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N. 24 -
Dicembre 2009
(LV)
la verità affondò al Tramonto
Ustica, 27 giugno 1980
di Cristiano Zepponi
Alle
20.08
esatte
del
27
giugno
1980,
dall’aeroporto
“Marconi”
di
Bologna,
decollò
un
DC9
(bimotore
a
getto
da
trasporto
civile),
diretto
all’aeroporto
“Punta
Raisi”
di
Palermo:
è il
volo
IH870
della
compagnia
privata
ITAVIA.
In
realtà
aveva
un
ritardo
di
due
ore,
visto
che
avrebbe
dovuto
prendere
il
volo
alle
18.15.
Il
nome
del
velivolo,
per
le
autorità
aeronautiche,
è
I-TIGI
(INDIA-TANGO
INDIA
GOLF
INDIA,
in
linguaggio
militare)
. A
bordo
si
trovavano
77
passeggeri,
di
ogni
età,
tra
cui
undici
bambini
e
due
neonati,
oltre
a
quattro
membri
dell’equipaggio.
Dopo
la
salita,
il
velivolo
virò
fino
ad
incanalarsi
nell’aerovia
“ambra
14”,
nome
che
codifica
uno
dei
tanti
“sentieri
del
cielo”
che
attraversano
la
nostra
penisola,
conosciuti
solo
dagli
addetti
ai
lavori,
e
illuminati
da
alcuni
radiofari.
All’altezza
di
Firenze
entrò
poi
in
altra,
chiamata
“ambra
13”.
Quindi,
passò
sopra
il
Tirreno,
seguito
dal
radar
di
zona,
quello
dell’aeroporto
romano
di
Ciampino,
attraverso
i
“plot”,
sagome
luminose
di
risposta
che
appaiono
sul
radar
quando
il
segnale
elettromagnetico
da
questo
inviato
“rimbalza”
sul
corpo
metallico
degli
aeromobili,
segnalandone
la
posizione,
la
rotta,
la
velocità.
L’andata
ed
il
ritorno
del
segnale
avvenivano
in
sei
secondi.
L’identificazione,
invece,
avveniva
attraverso
un
altro
segnale,
il
transponder,
che
oltre
a
permettere
l’assegnazione
di
un
codice
numerico
identificativo
del
velivolo,
forniva
alla
torre
anche
la
quota
cui
questo
viaggiava.
Il
volo
IH870
ricevette
da
Ciampino
il
codice
1136.
Una
ventina
di
minuti
dopo
il
decollo
il
volo
procedeva
normalmente,
come
nel
resto
della
giornata,
dato
che
il
velivolo
aveva
compiuto
diversi
viaggi
a
partire
dalla
mattina;
ma
alle
20.26
il
radar
di
Ciampino,
e un
altro
nei
pressi
di
Ferrara,
della
difesa
aerea,
chiesero
al
DC9
ITAVIA
di
identificarsi,
nonostante
il
transponder
fosse
sicuramente
attivo,
data
la
“targa”
assegnata
all’aeroplano,
1136.
Il
segnale,
secondo
le
torri,
appariva
confuso,
le
tracce
poco
chiare,
e la
richiesta
fu
avanzata
nuovamente
quattro
minuti
dopo,
accompagnata
dalla
proposta
di
attivare
il
transponder
stesso.
Ma
l’apparecchio
funzionava,
e
bene,
tanto
che
poco
dopo
riapparve
sul
radar
l’atteso
1136.
La
torre
di
Ciampino,
allora,
chiese
informazioni
sulla
posizione
esatta;
l’aereo
rispose
di
trovarsi
esattamente
allineato
col
radiofaro
di
Firenze.
“Adesso
vedo
che
sta
rientrando”,
rispose
Ciampino:
una
frase
senza
senso
per
il
pilota
dell’aereo,
il
capitano
Gatti,
che
sapeva
benissimo
di
non
aver
mai
variato
rotta.
E
non
mancò
di
farlo
notare:
“Noi
non
ci
siamo
mossi”,
precisò.
Alle
20.44,
arrivato
sul
lago
di
Bolsena,
il
capitano
Gatti
comunicò
quota
e
rotta
a
Ciampino;
ed
aggiunse
che
da
Firenze
avevano
incontrato
tutti
i
radiofari
spenti,
“Abbiamo
trovato
un
cimitero”,
testualmente.
Non
ne
funzionava
neanche
uno:
e
Ciampino
confermò,
avvertendo
che
anche
quello
di
Ponza
era
fuori
uso.
Alle
20.56
il
velivolo
si
trovava
a 43
miglia
nautiche
a
sud
di
Ponza,
al
limite
della
portata
del
controllo
aereo
di
Ciampino,
che
lo
autorizzò
a
prendere
contatto
con
la
torre
dell’aeroporto
Punta
Raisi
di
Palermo
per
cominciare
la
discesa.
All’atterraggio
mancavano
venticinque
minuti,
la
quota
era
di
25000
piedi,
la
velocità
di
800
km/h.
L’equipaggio,
probabilmente
provato,
si
trovava
in
cabina,
e
stava
ridendo;
si
raccontavano
barzellette,
alcune
particolarmente
piccanti,
e
qualcuno
tra
loro
non
mancò
di
farlo
notare:
“sporca
questa”,
e
subito
dopo
“sentite
questa..”.
