: ma subito dopo l’incidente era stato spento, per garantire una simulazione virtuale, secondo l’Aeronautica. Normalmente, l’operazione durava non più di quattro minuti: quel giorno, in totale, trentanove

I nastri furono forniti all’organo giudiziario solo il 3 ottobre: un po’ troppo in ritardo. Ma, comunque, non presentavano anomalie.

L’ipotesi del missile, di un deliberato abbattimento, volontario o meno, cominciò presto a diffondersi: lo dissero controllori radar, dipendenti, addetti vari, ai familiari e alla stampa. Il Corriere della Sera la inserì tra le più probabili, insieme a molte altre testate. Lo riferì anche il generale Rana, direttore del Registro Aeronautico Italiano, al ministro dei trasporti Formica; il presidente della compagnia Itavia, Aldo Davanzali, che affermò il 17 dicembre di avere la certezza che ad abbattere il suo DC-9 fosse stato un missile lanciato da un aereo; e più recentemente (25 gennaio 2007) anche il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, in un'intervista a Radio Rai, quando, parlando della strage, scagionò Libia e Stati Uniti d'America aggiungendo di non poter dire, pur sapendolo, qual è il Paese alleato che “puntando male un missile” colpì il DC9.

Forse, le iniziali voci che sussurravano di un dirottamento, invece, aprirono in qualche modo la strada a quella della bomba, piazzata eventualmente a Bologna; ma circolò anche l’idea della collisione in volo, o di una quasi-collisione con uno o più velivoli militari, a detta di molti francesi o americani. L’Aeronautica, invece, soprattutto attraverso i rapporti del SIOS (sevizi segreti dell’Arma aerea) propendeva per la spiegazione più semplice, e più comune: un cedimento strutturale; la cellula dell’aereo si sarebbe spezzata da solo, durante una turbolenza, per carenza di manutenzione e revisioni, imputabile quindi alla ditta Itavia, su un aeroplano comunque datato.

Il che, in parte, era vero: il primo modello di Douglas DC9 aveva volato la prima volta il 25 febbraio del 1965. Ma si tratta di un modello affidabile, robusto, e comune nei cieli occidentali; inoltre, l’ITAVIA dimostrò che aveva ricevuto controlli idonei senza mai mostrare lacune. Inoltre, quel giorno non si registrarono particolari turbolenze, ed il capitano Domenico Gatti era un veterano, esperto e attento, con più di 7000 ore di volo alle spalle; un cedimento, la perdita della porzione di coda dell’aereo, gli avrebbero dato il tempo, come dimostrato, di dare l’allarme, invece di poter pronunciare solo una sillaba in una frazione di secondo.

L’ipotesi, insomma, faceva acqua da tutte le parti: al punto che se ne accorse anche l’Aeronautica, dopo che questa era stata bocciata da tutte le Commissioni nominate, a partire da quella Luzzatti. A quel punto, passò nel dimenticatoio.

Naturalmente, ottenuti i tracciati radar dal controllo del traffico aereo di Ciampino, il sostituto procuratore Santacroce promosse subito la ricerca di un team specializzato nella decifrazione di simili nastri. Si rese allora necessario un viaggio a Washington, per lui ed un pool di tecnici della Commissione Luzzatti e dell’Itavia, per ottenere la collaborazione di rinomati esperti americani. Questi evidenziarono tre plots, punti alla destra della direzione di volo del DC9; secondo uno di loro, si trattava delle tracce di un velivolo da combattimento, impegnato in una classica simulazione d’attacco: il velivolo attaccante avrebbe seguito l’I-TIGI, virato improvvisamente largo sulla destra per allargarsi e infine attraversare la rotta dell’”avversario”, già scomparso dai radar (e quindi abbattuto). Per gli esperti dell’Aeronautica, si trattava di falsi echi.

Inoltre, da allora in poi, nelle dichiarazioni dei suoi membri l’Arma Azzurra ha negato che si stessero svolgendo esercitazioni, nella zona, e che vi fosse traffico aereo nello spazio di cinquanta chilometri, intorno all’I-TIGI. Disse lo stesso riferendo in Senato il ministro della difesa, Lello Lagorio, il 10 luglio di quell’anno.

Inservibile apparve presto l’apporto della portaerei americana Saratoga, appartenente alla 6° flotta del Mediterraneo e ancorata davanti Napoli, quella sera: il suo radar era spento, per evitare di disturbare le frequenze di radioamatori ed emittenti locali, come d’altronde spesso accade. E almeno questo elemento sembra dimostrato dalla prassi.

L’accertamento della verità procedeva troppo lentamente, anche a causa dei tempi incomprensibili impiegati dai vertici dell’Aeronautica per fornire i dati richiesti dalla Magistratura. Si capì presto, tra l’altro, che l’inchiesta sarebbe durata a lungo, e sarebbe stata molto impegnativa. Ma un altro aereo arricchì ulteriormente il quadro.

Accadde che il 18 luglio dello stesso anno, un mese dopo la tragedia, due contadini di Castel Silano (Crotone), richiamati dal frastuono, scoprissero i resti di un velivolo da combattimento, del tipo MiG-23 “Flogger”, ed il corpo del pilota, steso a terra poco distante. Chiamarono allora la Forestale, ma subito i carabinieri presero in competenza la zona, sequestrandola nel tentativo disperato di nascondere l’evidenza.

Si trattava di un velivolo russo, prodotto dalla ditta “Mikoyan Gurevich” a partire dal 1969; in particolare, i simboli riprodotti sulla fusoliera ne svelavano la nazionalità libica. Dopo anni, molti in Calabria ricordano ancora lo stupore, ed i sospetti, generati da quel ritrovamento sulle alture silane. Per la Libia, un velivolo da addestramento smarritosi per malore del pilota (accettando per un attimo questa eventualità, peraltro assai inverosimile, bisognerebbe riflettere sulla sicurezza della nostra difesa aerea, evidentemente assai più lenta ad individuare la minaccia delle orecchie dei due contadini); per altri, un aereo diretto nella Jugoslavia socialista, mèta di rifornimento e riparazione nelle locali officine aeronautiche, magari col silenzioso assenso dei nostri servizi segreti, e l’appoggio momentaneo in aeroporti abbandonati in Sicilia. Uno dei medici legali, avvallando le più sinistre tra le ipotesi, definì il corpo del pilota africano in “avanzatissimo stato di decomposizione”, “quindici o venti giorni”: vicino alla data del 28 quindi. In seguito, incredibilmente, cambiò idea.