Di
colpo,
una
voce
concitata
aggiunse
solo
una
frazione
di
parola,
“gua..”.
Nient’altro.
Alle
20.59,
il
DC9
ITAVIA
scomparve
dal
radar
di
Ciampino;
alle
21.04,
allarmato
dalla
mancata
risposta
radar
del
velivolo,
un
operatore
chiamò
la
cabina,
senza
risultati.
Si
affrettò
allora
a
chiedere
informazioni
all’aeroporto
di
Palermo,
nel
caso
in
cui
l’avesse
già
preso
in
carico:
ma
non
lo
vedevano
neanche
loro.
Alle
21.05
ancora
la
torre
romana
chiese
l’ausilio
di
un
altro
velivolo,
dell’AIR
MALTA,
poco
distante
dal
punto
in
cui
era
scomparso
il
volo
Bologna-Palermo:
ma
anche
questi
i
tentativi
radio
fallirono,
non
rispondeva
nessuno.
Ciampino
riprovò
con
Palermo,
senza
successo,
e
poi
con
il
radar
della
difesa
aerea
di
Marsala
(h.
21.09,
21.14),
che
a
sua
volta
si
rivolse
al
comando
di
Martinafranca,
e
questi
di
nuovo
al
radar
di
Licola.
Nessuno
sapeva.
Alle
21.22,
il
centro
di
Martinafranca
avviò
le
procedure
di
soccorso,
allertando
il
15°
stormo
SAR
(Search
&
Rescue)
di
Ciampino.
Alle
22.00
decollarono
i
primi
elicotteri,
degli
HH-3F
dell’Aeronautica
Militare,
che
arrivarono
sul
posto
un’ora
e
dieci
dopo;
ma
si
accorsero
presto
che
ogni
ricerca
era
impossibile,
nel
buio,
e
per
di
più
il
radar
aveva
fornito
coordinate
sbagliate
di
cinquanta
chilometri:
quindi
finirono
per
arrendersi,
dopo
aver
sorvolato
invano
il
tratto
di
mare
adiacente
l’isola
siciliana
di
Ustica.
Alle
undici
e
mezzo
il
telegiornale
riportò
la
notizia
dell’aereo
scomparso,
riferendo
anche
di
“voci”
riguardo
un
presunto
dirottamento.
L’aereo
fu
“dato
per
disperso”,
inizialmente,
ai
parenti
dei
passeggeri.
Il
giorno
dopo,
intorno
alle
5.00,
un
altro
elicottero
segnalò
detriti
sulla
superficie
del
mare;
un
Atlantic,
poco
dopo,
avvistò
una
chiazza
di
cherosene,
e
poi
oggetti,
sedili,
cuscini.
Il
mare
cominciava
a
restituire
ciò
che
aveva
preso,
lentamente;
verso
le
nove,
poi,
affiorarono
in
superficie,
tra
gli
altri,
anche
altre
figure:
i
corpi.
Si
recuperarono,
confusamente,
38
salme;
in
più
vi
erano
altri
resti
umani,
inidentificabili,
che
portarono
il
totale
a
43.
Gli
altri
38
rimasero
in
fondo
al
mare,
per
sempre.
L’aereo
perse
innanzitutto
il
motore
destro,
secondo
le
successive
ricostruzioni
del
momento
dell’esplosione;
poi
tutta
la
fiancata
con
i
finestrini,
andò
via
la
luce,
la
cabina
a
quel
punto
si
depressurizzò
e i
passeggeri
morirono,
tutti,
ancora
in
volo:
infatti,
le
autopsie
chiarirono
che
i
passeggeri
erano
deceduti
per
“
gravissime
lesioni
polmonari
da
decompressione”,
con
“lesioni
traumatiche.
Poi
si
staccò
anche
l’altro
motore
e la
cellula
dell’aereo
si
troncò
in
due,
cadendo
sulla
superficie
del
mare.
In
quei
giorni
concitati
si
commisero,
probabilmente,
molti
errori:
le
salme
furono
trasportate
prima
a
Napoli
e
poi
a
Palermo,
per
l’autopsia,
ma
molti
familiari
si
dichiararono
contrari,
o ne
pretesero
la
restituzione;
né
fu
programmato
un
inventario
degli
oggetti
rinvenuti,
che
furono
accatastati
alla
rinfusa,
senza
criterio.
Furono
rinvenuti,
inoltre,
frammenti
sicuramente
non
appartenenti
all’aereo:
due
salvagente
ed
una
sonda
metereologica.
Rino
Formica,
ministro
dei
trasporti,
formò
il
giorno
dopo
una
commissione
tecnica
d’inchiesta,
affidata
all’ing.
Luzzatti;
contemporaneamente,
prima
il
sostituto
procuratore
di
Palermo
Aldo
Guarino,
poi
quello
di
Roma,
Giorgio
Santacroce,
aprirono
un’inchiesta
per
la
Magistratura.
Oltre
a
Ciampino,
come
detto
al
limite
dell’autonomia,
l’imponente
apparato
radar
della
difesa
aerea
avrebbe
potuto
garantire
i
filmati
mancanti:
in
particolare,
risultavano
coinvolti
i
centri
di
Licola
e
Marsala.
Ed
infatti,
il
14
luglio,
i
due
procuratori
si
affrettarono
a
richiedere
gli
atti
dei
tracciati
radar
alle
tre
torri;
ma
alcuni
problemi
cominciarono
allora
a
rallentare
i
lavori.
Il
radar
di
Licola,
manuale,
affidava
la
trascrizione
dei
dati
al
braccio
di
un
operatore,
senza
registrarli;
questi
li
trascriveva
su
un
registro,
detto
DA
1. A
Licola
si
affrettarono
a
precisare
che
nessuno
aveva
visto
niente
di
strano,
la
sera
del
27
giugno;
né
la
Magistratura
poté
servirsi
del
DA
1,
che
nel
frattempo
era
scomparso.
Il
radar
di
Marsala,
automatico,
poteva
servire:
ma
subito
dopo
l’incidente
era
stato
spento,
per
garantire
una
simulazione
virtuale,
secondo
l’Aeronautica.
Normalmente,
l’operazione
durava
non
più
di
quattro
minuti:
quel
giorno,
in
totale,
trentanove
I
nastri
furono
forniti
all’organo
giudiziario
solo
il 3
ottobre:
un
po’
troppo
in
ritardo.
Ma,
comunque,
non
presentavano
anomalie.
L’ipotesi
del
missile,
di
un
deliberato
abbattimento,
volontario
o
meno,
cominciò
presto
a
diffondersi:
lo
dissero
controllori
radar,
dipendenti,
addetti
vari,
ai
familiari
e
alla
stampa.
Il
Corriere
della
Sera
la
inserì
tra
le
più
probabili,
insieme
a
molte
altre
testate.
Lo
riferì
anche
il
generale
Rana,
direttore
del
Registro
Aeronautico
Italiano,
al
ministro
dei
trasporti
Formica;
il
presidente
della
compagnia
Itavia,
Aldo
Davanzali,
che
affermò
il
17
dicembre
di
avere
la
certezza
che
ad
abbattere
il
suo
DC-9
fosse
stato
un
missile
lanciato
da
un
aereo;
e
più
recentemente
(25
gennaio
2007)
anche
il
presidente
emerito
della
Repubblica
Francesco
Cossiga,
in
un'intervista
a
Radio
Rai,
quando,
parlando
della
strage,
scagionò
Libia
e
Stati
Uniti
d'America
aggiungendo
di
non
poter
dire,
pur
sapendolo,
qual
è il
Paese
alleato
che
“puntando
male
un
missile”
colpì
il
DC9.
Forse,
le
iniziali
voci
che
sussurravano
di
un
dirottamento,
invece,
aprirono
in
qualche
modo
la
strada
a
quella
della
bomba,
piazzata
eventualmente
a
Bologna;
ma
circolò
anche
l’idea
della
collisione
in
volo,
o di
una
quasi-collisione
con
uno
o
più
velivoli
militari,
a
detta
di
molti
francesi
o
americani.
L’Aeronautica,
invece,
soprattutto
attraverso
i
rapporti
del
SIOS
(sevizi
segreti
dell’Arma
aerea)
propendeva
per
la
spiegazione
più
semplice,
e
più
comune:
un
cedimento
strutturale;
la
cellula
dell’aereo
si
sarebbe
spezzata
da
solo,
durante
una
turbolenza,
per
carenza
di
manutenzione
e
revisioni,
imputabile
quindi
alla
ditta
Itavia,
su
un
aeroplano
comunque
datato.
Il
che,
in
parte,
era
vero:
il
primo
modello
di
Douglas
DC9
aveva
volato
la
prima
volta
il
25
febbraio
del
1965.
Ma
si
tratta
di
un
modello
affidabile,
robusto,
e
comune
nei
cieli
occidentali;
inoltre,
l’ITAVIA
dimostrò
che
aveva
ricevuto
controlli
idonei
senza
mai
mostrare
lacune.
Inoltre,
quel
giorno
non
si
registrarono
particolari
turbolenze,
ed
il
capitano
Domenico
Gatti
era
un
veterano,
esperto
e
attento,
con
più
di
7000
ore
di
volo
alle
spalle;
un
cedimento,
la
perdita
della
porzione
di
coda
dell’aereo,
gli
avrebbero
dato
il
tempo,
come
dimostrato,
di
dare
l’allarme,
invece
di
poter
pronunciare
solo
una
sillaba
in
una
frazione
di
secondo.
L’ipotesi,
insomma,
faceva
acqua
da
tutte
le
parti:
al
punto
che
se
ne
accorse
anche
l’Aeronautica,
dopo
che
questa
era
stata
bocciata
da
tutte
le
Commissioni
nominate,
a
partire
da
quella
Luzzatti.
A
quel
punto,
passò
nel
dimenticatoio.
Naturalmente,
ottenuti
i
tracciati
radar
dal
controllo
del
traffico
aereo
di
Ciampino,
il
sostituto
procuratore
Santacroce
promosse
subito
la
ricerca
di
un
team
specializzato
nella
decifrazione
di
simili
nastri.
Si
rese
allora
necessario
un
viaggio
a
Washington,
per
lui
ed
un
pool
di
tecnici
della
Commissione
Luzzatti
e
dell’Itavia,
per
ottenere
la
collaborazione
di
rinomati
esperti
americani.