Il 31 luglio, la magistratura di Crotone archiviò l’inchiesta su questo “secondo” aereo, ed i resti del pilota tornarono in Libia, veloci quasi com’erano venuti, insieme a gran parte di quelli del MiG.

I rimanenti andarono ad intasare un hangar del Centro Sperimentale dell’Aeronautica, a Pratica di Mare.

Dopo la prima ricostruzione, che sembrava non aver convinto proprio nessuno (alcuni giornalisti in primis), l’Aeronautica virò su una spiegazione più efficace, e verosimile: quella della bomba a bordo. Tutte le commissioni da questa nominate propendevano per questa ricostruzione.

I rottami dell’aereo si erano distribuiti sul fondale raggruppati in cinque zone:

- scaletta di accesso posteriore, pezzi della toilette posteriore, pannelli laterali posteriori della fusoliera;

- estremità dell’ala sinistra;

- troncone di coda;

- ali e fusoliera, che avevano proseguito il volo per qualche chilometro in più (essendo il “collasso” avvenuto nella parte posteriore del velivolo);

- motori, in posizione simmetrica rispetto alla traiettoria di volo, ancora più avanti.

La presenza delle 5 “aree”, ed il loro allineamento nel senso della direzione del volo, indica che il DC9 non si era disintegrato in aria, ma aveva subito una sequenza di rotture progressive.

La scatola nera, come tutto il resto, si trovava allora in fondo al Mediterraneo, a 3700 metri di profondità: ed evidentemente il bilancio italiano non fu setacciato al punto di reperire i mezzi per andare tanto in fondo.

Servivano dieci miliardi.

Piano piano, come accade spesso, l’inchiesta rallentò di fronte all'impedimento. La scatola nera avrebbe chiarito tutto, secondo molti, ma rimaneva irraggiungibile. E allora si fece largo l’idea che irraggiungibile fosse anche una spiegazione definitiva, e le indagini si arenarono, tra l’indifferenza generale.

Fu allora che Andrea Purgatori, del Corriere della Sera, coniò l’espressione “muro di gomma”, per rappresentare l’impermeabilità della società italiana alla divulgazione di nuove ricostruzioni e informazioni sulla vicenda del volo IH870 Bologna-Palermo. Tacque il governo, tacquero le istituzioni, tacquero i notiziari; per troppi anni, gli aggiornamenti sul caso caddero nel vuoto.

Nel frattempo, nel marzo del 1982, la commissione Luzzatti concluse i lavori: l’aereo era esploso in volo. Restava da scegliere la bomba, o il missile.

Due anni dopo, nel gennaio dell’’84 il sostituto procuratore Santacroce passò l’inchiesta al giudice istruttore Vittorio Bucarelli; questi, nel dicembre successivo, nominò un’altra Commissione, affidata al prof. Massimo Blasi.

Dopo quattro lunghi anni, i tecnici fornirono le risposte, giustificando il ritardo con l’impossibilità di accedere ai dati del velivolo, contenuti a bordo; il 16 marzo 1989.

Il collegio dei periti consegnò al G.I. Bucarelli la relazione con la tesi: missile lanciato da un aereo.

Ma il 27 maggio del 1990, stranamente, due dei cinque periti si dissociarono dalle conclusioni per sostenere la tesi di una bomba a bordo.

L’esperienza subita, nel frattempo, doveva aver avuto per i familiari delle vittime un intenso valore unificante; ed il silenzio assordante sullo sfondo spinse alla mobilitazione collettiva di questa variegata, e stupenda umanità.

Il 27 giugno 1986 i parenti delle vittime si rivolsero compatti al presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, chiedendo la riapertura delle indagini; questi girò la richiesta a Bettino Craxi, presidente del consiglio, che la rivolse a Giuliano Amato, ministro dell’interno, che riferì in Parlamento, e, finalmente, trovò i fondi per la raccolta dei resti tra le pieghe del bilancio. Le indagini, effettivamente, ripartirono. Poco dopo la Sen. Daria Bonfietti, sorella di una delle vittime, scrisse spontaneamente agli altri parenti, per stimolare una presa di posizione netta nei confronti dello Stato, che smentiva l’epiteto “di diritto”: si formò così l’”Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica”. A questa, per smuovere le acque, si aggiunsero alcuni giornalisti, i quali, come detto, continuarono a seguire la vicenda, a distanza, negli anni: Giovanni Mariabello di Repubblica, Giovanni Bianconi dell’Avvenire, il già citato Andrea Purgatori, vari reporter del Manifesto. Per sei o sette anni, a questa storia non si era interessato nessun altro.

Del recupero si occupò una ditta francese, l’Ifremer, che impiegò un anno e mezzo per riportare a galla i frammenti, terminando solo nel maggio del 1988. Ma le polemiche continuarono: e la scelta della società transalpina si dimostrò quantomeno erronea. Si diceva fosse in contatto con i servizi del suo paese, ed il supposto missile, secondo molti, era proprio francese. Un’ipotesi, questa, rafforzata dalla testimonianza del Generale di Corpo d'Armata dei Carabinieri Nicolò Bozzo, allora sottoposto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; più volte riferì che quel giorno, il 27 giugno, aveva visto dalla Corsica levarsi in volo decine di velivoli da combattimento, diretti verso il mare.