Questi
evidenziarono
tre
plots,
punti
alla
destra
della
direzione
di
volo
del
DC9;
secondo
uno
di
loro,
si
trattava
delle
tracce
di
un
velivolo
da
combattimento,
impegnato
in
una
classica
simulazione
d’attacco:
il
velivolo
attaccante
avrebbe
seguito
l’I-TIGI,
virato
improvvisamente
largo
sulla
destra
per
allargarsi
e
infine
attraversare
la
rotta
dell’”avversario”,
già
scomparso
dai
radar
(e
quindi
abbattuto).
Per
gli
esperti
dell’Aeronautica,
si
trattava
di
falsi
echi.
Inoltre,
da
allora
in
poi,
nelle
dichiarazioni
dei
suoi
membri
l’Arma
Azzurra
ha
negato
che
si
stessero
svolgendo
esercitazioni,
nella
zona,
e
che
vi
fosse
traffico
aereo
nello
spazio
di
cinquanta
chilometri,
intorno
all’I-TIGI.
Disse
lo
stesso
riferendo
in
Senato
il
ministro
della
difesa,
Lello
Lagorio,
il
10
luglio
di
quell’anno.
Inservibile
apparve
presto
l’apporto
della
portaerei
americana
Saratoga,
appartenente
alla
6°
flotta
del
Mediterraneo
e
ancorata
davanti
Napoli,
quella
sera:
il
suo
radar
era
spento,
per
evitare
di
disturbare
le
frequenze
di
radioamatori
ed
emittenti
locali,
come
d’altronde
spesso
accade.
E
almeno
questo
elemento
sembra
dimostrato
dalla
prassi.
L’accertamento
della
verità
procedeva
troppo
lentamente,
anche
a
causa
dei
tempi
incomprensibili
impiegati
dai
vertici
dell’Aeronautica
per
fornire
i
dati
richiesti
dalla
Magistratura.
Si
capì
presto,
tra
l’altro,
che
l’inchiesta
sarebbe
durata
a
lungo,
e
sarebbe
stata
molto
impegnativa.
Ma
un
altro
aereo
arricchì
ulteriormente
il
quadro.
Accadde
che
il
18
luglio
dello
stesso
anno,
un
mese
dopo
la
tragedia,
due
contadini
di
Castel
Silano
(Crotone),
richiamati
dal
frastuono,
scoprissero
i
resti
di
un
velivolo
da
combattimento,
del
tipo
MiG-23
“Flogger”,
ed
il
corpo
del
pilota,
steso
a
terra
poco
distante.
Chiamarono
allora
la
Forestale,
ma
subito
i
carabinieri
presero
in
competenza
la
zona,
sequestrandola
nel
tentativo
disperato
di
nascondere
l’evidenza.
Si
trattava
di
un
velivolo
russo,
prodotto
dalla
ditta
“Mikoyan
Gurevich”
a
partire
dal
1969;
in
particolare,
i
simboli
riprodotti
sulla
fusoliera
ne
svelavano
la
nazionalità
libica.
Dopo
anni,
molti
in
Calabria
ricordano
ancora
lo
stupore,
ed i
sospetti,
generati
da
quel
ritrovamento
sulle
alture
silane.
Per
la
Libia,
un
velivolo
da
addestramento
smarritosi
per
malore
del
pilota
(accettando
per
un
attimo
questa
eventualità,
peraltro
assai
inverosimile,
bisognerebbe
riflettere
sulla
sicurezza
della
nostra
difesa
aerea,
evidentemente
assai
più
lenta
ad
individuare
la
minaccia
delle
orecchie
dei
due
contadini);
per
altri,
un
aereo
diretto
nella
Jugoslavia
socialista,
mèta
di
rifornimento
e
riparazione
nelle
locali
officine
aeronautiche,
magari
col
silenzioso
assenso
dei
nostri
servizi
segreti,
e
l’appoggio
momentaneo
in
aeroporti
abbandonati
in
Sicilia.
Uno
dei
medici
legali,
avvallando
le
più
sinistre
tra
le
ipotesi,
definì
il
corpo
del
pilota
africano
in
“avanzatissimo
stato
di
decomposizione”,
“quindici
o
venti
giorni”:
vicino
alla
data
del
28
quindi.
In
seguito,
incredibilmente,
cambiò
idea.
Il
31
luglio,
la
magistratura
di
Crotone
archiviò
l’inchiesta
su
questo
“secondo”
aereo,
ed i
resti
del
pilota
tornarono
in
Libia,
veloci
quasi
com’erano
venuti,
insieme
a
gran
parte
di
quelli
del
MiG.
I
rimanenti
andarono
ad
intasare
un
hangar
del
Centro
Sperimentale
dell’Aeronautica,
a
Pratica
di
Mare.
Dopo
la
prima
ricostruzione,
che
sembrava
non
aver
convinto
proprio
nessuno
(alcuni
giornalisti
in
primis),
l’Aeronautica
virò
su
una
spiegazione
più
efficace,
e
verosimile:
quella
della
bomba
a
bordo.
Tutte
le
commissioni
da
questa
nominate
propendevano
per
questa
ricostruzione.
I
rottami
dell’aereo
si
erano
distribuiti
sul
fondale
raggruppati
in
cinque
zone:
-
scaletta
di
accesso
posteriore,
pezzi
della
toilette
posteriore,
pannelli
laterali
posteriori
della
fusoliera;
-
estremità
dell’ala
sinistra;
-
troncone
di
coda;
-
ali
e
fusoliera,
che
avevano
proseguito
il
volo
per
qualche
chilometro
in
più
(essendo
il
“collasso”
avvenuto
nella
parte
posteriore
del
velivolo);
-
motori,
in
posizione
simmetrica
rispetto
alla
traiettoria
di
volo,
ancora
più
avanti.