Dunque, qualcuno c’era. E proseguì avanzando una precisa visione dei fatti: “..All''epoca con Dalla Chiesa avevamo sviluppato un'ipotesi, che sembra aver trovato qualche conferma. Dunque: il 27 giugno è previsto un volo di Gheddafi da Varsavia a Tripoli, che deve passare sopra il Tirreno. L'abbattimento di Gheddafi non interessava solo l'Aeronautica libica: c'era la Francia, c'erano gli Stati Uniti ... Il piano prevedeva che due aerei libici "rinnegati" abbattessero Gheddafi e poi andassero ad atterrare a Gioia del Colle o, in alternativa, a Crotone. L'ordine originario, quindi, era quello di tener sgombro il basso Tirreno da altri aerei. Può essere successo che gli aerei libici siano partiti ma Gheddafi, mentre era già in volo, ha ricevuto un messaggio radio in cui qualcuno (i Servizi, probabilmente) lo informava dell'attentato. Va ricordato che nei Servizi Segreti italiani esistevano due anime, che facevano capo a Miceli e Maletti (non so in quale ordine): una filoaraba e una filoamericana. Qualcuno della prima corrente può aver avvertito Gheddafi. L'aereo di Gheddafi (sembra, tra l'altro, che il leader libico si servisse di un DC9 per i suoi spostamenti) devia e stranamente non torna in Libia ma atterra a Malta, dove rimane ospite di Dom Mintoff per una settimana..”.

E ancora: “..a quel punto si è inserito il DC9 Itavia, che era in ritardo di quasi due ore, per cause naturali. Da Solenzara e da Grosseto si sono alzati molti aerei per tentare di far deviare o rientrare il DC9. Uno di questi aerei, tra l'altro, aveva ai comandi due piloti morti a Ramstein nell'87. Ma, nonostante i tentativi, il DC9 arriva fino al punto Condor dove viene colpito da un missile. L'aereo che stava sotto il DC9, se questo scenario (che, lo ripeto, è una mia supposizione) è vero, potrebbe non essere libico ma un caccia alleato che tenta di far atterrare il DC9. Subito dopo un aereo libico ha avuto qualche noia e ha puntato sull'aeroporto di Crotone. Ma per qualche causa (mancanza di carburante o altro) ha deviato ed è andato a sbattere sulla Sila..”.

Proprio per superare le polemiche fu inaugurata presto un’altra campagna di recupero, nel 1990, affidata stavolta ad una ditta inglese, la Winpol, che raccolse presto altri reperti; e finalmente, il 19 luglio del ’91, la scatola nera. Ma emersero, con questi, altri dubbi: in primo luogo, il serbatoio supplementare di un caccia, (ovvero un contenitore esterno, simile ad un ordigno, trasportato dagli aerei militari per accrescere il carico di carburante, e, quindi, l’autonomia, da sganciare quando esaurito). Una strana coincidenza, se non altro.

Inoltre, alcuni esperti, e con questi il prof. Mario Vadacchino (consulente dell’“Associazione dei parenti delle vittime”), notarono che il terreno sottomarino, in fondo al Tirreno, appariva “arato”, come se prima delle campagne di scavo “ufficiali” qualcuno avesse già setacciato il fondale.

Quel che restava del DC9, trasportato a Pratica di Mare, fu sistemato nello stesso hangar del MiG libico, appoggiato ad uno scheletro metallico.

Il muro di gomma resse per anni, ma verso la fine del decennio cominciò a scricchiolare: il 6 maggio 1988, alla trasmissione “telefono giallo” di Corrado Augias, che si occupava della strage, giunse una telefonata importante. Alla presenza di Amato, parlò un “..aviere di servizio a Marsala la sera dell’incidente..”. E raccontò di aver visto i tracciati radar, “Noi abbiamo esaminato le tracce di registrazione che non sono stati visti […], noi li abbiamo visti perfettamente, soltanto che il giorno dopo, il maresciallo responsabile del servizio ci disse di farci gli affari nostri e di non dare seguito alla questione […], ci fu ordinato di stare zitti..”, giustificando l’intervento sulla base di un “fatto emotivo interiore”, che l’aveva spinto alla chiamata.

Attaccò in fretta, platealmente preoccupato delle possibili conseguenze del suo gesto.

In seguito a questo episodio, il giudice Borsellino aprì un’inchiesta; l’Aeronautica, fin’allora, aveva riferito che a Marsala si trovavano due persone, quella sera. Borsellino, attraverso il registro della stazione, appurò invece la presenza di decine di avieri, ufficiali e sottufficiali; ma per l’Arma, erano tutti fuori dalla stanza, in quel momento.

Furono quindi altre voci ad imporsi sulla scena, quella del maresciallo Carico, che affermò di aver visto tutto, contraddicendo i suoi superiori: ovvero due tracce, vicino Ponza, in discesa simultanea, finché una scomparve dallo schermo. E quella di Mario Alberto Dettori, maresciallo di Poggio Ballone, che tornato dal lavoro apparve alla moglie “molto scosso”, la sera del disastro, dicendo: “..è successo un casino.. qui vanno tutti in galera..”.

Emerse anche che alle 20.20, quella sera, si erano levati in volo da Grosseto due F-104 dell’Arma Azzurra, con un totale di quattro piloti (tre istruttori, un allievo); sei minuti dopo, quello con a bordo i due istruttori inviò un segnale in codice, “7300”, ovvero “EMERGENZA GENERALE”, e di nuovo sette minuti dopo. Questa rivelazione risultò particolarmente sospetta: forse i piloti avevano visto qualcosa.

Altri quattro, pare, decollarono tra le 20.20 e le 20.45, spegnendo subito il transponder identificativo. C’erano inoltre aerei americani, un AWACS (aereo-radar) sull’Appennino, un altro decollato da Sigonella.

Ma l’Aeronautica, fino ad oggi, l’ha sempre negato, e continua a farlo nella persona del gen. Enrico Pinto, coordinatore del comitato studi su Ustica: “..per 50/60 miglia non vi era nessun altro velivolo..”.

L’inchiesta, nel frattempo, cambiò ancora destinazione, giungendo sul tavolo del giudice Priore, ed emersero altri dati, nuovi o presi in considerazione solo allora; saltò fuori che vi erano altri radar attivi, oltre a quelli già elencati di Licola, Marsala e Ciampino: Poggio Ballone (Grosseto), Poggio Arenatico, Potenza Picena, Martinafranca (Taranto) e Siracusa. Questi, tuttavia, si rivelarono, ancora una volta, inservibili; non avevano registrato niente di particolare, eccetto forse quello di Poggio Arenatico, dal cui registro, però, la pagina del 27 giugno era stata tagliata (secondo la Magistratura), e quello di Poggio Ballone, i cui quattro registri furono sequestrati e verificati. Oppure erano spenti, come quello di Siracusa (che avrebbe però dovuto “coprire” quello di Marsala, fuori uso per un’esercitazione secondo l’A.M.).