La
presenza
delle
5
“aree”,
ed
il
loro
allineamento
nel
senso
della
direzione
del
volo,
indica
che
il
DC9
non
si
era
disintegrato
in
aria,
ma
aveva
subito
una
sequenza
di
rotture
progressive.
La
scatola
nera,
come
tutto
il
resto,
si
trovava
allora
in
fondo
al
Mediterraneo,
a
3700
metri
di
profondità:
ed
evidentemente
il
bilancio
italiano
non
fu
setacciato
al
punto
di
reperire
i
mezzi
per
andare
tanto
in
fondo.
Servivano
dieci
miliardi.
Piano
piano,
come
accade
spesso,
l’inchiesta
rallentò
di
fronte
all'impedimento.
La
scatola
nera
avrebbe
chiarito
tutto,
secondo
molti,
ma
rimaneva
irraggiungibile.
E
allora
si
fece
largo
l’idea
che
irraggiungibile
fosse
anche
una
spiegazione
definitiva,
e le
indagini
si
arenarono,
tra
l’indifferenza
generale.
Fu
allora
che
Andrea
Purgatori,
del
Corriere
della
Sera,
coniò
l’espressione
“muro
di
gomma”,
per
rappresentare
l’impermeabilità
della
società
italiana
alla
divulgazione
di
nuove
ricostruzioni
e
informazioni
sulla
vicenda
del
volo
IH870
Bologna-Palermo.
Tacque
il
governo,
tacquero
le
istituzioni,
tacquero
i
notiziari;
per
troppi
anni,
gli
aggiornamenti
sul
caso
caddero
nel
vuoto.
Nel
frattempo,
nel
marzo
del
1982,
la
commissione
Luzzatti
concluse
i
lavori:
l’aereo
era
esploso
in
volo.
Restava
da
scegliere
la
bomba,
o il
missile.
Due
anni
dopo,
nel
gennaio
dell’’84
il
sostituto
procuratore
Santacroce
passò
l’inchiesta
al
giudice
istruttore
Vittorio
Bucarelli;
questi,
nel
dicembre
successivo,
nominò
un’altra
Commissione,
affidata
al
prof.
Massimo
Blasi.
Dopo
quattro
lunghi
anni,
i
tecnici
fornirono
le
risposte,
giustificando
il
ritardo
con
l’impossibilità
di
accedere
ai
dati
del
velivolo,
contenuti
a
bordo;
il
16
marzo
1989.
Il
collegio
dei
periti
consegnò
al
G.I.
Bucarelli
la
relazione
con
la
tesi:
missile
lanciato
da
un
aereo.
Ma
il
27
maggio
del
1990,
stranamente,
due
dei
cinque
periti
si
dissociarono
dalle
conclusioni
per
sostenere
la
tesi
di
una
bomba
a
bordo.
L’esperienza
subita,
nel
frattempo,
doveva
aver
avuto
per
i
familiari
delle
vittime
un
intenso
valore
unificante;
ed
il
silenzio
assordante
sullo
sfondo
spinse
alla
mobilitazione
collettiva
di
questa
variegata,
e
stupenda
umanità.
Il
27
giugno
1986
i
parenti
delle
vittime
si
rivolsero
compatti
al
presidente
della
Repubblica,
Francesco
Cossiga,
chiedendo
la
riapertura
delle
indagini;
questi
girò
la
richiesta
a
Bettino
Craxi,
presidente
del
consiglio,
che
la
rivolse
a
Giuliano
Amato,
ministro
dell’interno,
che
riferì
in
Parlamento,
e,
finalmente,
trovò
i
fondi
per
la
raccolta
dei
resti
tra
le
pieghe
del
bilancio.
Le
indagini,
effettivamente,
ripartirono.
Poco
dopo
la
Sen.
Daria
Bonfietti,
sorella
di
una
delle
vittime,
scrisse
spontaneamente
agli
altri
parenti,
per
stimolare
una
presa
di
posizione
netta
nei
confronti
dello
Stato,
che
smentiva
l’epiteto
“di
diritto”:
si
formò
così
l’”Associazione
dei
parenti
delle
vittime
della
strage
di
Ustica”.
A
questa,
per
smuovere
le
acque,
si
aggiunsero
alcuni
giornalisti,
i
quali,
come
detto,
continuarono
a
seguire
la
vicenda,
a
distanza,
negli
anni:
Giovanni
Mariabello
di
Repubblica,
Giovanni
Bianconi
dell’Avvenire,
il
già
citato
Andrea
Purgatori,
vari
reporter
del
Manifesto.
Per
sei
o
sette
anni,
a
questa
storia
non
si
era
interessato
nessun
altro.
Del
recupero
si
occupò
una
ditta
francese,
l’Ifremer,
che
impiegò
un
anno
e
mezzo
per
riportare
a
galla
i
frammenti,
terminando
solo
nel
maggio
del
1988.
Ma
le
polemiche
continuarono:
e la
scelta
della
società
transalpina
si
dimostrò
quantomeno
erronea.
Si
diceva
fosse
in
contatto
con
i
servizi
del
suo
paese,
ed
il
supposto
missile,
secondo
molti,
era
proprio
francese.
Un’ipotesi,
questa,
rafforzata
dalla
testimonianza
del
Generale
di
Corpo
d'Armata
dei
Carabinieri
Nicolò
Bozzo,
allora
sottoposto
del
generale
Carlo
Alberto
Dalla
Chiesa;
più
volte
riferì
che
quel
giorno,
il
27
giugno,
aveva
visto
dalla
Corsica
levarsi
in
volo
decine
di
velivoli
da
combattimento,
diretti
verso
il
mare.
Dunque,
qualcuno
c’era.
E
proseguì
avanzando
una
precisa
visione
dei
fatti:
“..All''epoca
con
Dalla
Chiesa
avevamo
sviluppato
un'ipotesi,
che
sembra
aver
trovato
qualche
conferma.
Dunque:
il
27
giugno
è
previsto
un
volo
di
Gheddafi
da
Varsavia
a
Tripoli,
che
deve
passare
sopra
il
Tirreno.
L'abbattimento
di
Gheddafi
non
interessava
solo
l'Aeronautica
libica:
c'era
la
Francia,
c'erano
gli
Stati
Uniti
...
Il
piano
prevedeva
che
due
aerei
libici
"rinnegati"
abbattessero
Gheddafi
e
poi
andassero
ad
atterrare
a
Gioia
del
Colle
o,
in
alternativa,
a
Crotone.
L'ordine
originario,
quindi,
era
quello
di
tener
sgombro
il
basso
Tirreno
da
altri
aerei.
Può
essere
successo
che
gli
aerei
libici
siano
partiti
ma
Gheddafi,
mentre
era
già
in
volo,
ha
ricevuto
un
messaggio
radio
in
cui
qualcuno
(i
Servizi,
probabilmente)
lo
informava
dell'attentato.
Va
ricordato
che
nei
Servizi
Segreti
italiani
esistevano
due
anime,
che
facevano
capo
a
Miceli
e
Maletti
(non
so
in
quale
ordine):
una
filoaraba
e
una
filoamericana.
Qualcuno
della
prima
corrente
può
aver
avvertito
Gheddafi.
L'aereo
di
Gheddafi
(sembra,
tra
l'altro,
che
il
leader
libico
si
servisse
di
un
DC9
per
i
suoi
spostamenti)
devia
e
stranamente
non
torna
in
Libia
ma
atterra
a
Malta,
dove
rimane
ospite
di
Dom
Mintoff
per
una
settimana..”.
E
ancora:
“..a
quel
punto
si è
inserito
il
DC9
Itavia,
che
era
in
ritardo
di
quasi
due
ore,
per
cause
naturali.
Da
Solenzara
e da
Grosseto
si
sono
alzati
molti
aerei
per
tentare
di
far
deviare
o
rientrare
il
DC9.
Uno
di
questi
aerei,
tra
l'altro,
aveva
ai
comandi
due
piloti
morti
a
Ramstein
nell'87.
Ma,
nonostante
i
tentativi,
il
DC9
arriva
fino
al
punto
Condor
dove
viene
colpito
da
un
missile.
L'aereo
che
stava
sotto
il
DC9,
se
questo
scenario
(che,
lo
ripeto,
è
una
mia
supposizione)
è
vero,
potrebbe
non
essere
libico
ma
un
caccia
alleato
che
tenta
di
far
atterrare
il
DC9.
Subito
dopo
un
aereo
libico
ha
avuto
qualche
noia
e ha
puntato
sull'aeroporto
di
Crotone.
Ma
per
qualche
causa
(mancanza
di
carburante
o
altro)
ha
deviato
ed è
andato
a
sbattere
sulla
Sila..”.
Proprio
per
superare
le
polemiche
fu
inaugurata
presto
un’altra
campagna
di
recupero,
nel
1990,
affidata
stavolta
ad
una
ditta
inglese,
la
Winpol,
che
raccolse
presto
altri
reperti;
e
finalmente,
il
19
luglio
del
’91,
la
scatola
nera.
Ma
emersero,
con
questi,
altri
dubbi:
in
primo
luogo,
il
serbatoio
supplementare
di
un
caccia,
(ovvero
un
contenitore
esterno,
simile
ad
un
ordigno,
trasportato
dagli
aerei
militari
per
accrescere
il
carico
di
carburante,
e,
quindi,
l’autonomia,
da
sganciare
quando
esaurito).
Una
strana
coincidenza,
se
non
altro.
Inoltre,
alcuni
esperti,
e
con
questi
il
prof.
Mario
Vadacchino
(consulente
dell’“Associazione
dei
parenti
delle
vittime”),
notarono
che
il
terreno
sottomarino,
in
fondo
al
Tirreno,
appariva
“arato”,
come
se
prima
delle
campagne
di
scavo
“ufficiali”
qualcuno
avesse
già
setacciato
il
fondale.
Quel
che
restava
del
DC9,
trasportato
a
Pratica
di
Mare,
fu
sistemato
nello
stesso
hangar
del
MiG
libico,
appoggiato
ad
uno
scheletro
metallico.
Il
muro
di
gomma
resse
per
anni,
ma
verso
la
fine
del
decennio
cominciò
a
scricchiolare:
il 6
maggio
1988,
alla
trasmissione
“telefono
giallo”
di
Corrado
Augias,
che
si
occupava
della
strage,
giunse
una
telefonata
importante.