Ma la centrale di Poggio Ballone si rivelò utile: ne risultò una traccia, alle 20.14, proveniente da ovest, incompatibile con quella del DC9.

Inoltre, furono reperite, tra le pieghe dell’inchiesta, altre testimonianze importanti: le registrazioni, spesso automatiche, dei dialoghi tra gli addetti di centri radar e i comandi militari.

In particolare, una tra Ciampino e Martinafranca, che apparve subito particolarmente interessante:

Ciampino- Qui è venuto il.. un ufficiale del..

Martinafranca- Itavia?

Ciampino- dell’ACC.. del controllo..

Martinafranca- ah, si!

Ciampino- e ha detto che se volete lui può metterci in contatto tramite l’Ambasciata Americana..

Martinafranca- si..

Ciampino- e se.. siccome c’era traffico americano in zona molto intenso..

Martinafranca- si..

Ciampino- ..in quel periodo.. eh, può attingere notizie attraverso quella fonte, quella via..

Martinafranca- ..e come, nella zona dove stava il DC9?

Ciampino- si..

Martinafranca- ..ho capito, un attimo che adesso.. ma.. qualche portaerei?

Ciampino- eh, questo non me l’ha detto..

Martinafranca- eh, beh..

Ciampino- ..però si suppone, no?!

Il cielo del Tirreno, quella sera, si faceva decisamente meno disabitato.

A Marsala, nei minuti immediatamente precedenti la tragedia, due avieri conversavano liberamente, inconsapevoli della registrazione automatica; uno disse: “..sta a vedere che quello dietro mette la freccia e sorpassa..”, e poco dopo “..quello ha fatto un salto da canguro..”. Un dialogo curioso, a quell’ora. Poco dopo, a Grosseto, un altro scambio di battute tra due militari: “..Qui poi il governo, quando sono americani.. ma tu poi, che cascasse..”. “E’ scoppiato in volo”, disse l’altro. Evidentemente senza accorgersi che Ciampino, in contatto, stava registrando automaticamente. E similmente per altri casi: conversazioni più che sospette avvennero anche al telefono, tra gli addetti di Ciampino, senza discostarsi molto.

Qualcuno aveva visto.

Alle 22.39, inoltre, si scoprì che il centro radar di Ciampino aveva cercato di contattare telefonicamente l’ambasciata americana, all’interno 550, senza risposta. Il gen. Dell’A.M. Zeno Tascio si affrettò a negare, spiegando la chiamata come “richiesta di informazioni di suoi dipendenti, che ha portato a sapere che non c’era traffico aereo americano nella zona […] tutto questo materiale è stato dato su richiesta (della magistratura) dall’Aeronautica Militare”.

In pratica, l’Arma riferì di aver subito consegnato tutto il materiale in suo possesso su quella sera: 18 ore di registrazioni, i nastri radar di Marsala, quello di Ciampino, i tabulati di Poggio Ballone, e varie altre informazioni. Ma qualcuno continuò, e continua tuttora, a credere che furono messi in atto diversi tentativi di depistaggio: tra questi il professore Leonardo Lecce, uno dei periti della prima commissione tecnica che per sei anni ha lavorato per cercare la verità su una delle pagine più oscure della storia repubblicana.

‘Roma, febbraio '89. Sei uomini sono appena scesi da un aereo dell'aviazione militare italiana proveniente da Londra. Il giudice istruttore Vittorio Bucarelli, che li ha nominati, vuole sapere da loro che cosa ha fatto precipitare, alle ore 20.59 del 27 giugno 1980, il Dc-9 in volo da Bologna a Palermo. Prima di prendere posto all'interno delle grosse auto del ministero dell'Interno si avvicina un signore in divisa: ha i gradi di capitano e le insegne dell'aeronautica militare italiana. Nelle mani ha un plico che consegna a uno di loro: "Qui c'è la verità su Ustica". I sei si guardano in faccia eccitati. Appena in auto, aprono la busta: trenta pagine stampate al computer in cui si sostiene che ad abbattere il Dc-9 è stato un Ufo’.
I super esperti sorridono. Non era la prima volta che qualcuno tentava di mettere nelle loro mani le "sue" verità sulla vicenda. La loro verità, invece, era ben diversa: ad abbattere il Dc-9 è stato un missile non identificato. La conclusione della perizia, in un primo momento unanime, sarebbe stata poi rivista da due di loro.

La storia dell'Ufo non fu solo un aneddoto, ma faceva parte di una serie incredibile di tentativi di depistaggio che contornarono i sei anni in cui si svolsero i lavori della commissione Blasi. I sei periti, tutti ingegneri aeronautici laureati o in servizio all'Università di Napoli, erano Massimo Blasi e Marino Migliaccio, entrambi esperti di motoristica industriale, Ennio Imbimbo, specialista in esplosivi, Raffaele Cerra, conoscitore di sistemi radar e dirigente della Selenia (società produttrice di missili e radar), il medico legale Carlo Romano ed infine Leonardo Lecce, l'unico perito esperto in aeronautica'.