Alla
presenza
di
Amato,
parlò
un
“..aviere
di
servizio
a
Marsala
la
sera
dell’incidente..”.
E
raccontò
di
aver
visto
i
tracciati
radar,
“Noi
abbiamo
esaminato
le
tracce
di
registrazione
che
non
sono
stati
visti
[…],
noi
li
abbiamo
visti
perfettamente,
soltanto
che
il
giorno
dopo,
il
maresciallo
responsabile
del
servizio
ci
disse
di
farci
gli
affari
nostri
e di
non
dare
seguito
alla
questione
[…],
ci
fu
ordinato
di
stare
zitti..”,
giustificando
l’intervento
sulla
base
di
un
“fatto
emotivo
interiore”,
che
l’aveva
spinto
alla
chiamata.
Attaccò
in
fretta,
platealmente
preoccupato
delle
possibili
conseguenze
del
suo
gesto.
In
seguito
a
questo
episodio,
il
giudice
Borsellino
aprì
un’inchiesta;
l’Aeronautica,
fin’allora,
aveva
riferito
che
a
Marsala
si
trovavano
due
persone,
quella
sera.
Borsellino,
attraverso
il
registro
della
stazione,
appurò
invece
la
presenza
di
decine
di
avieri,
ufficiali
e
sottufficiali;
ma
per
l’Arma,
erano
tutti
fuori
dalla
stanza,
in
quel
momento.
Furono
quindi
altre
voci
ad
imporsi
sulla
scena,
quella
del
maresciallo
Carico,
che
affermò
di
aver
visto
tutto,
contraddicendo
i
suoi
superiori:
ovvero
due
tracce,
vicino
Ponza,
in
discesa
simultanea,
finché
una
scomparve
dallo
schermo.
E
quella
di
Mario
Alberto
Dettori,
maresciallo
di
Poggio
Ballone,
che
tornato
dal
lavoro
apparve
alla
moglie
“molto
scosso”,
la
sera
del
disastro,
dicendo:
“..è
successo
un
casino..
qui
vanno
tutti
in
galera..”.
Emerse
anche
che
alle
20.20,
quella
sera,
si
erano
levati
in
volo
da
Grosseto
due
F-104
dell’Arma
Azzurra,
con
un
totale
di
quattro
piloti
(tre
istruttori,
un
allievo);
sei
minuti
dopo,
quello
con
a
bordo
i
due
istruttori
inviò
un
segnale
in
codice,
“7300”,
ovvero
“EMERGENZA
GENERALE”,
e di
nuovo
sette
minuti
dopo.
Questa
rivelazione
risultò
particolarmente
sospetta:
forse
i
piloti
avevano
visto
qualcosa.
Altri
quattro,
pare,
decollarono
tra
le
20.20
e le
20.45,
spegnendo
subito
il
transponder
identificativo.
C’erano
inoltre
aerei
americani,
un
AWACS
(aereo-radar)
sull’Appennino,
un
altro
decollato
da
Sigonella.
Ma
l’Aeronautica,
fino
ad
oggi,
l’ha
sempre
negato,
e
continua
a
farlo
nella
persona
del
gen.
Enrico
Pinto,
coordinatore
del
comitato
studi
su
Ustica:
“..per
50/60
miglia
non
vi
era
nessun
altro
velivolo..”.
L’inchiesta,
nel
frattempo,
cambiò
ancora
destinazione,
giungendo
sul
tavolo
del
giudice
Priore,
ed
emersero
altri
dati,
nuovi
o
presi
in
considerazione
solo
allora;
saltò
fuori
che
vi
erano
altri
radar
attivi,
oltre
a
quelli
già
elencati
di
Licola,
Marsala
e
Ciampino:
Poggio
Ballone
(Grosseto),
Poggio
Arenatico,
Potenza
Picena,
Martinafranca
(Taranto)
e
Siracusa.
Questi,
tuttavia,
si
rivelarono,
ancora
una
volta,
inservibili;
non
avevano
registrato
niente
di
particolare,
eccetto
forse
quello
di
Poggio
Arenatico,
dal
cui
registro,
però,
la
pagina
del
27
giugno
era
stata
tagliata
(secondo
la
Magistratura),
e
quello
di
Poggio
Ballone,
i
cui
quattro
registri
furono
sequestrati
e
verificati.
Oppure
erano
spenti,
come
quello
di
Siracusa
(che
avrebbe
però
dovuto
“coprire”
quello
di
Marsala,
fuori
uso
per
un’esercitazione
secondo
l’A.M.).
Ma
la
centrale
di
Poggio
Ballone
si
rivelò
utile:
ne
risultò
una
traccia,
alle
20.14,
proveniente
da
ovest,
incompatibile
con
quella
del
DC9.
Inoltre,
furono
reperite,
tra
le
pieghe
dell’inchiesta,
altre
testimonianze
importanti:
le
registrazioni,
spesso
automatiche,
dei
dialoghi
tra
gli
addetti
di
centri
radar
e i
comandi
militari.
In
particolare,
una
tra
Ciampino
e
Martinafranca,
che
apparve
subito
particolarmente
interessante:
Ciampino-
Qui
è
venuto
il..
un
ufficiale
del..
Martinafranca-
Itavia?