In un primo momento furono tutti concordi nel sostenere la tesi del missile; due di loro, Blasi e Cerra, cambiarono idea: ad abbattere il Dc-9 era stata una bomba. Un ripensamento, questo, che di fatto invalidò il giudizio finale della commissione tanto da costringere il giudice istruttore a chiedere un supplemento di perizia. Il risultato, però, fu identico: i pareri degli esperti rimasero discordi. Tra coloro che non cambiarono opinione su ciò che aveva provocato il disastro aereo c'è il professor Lecce. Egli è tuttora convinto che quella notte, nel cielo di Ustica, "qualcosa dall'esterno colpì la parte superiore sinistra della carlinga dell'aereo, facendolo precipitare dopo un breve tentativo di ammaraggio durato dai quattro ai sei minuti"

Nell’intervista, ad opera di Reno Dinoi e Paola Pentimella Testa (settembre 2000) il professore descrisse brevemente un altro breve episodio cui aveva assistito: “Una delle cose che ci colpì molto fu il comportamento di un esperto inglese da noi contattato per una consulenza. Dopo che recuperammo la prima delle due scatole nere dell'aereo, quella che registra tutti gli eventi sonori all'interno della cabina di pilotaggio, ci trovammo di fronte a delle registrazioni incomplete e disturbate. Nell'ultima parte dei nastri, pochi istanti prima del black-out che seguì all'impatto, erano stati incisi dei rumori, estranei alla cabina, che non riuscivamo a decifrare. Interpellammo allora un tecnico inglese esperto in questo genere di analisi, al quale spedimmo una copia delle registrazioni. Quando andammo a trovarlo in Inghilterra per concordare il lavoro, lui, che già aveva dato un’occhiata al materiale, si dimostrò molto disponibile a collaborare e ci fornì anche un preventivo per la sua consulenza.

Ottenuta la necessaria autorizzazione del giudice, ricontattammo l'esperto inglese che, inspiegabilmente, ci disse di non essere più disponibile per quel lavoro. Aveva detto di no a una ventina di milioni per pochi giorni di lavoro. L'idea che ci facemmo fu quella che qualcuno lo aveva avvicinato dicendogli di lasciar perdere. Anche in altre occasioni ci furono dette cose che, in seguito, furono rettificate o smentite. In particolare, in certe indagini svolte in ambienti inglesi i colloqui successivi ad alcuni studi sembravano essere favorevoli alla tesi del missile esterno. Poi, quando ci venivano inviati i rapporti scritti, le versioni erano inspiegabilmente cambiate. Ciò che a voce era certo, sulla carta diventava dubitativo o addirittura negava quanto sostenuto in precedenza. Che ci fosse dietro qualcuno che si prodigasse per cercare di indirizzare il risultato delle indagini in un senso anziché in un altro era abbastanza evidente”.

Giorgio Bocca, nel giorno dell’anniversario dello stesso anno, arrivò a fendere pesanti colpi proprio su questo argomento: “Quella di Ustica fu una strage di Stato di tipo particolare, non di un singolo Stato ma degli Stati legati all’Alleanza atlantica. Che fosse una strage di Stato era evidente: il Dc9 Itavia non era precipitato per un guasto nel mare di Ustica, doveva averlo colpito un missile lanciato da uno degli aerei che partecipavano alla caccia a un MiG libico.

Ma i cittadini fanno fatica ad accettare lo Stato che fa strage, lo Stato assassino, da sempre li lega allo Stato un patto di complicità: i cittadini che gli hanno delegato l'uso della violenza non solo per la guerra ma anche per la repressione poliziesca, sanno che esso può farne un uso distorto o fazioso, ma si sentono in qualche modo correi, poiché è una violenza che garantisce le loro proprietà, che mantiene l'ordine nelle loro città, che è al loro fianco contro i criminali. Da cui un timore reverenziale, verso il patto di mutuo soccorso, verso la sacralità di un patto con un ente che per Hegel, come per Wittgenstein, "è tutto senza il quale l'individuo è nulla". Di fronte alle indagini su Ustica molti italiani hanno esitato ad accettare la colpevolezza dello Stato che sapeva come erano andate le cose ma che cercava di nasconderle, in un concerto di menzogne e di reticenze di uomini politici ed alti ufficiali... Possibile, si dicevano questi concittadini, che dei generali, degli ammiragli, dei funzionari, dei tecnici, dei politici mentano? Per difendere chi?

Eppure la prova che un complotto del silenzio e del depistaggio è possibile l’avevamo già avuta pochi anni prima della tragedia di Ustica, esattamente undici anni prima nei giorni della bomba di Piazza Fontana subito coperta dalla rete delle azioni ed omissioni compiute da poliziotti, magistrati, uomini di governo”.

Le commissioni tecniche, via via nominate, demolirono progressivamente la spiegazione dei falsi “plots”: “[…] è da tutti accettata l’ipotesi che si tratti di oggetti reali e cioè che essi rappresentino effettivamente aerei in volo […]”.

L’ipotesi del missile, quella che trovò più consensi fuori dagli ambienti militari (e, di conseguenza, più probabile) conobbe anche un altro testimone d’eccezione. Da subito, come detto, voci incontrollate parlarono di un tentativo di abbattere Gheddafi, magari col concorso di ufficiali libici ostili al governo del dittatore. E lo stesso Gheddafi ha più volte fatto mostra di conoscere la verità, su quella vicenda; stigmatizzando altre manovre NATO nel Tirreno, scrisse più tardi al nostro Paese, che vi aveva fatto parte: ”Non avete scordato certamente il delitto e la tragedia occorsa al DC9 dell’Itavia, abbattuto il 27.06.80, in cui hanno perso la vita decine e decine di vittime, a causa della aggressione ed in conseguenza della presenza delle basi e delle flotte militari, nel Mediterraneo, come non avete scordato l'attacco americano alla Jamahirija, che causò la morte di decine e decine di morti fra civili inermi le nostre donne, bambini e vecchi”.

E ancor di più recentemente, nel febbraio 98, in un’intervista a “la Stampa”, quando affermò: "Io sono il testimone, perchè io in quelle ore andavo in aereo verso la Jugoslavia ed io ho visto in mare la Sesta Flotta americana che manovrava dalle parti di Ustica. C'erano navi militari degli Stati Uniti. La gente che era con me temeva, aveva paura che ci abbattessero con un missile. Però noi, a differenza dei passeggeri del volo Itavia, siamo arrivati a destinazione sani e salvi. Quando abbiamo sentito dell'abbattimento di questo aereo che probabilmente noi eravamo l'obiettivo, e che loro volevano buttar giù il mio aereo". Dichiarazioni che potrebbero trovare in qualche riscontro nelle rivelazioni dei militari italiani operanti presso il citato sito radar di Marsala, che hanno riferito di aver seguito la sera del 27 giugno il volo di un velivolo di nazionalità libica - in rotta da Tripoli a Varsavia - che, giunto ai limiti dei nostri cieli, aveva compiuto una deviazione verso Est in direzione di Malta.

Il giudice Priore ha così definito i rapporti tra Italia e Libia: "tormentati e tormentosi, sia sul versante interno ove provocano spaccature in qualsiasi ambiente, che su quello esterno ove precipuamente inquietavano l'alleato maggiore, gli Stati Uniti, e irritavano quello prossimo, cioè la Francia”.

Qualcuno ritiene che la soluzione sia tutta qui.

Comunque sia, il 23 luglio 1990, l'inchiesta sul disastro fu affidata al giudice istruttore Rosario Priore, che nominò un altro collegio di periti. A livello giudiziario, le cose cominciarono a muoversi: il 15 gennaio dell’anno seguente il giudice emise le prime comunicazioni giudiziarie nei confronti di generali dell’Aeronautica; il 14 aprile 1992 la Commissione Stragi approvò inoltre la relazione conclusiva dell'inchiesta su Ustica, che segnalava duramente reticenze e menzogne di poteri pubblici e istituzioni militari; nell’estate ’94, si ebbero due diverse relazioni specialistiche: per i periti degli ufficiali inquisiti la causa della strage era una bomba, per il collegio nominato dal G.I. Priore una bomba nella toilette dell'aereo, ma due tra gli esperti presentarono un'altra relazione che non escludeva l’ipotesi del missile.

Il 17 giugno ’97 una nuova perizia radar evidenziò la presenza di diversi aerei militari in zona; e finalmente, il 31 luglio 1998, i pubblici ministeri romani Nebbioso, Roselli e Salvi chiesero il rinvio a giudizio per i generali dell'Aeronautica Lamberto Bartolucci (capo di Stato maggiore dell’A.M.), Zeno Tascio (capo del Servizio Informazioni), Corrado Melillo (gen. di brigata aerea) e Franco Ferri (sottocapo di Stato maggiore dell’A.M.) e per altri cinque ufficiali. Il 31 agosto 1999 questi furono rinviati a giudizio per attentato contro gli organi costituzionali con l'aggravante dell'alto tradimento, mentre non si procedette per “strage” perché rimanevano ''ignoti gli autori del reato”.

Secondo il giudice Priore, in definitiva, non era vero che il cielo di Ustica fosse vuoto, riempito com’era di molti piccoli velivoli: e uno di questi si sarebbe avvicinato molto all’I-TIGI, volandovi immediatamente dietro, volontariamente o meno, mentre un altro, dal fianco destro dei primi due, avrebbe compiuto una virata verso di questi, in una tipica procedura d’attacco militare, fino ad incrociare la rotta del DC9, che subito dopo sarebbe esploso. Forse perché colpito da missile, coscientemente o meno, o forse per collisione. Una battaglia aerea nel Tirreno: una punizione per un MiG diretto in Jugoslavia, o in missione di ricognizione, ad esempio.

Per il Comitato Studi per Ustica, per le autorità militari, la spiegazione sta nell’ordigno, posizionato nella toilette anteriore, caricata a Bologna (molto dubbia per alcuni, in particolare Andrea Purgatori: come può una bomba nella toilette lasciare integro il lavandino ed il water, distruggendo al contempo l’aereo?). Qualcuno, infine, collega Ustica alla strage del 2 agosto del 1980, alla stazione di Bologna, eseguita forse per sviare le indagini dalla prima, forse per rinforzarne l’impatto emotivo nella società italiana, forse per rispondervi da parte di altri gruppi. Ma Priore, comunque, non poté che formulare un’accusa contro ignoti, per il lancio del missile, segnalando al contempo “..distruzioni e sparizioni non casuali […] ma tutte in esecuzione di un preciso progetto di impedire ogni fondata e ragionevole ricostruzione dell’evento, dei fatti che lo avevano determinato, e di quelli che ne erano conseguiti” (sentenza-ordinanza).

In tutto questo periodo, a detta di molti le pressioni proseguirono, su giudici e giornalisti; Andrea Purgatori, in una recente intervista, ha usato parole precise per descrivere il clima del periodo: “Quando Priore si trovava nella fase cruciale dell'inchiesta, tutti i suoi 16 collaboratori - cancellieri, poliziotti dell'Ucigos e carabinieri - di cui nessuno poteva conoscere le generalità, hanno subito nell'arco di 40 giorni un tentativo di effrazione in casa, in macchina o in ufficio. A me personalmente hanno spaccato la macchina due volte e rivolto minacce verbali, anche di morte. Ho ricevuto fino a 40 telefonate anonime al giorno. Periodi in cui non si riusciva a dormire. E le pressioni sono proseguite. Solo due anni fa mi hanno distrutto la macchina senza rubare nulla, spaccato la porta di casa e rovistato tra le carte che avevo in ufficio”.

Il 23 giugno 2000 la procura militare chiese l’archiviazione del caso; però, il 28 settembre seguente si aprì a Roma nell'aula bunker di Rebibbia, davanti alla terza sezione della Corte d'Assise di Roma, il processo sui presunti depistaggi.

Aldo Davanzali, presidente dell’Itavia, chiese allo Stato un risarcimento di 1.700 miliardi per i danni morali e patrimoniali subiti dopo la strage di Ustica, nell’aprile 2001 (l’Itavia ottenne poi 108 milioni di euro, perché lo Stato non aveva garantito la sicurezza dell’aerovia); e lo stesso fece la Corte dei Conti, chiedendo un risarcimento di 27 miliardi a militari e personaggi coinvolti, come compenso per il recupero della carcassa del DC9.

Il 19 dicembre 2003 i pm Erminio Amelio, Maria Monteleone e Vincenzo Roselli, nel corso delle requisitorie in Corte d'Assise, chiesero la condanna a 6 anni e 9 mesi di reclusione, di cui 4 anni condonati, per i generali Lamberto Bartolucci e Franco Ferri, accusati di attentato agli organi costituzionali con l'aggravante dell'alto tradimento; secondo l'accusa avrebbero omesso di fornire informazioni al Governo. Fu inoltre chiesta l'assoluzione nei confronti dei generali Zeno Tascio e Corrado Melillo.

Il processo sui presunti depistaggi si chiuse il 30 aprile 2004: la Corte d'Assise di Roma assolse i generali dell'Aeronautica Lamberto Bartolucci, Franco Ferri, Zeno Tascio e Corrado Melillo da tutte le accuse. Per un capo di imputazione, nei confronti di Ferri e Bartolucci, riguardante le informazione errate fornite al Governo in merito alla presenza di altri aerei la sera dell'incidente, il reato fu considerato prescritto.

I militari non si macchiarono del reato di alto tradimento, ma solo di quello di turbativa. Non riferirono al Governo i risultati dell'analisi dei dati del radar Marconi e notizie in merito al possibile coinvolgimento nel disastro di altri aerei. Secondo gli stessi giudici era errata l'ipotesi che il MiG trovato sulla Sila fosse precipitato la sera del 27 giugno ’80.

Il Pm e i difensori di parte civile, oltre ai legali dell’Itavia, presentarono una richiesta di appello contro la sentenza nel febbraio dell’anno seguente. Tra ottobre e novembre 2005, i magistrati assolsero dall’accusa di “omessa comunicazione” ("perché il fatto non sussiste") anche l'ex Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica Lamberto Bartolucci ed il suo vice, Franco Ferri. Per la Corte sostenere che accanto al Dc9 la sera del disastro c'era un aereo significava compiere "un salto logico non giustificabile". Tale ipotesi, si legge nelle motivazioni, era supportata solo "da deduzioni, probabilità e basse percentuali e mai da una sola certezza". Il capo di stato maggiore dell'Aeronautica, Lamberto Bartolucci, non poteva, secondo il giudice Antonio Cappiello, "omettere di comunicare al ministro della Difesa ciò che probatoriamente gli era ignoto".

Ma la Procura Generale di Roma fece ricorso alla Cassazione affinché fosse annullata la sentenza della Corte d'Appello, proponendo che "il fatto contestato non era più previsto dalla legge come reato" anziché "perché il fatto non sussiste”.

Secondo la Procura, il fatto sussisteva, dunque.

Il 10 gennaio 2007, però, la I Sezione Penale della Corte di Cassazione dichiarò inammissibile il ricorso della Procura Generale del Tribunale di Roma contro l'assoluzione dei generali Bartolucci e Ferri, rigettando anche il ricorso delle parti civili ( avanzato nel frattempo da Presidenza del Consiglio e Ministero della Difesa).

La sen. Bonfietti, insieme ad altri, considera una questione di dignità nazionale l’approdo alla conoscenza di chi, in tempo di pace, ha abbattuto un aereo civile italiano. Ancora oggi, non è stato riconosciuto alcun colpevole.

Inoltre, nell’arco di decenni, tra perizie e contro-perizie, studi e ricerche, silenzi e mezze ammissioni, si rischiò di perdere il contatto con l’aspetto umano della vicenda, di scordare che su un Douglas DC9 avevano in ogni caso perso la vita 81 persone:



Andres Cinzia (24), Andres Luigi (32), Baiamonte Francesco (55), Bonati Paolo (16), Bonfietti Alberto (37), Bosco Alberto (41), Calderone Maria Vincenza (58), Cammarata Giuseppe (19), Campanini Arnaldo (45), Casdia Antonio (32), Cappellini Antonella (57) anni, Cerami Giovanni (34), Croce Maria Grazia (40), D’Alfonso Francesca (7), D’Alfonso Salvatore (39), D’Alfonso Sebastiano (4), Davì Michele (45), De Cicco Giuseppe Calogero (28), De Dominicis Rosa (Allieva Assistente di volo Itavia) (21), De Lisi Elvira (37), Di Natale Francesco (2), Diodato Antonella (7), Diodato Giuseppe (1), Diodato Vincenzo (10), Filippi Giacomo (47), Fontana Enzo (Copilota Itavia) (32), Fontana Vito (25), Fullone Carmela (17), Fullone Rosario (49), Gallo Vito (25), Gatti Domenico (Comandante Pilota Itavia) (44), Gherardi Guelfo (59), Greco Antonino (23), Gruber Berta (55), Guarano Andrea (37), Guardì Vincenzo (26), Guerino Giacomo (19), Guerra Graziella (27), Guzzo Rita (30), Lachina Giuseppe (58), La Rocca Gaetano (39), Licata Paolo (71), Liotta Maria Rosaria (24), Lupo Francesca (17), Lupo Giovanna (32), Manitta Giuseppe (54), Marchese Claudio (23), Marfisi Daniela (10), Marfisi Tiziana (5), Mazzel Rita Giovanna (37), Mazzel Erta Dora Erica (48), Mignani Maria Assunta (30), Molteni Annino (59), Morici Paolo (Assistente di volo Itavia) (39), Norrito Guglielmo (37), Ongari Lorenzo (23), Papi Paola (39), Parisi Alessandra (5), Parrinello Carlo (43), Parrinello Francesca (49), Pelliccioni Anna Paola (44), Pinocchio Antonella (23), Pinocchio Giovanni (13), Prestileo Gaetano (36), Reina Andrea (34), Reina Giulia (51), Ronchini Costanzo (34), Siracusa Marianna (61), Speciale Maria Elena (55), Superchi Giuliana (11), Torres Pierantonio (32), Tripiciano Giulia Maria Concetta (45), Ugolini Pierpaolo (33), Valentini Daniela (29), Valenza Giuseppe (33), Venturi Massimo (31), Volanti Marco (36), Volpe Maria (48), Zanetti Alessandro (18), Zanetti Emanuele (39), Zanetti Nicola (6).


Il titolo della relazione della Commissione stragi del 1992 è eloquente: l’82° vittima è l’Aeronautica Militare.

A loro, nel corso degli anni, vanno aggiunte alcune morti sospette: in alcuni casi sicure coincidenze, in altri decessi misteriosi, di personaggi che forse, nella tomba, portarono anche la loro testimonianza decisiva: tra questi Mario Naldini e Ivo Nutarelli (i due piloti istruttori dell’F-104), 28 agosto 1988, nell’incidente aereo delle Frecce Tricolori a Ramstein, provocando 59 morti e 368 feriti; maresciallo Mario Alberto Dettori (in servizio al Centro radar di Poggio Ballone), 31 marzo 1987, impiccato ad un albero vicino Grosseto, in campagna: nell’ultimo periodo appariva ansioso, preoccupato, continuava a cercare microcamere nascoste; maresciallo Franco Parisi del radar di Otranto, in servizio la presunta sera della caduta del MiG libico, 21 dicembre 1995, impiccato ad un albero: pochi giorni dopo sarebbe stato interrogato dal giudice Priore.

Solo la voce di una figlia, nel nostro caso, avrebbe dunque potuto concludere questa vicenda, da "Ustica - La via dell'ombra" di Flaminia Cardini - Sapere 2000.

Per abbattere, del tutto, il muro di gomma.


Caro diario sono felice, oggi è il 26 giugno 1980 e sono stata promossa. Evviva!!! (ho tredici anni) Mamma e Papà sono molto orgogliosi di me, mi hanno promesso da mesi che il loro regalo per la promozione sarà portarmi con loro in Sicilia. Evviva!! Ce l'ho fatta e non vedo l'ora di fare il mio primo viaggio in aereo, anche per i miei genitori è la prima volta. Oggi ho telefonato a mia cugina a Palermo, le ho detto che fra qualche giorno ci vedremo, anche la nonna è contentissima e non vede l'ora, ed anch'io sono impaziente di fare questo viaggio.

Caro diario oggi 26 giugno 1980 c'è stato un cambiamento nel programma. La mamma ha detto che siccome non ha trovato posto in aereo, partono solo loro due con la speranza di poter trovare due biglietti, promettendomi un nuovo regalo al ritorno. Uffa!!! Non è giusto! Sono arrabbiatissima! Non voglio un altro regalo. Ho pianto tutto il pomeriggio, ma le mie lacrime sono servite solo a far partire la mamma molto triste. Le sue parole per consolarmi sono state: "tu devi badare alla famiglia perché sei la più giudiziosa". Uffa! Mamma mi ha tradita, non è stata di parola. Non si fanno promesse se poi non si mantengono. Io voglio il regalo promesso. Voglio volare con Mamma e Papà.

Oggi 27 sono partiti, nel pomeriggio hanno telefonato per dire che l'aereo partiva in ritardo, volevano parlare con me, ero così arrabbiata che non sono andata al telefono.

Caro diario oggi 28 giugno 1980 non crederai a quello che ti dirò ora: la Mamma e il Papà non hanno ancora telefonato per dire che sono arrivati. Qui sono tutti agitati. Non credo a quello che sento, dicono che l'aereo è scomparso!! No! Non è possibile, non può succedere niente di brutto ai miei genitori. Io sono la piccola di casa. Ma perché a casa nostra c'è sempre il dottore e mi mandano sempre a comprare la camomilla? Perché i miei fratelli e mia sorella piangono sempre? Perché la TV fa vedere sempre quelle immagini nel mare? Sono tutte finte, come dice sempre la Mamma! Se potessi sentirla al telefono la Mamma mi tranquillizzerebbe. Mi sento morire. I miei fratelli sono partiti a cercare Mamma e Papà. Sono due giorni che tengo le dita incrociate, qui sono tutti disperati, ma io no, perché so che Mamma e Papà torneranno molto presto. C'è un via vai di parenti, amici che ci opprimono, piangono. Non sanno che lo fanno inutilmente, perché non è vero niente, Mamma e Papà torneranno da me, perché non lascerebbero mai la propria piccola qui sola. I miei genitori mi vogliono troppo bene per abbandonarmi. Tornate presto vi prego. Caro diario mi stanno facendo credere a questa realtà, ma io tengo forte le mie dita incrociate, quello che sto passando non te lo so descrivere. Mi riempio di pizzicotti per svegliarmi da questo incubo che non finisce mai. Papà, Mamma dove siete andati a finire? Perché mi lasciate così sola... In famiglia c'è tensione, non so più se chiamarla famiglia, ora non è rimasto niente della mia meravigliosa famiglia. Solo il dolore regna fra noi e fa continuare i nostri giorni. Oh Dio, che sta succedendo a noi tutti? Perché hai voluto questo? Chi ha voluto e permesso tutto questo? Perché delle persone fanno queste cattiverie? Perché devono esistere questi sbagli e far soffrire così la gente? Caro diario oggi sono andata nella casa dove ero così felice con i miei genitori, è così vuota, spoglia, lugubre ed ho cominciato a sognare ad occhi aperti. Vedo Mamma e Papà scendere dall'autobus con delle grandi valige, entrare in casa, salire le scale ed io precipitarmi ad abbracciarli! Oh Signore ti ringrazio!! Non mi stacco più da loro, non mi voglio più svegliare, portatemi via con voi vi prego. Ho pianto tanto, tanto, urlato più forte che potevo, avrei voluto farli scendere da quel maledetto aereo che me li aveva portati via. Sono stanca, nauseata, ho paura che impazzirò o forse pazza lo sono già. Vorrei farla finita. Mamma, Papà perché non mi avete portato via con voi? Io non riesco più a vivere! Caro diario sono strastufa, non ce la faccio più, ora ti saluto, vado a dormire, spero che i miei sogni mi portino via con loro.

Anno 1990. Da quel triste momento di dieci anni fa tutti mi hanno sempre detto che ero fortunata ad essere così piccola e che quindi non soffrivo più di tanto, ma non sanno che quando la speranza muore la vita non ha più senso. Quella bambina è cresciuta, ora ha ventitré anni, ed ancora non sa che senso dare a questa sua sofferenza.




                                                                                    Linda Lachina



Per informazioni:



L'Associazione dei parenti delle vittime continua ad esistere, allo scopo di "accertare la verità e quindi le responsabilità civili e penali della strage di Ustica, con tutte le iniziative possibili": la senatrice Daria Bonfietti, parlamentare dei Ds, è il presidente.

La sede è in Via Polese, 22 - 40122 Bologna, tel. 051/253925 fax 051/253725.




I siti Internet sono:

http://www.comune.bologna.it/iperbole/ustica

http://www.stragediustica.info

 



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.