Ciampino-
dell’ACC..
del
controllo..
Martinafranca-
ah,
si!
Ciampino-
e ha
detto
che
se
volete
lui
può
metterci
in
contatto
tramite
l’Ambasciata
Americana..
Martinafranca-
si..
Ciampino-
e
se..
siccome
c’era
traffico
americano
in
zona
molto
intenso..
Martinafranca-
si..
Ciampino-
..in
quel
periodo..
eh,
può
attingere
notizie
attraverso
quella
fonte,
quella
via..
Martinafranca-
..e
come,
nella
zona
dove
stava
il
DC9?
Ciampino-
si..
Martinafranca-
..ho
capito,
un
attimo
che
adesso..
ma..
qualche
portaerei?
Ciampino-
eh,
questo
non
me
l’ha
detto..
Martinafranca-
eh,
beh..
Ciampino-
..però
si
suppone,
no?!
Il
cielo
del
Tirreno,
quella
sera,
si
faceva
decisamente
meno
disabitato.
A
Marsala,
nei
minuti
immediatamente
precedenti
la
tragedia,
due
avieri
conversavano
liberamente,
inconsapevoli
della
registrazione
automatica;
uno
disse:
“..sta
a
vedere
che
quello
dietro
mette
la
freccia
e
sorpassa..”,
e
poco
dopo
“..quello
ha
fatto
un
salto
da
canguro..”.
Un
dialogo
curioso,
a
quell’ora.
Poco
dopo,
a
Grosseto,
un
altro
scambio
di
battute
tra
due
militari:
“..Qui
poi
il
governo,
quando
sono
americani..
ma
tu
poi,
che
cascasse..”.
“E’
scoppiato
in
volo”,
disse
l’altro.
Evidentemente
senza
accorgersi
che
Ciampino,
in
contatto,
stava
registrando
automaticamente.
E
similmente
per
altri
casi:
conversazioni
più
che
sospette
avvennero
anche
al
telefono,
tra
gli
addetti
di
Ciampino,
senza
discostarsi
molto.
Qualcuno
aveva
visto.
Alle
22.39,
inoltre,
si
scoprì
che
il
centro
radar
di
Ciampino
aveva
cercato
di
contattare
telefonicamente
l’ambasciata
americana,
all’interno
550,
senza
risposta.
Il
gen.
Dell’A.M.
Zeno
Tascio
si
affrettò
a
negare,
spiegando
la
chiamata
come
“richiesta
di
informazioni
di
suoi
dipendenti,
che
ha
portato
a
sapere
che
non
c’era
traffico
aereo
americano
nella
zona
[…]
tutto
questo
materiale
è
stato
dato
su
richiesta
(della
magistratura)
dall’Aeronautica
Militare”.
In
pratica,
l’Arma
riferì
di
aver
subito
consegnato
tutto
il
materiale
in
suo
possesso
su
quella
sera:
18
ore
di
registrazioni,
i
nastri
radar
di
Marsala,
quello
di
Ciampino,
i
tabulati
di
Poggio
Ballone,
e
varie
altre
informazioni.
Ma
qualcuno
continuò,
e
continua
tuttora,
a
credere
che
furono
messi
in
atto
diversi
tentativi
di
depistaggio:
tra
questi
il
professore
Leonardo
Lecce,
uno
dei
periti
della
prima
commissione
tecnica
che
per
sei
anni
ha
lavorato
per
cercare
la
verità
su
una
delle
pagine
più
oscure
della
storia
repubblicana.
‘Roma,
febbraio
'89.
Sei
uomini
sono
appena
scesi
da
un
aereo
dell'aviazione
militare
italiana
proveniente
da
Londra.
Il
giudice
istruttore
Vittorio
Bucarelli,
che
li
ha
nominati,
vuole
sapere
da
loro
che
cosa
ha
fatto
precipitare,
alle
ore
20.59
del
27
giugno
1980,
il
Dc-9
in
volo
da
Bologna
a
Palermo.
Prima
di
prendere
posto
all'interno
delle
grosse
auto
del
ministero
dell'Interno
si
avvicina
un
signore
in
divisa:
ha i
gradi
di
capitano
e le
insegne
dell'aeronautica
militare
italiana.
Nelle
mani
ha
un
plico
che
consegna
a
uno
di
loro:
"Qui
c'è
la
verità
su
Ustica".
I
sei
si
guardano
in
faccia
eccitati.
Appena
in
auto,
aprono
la
busta:
trenta
pagine
stampate
al
computer
in
cui
si
sostiene
che
ad
abbattere
il
Dc-9
è
stato
un
Ufo’.
I
super
esperti
sorridono.
Non
era
la
prima
volta
che
qualcuno
tentava
di
mettere
nelle
loro
mani
le
"sue"
verità
sulla
vicenda.
La
loro
verità,
invece,
era
ben
diversa:
ad
abbattere
il
Dc-9
è
stato
un
missile
non
identificato.
La
conclusione
della
perizia,
in
un
primo
momento
unanime,
sarebbe
stata
poi
rivista
da
due
di
loro.
La
storia
dell'Ufo
non
fu
solo
un
aneddoto,
ma
faceva
parte
di
una
serie
incredibile
di
tentativi
di
depistaggio
che
contornarono
i
sei
anni
in
cui
si
svolsero
i
lavori
della
commissione
Blasi.
I
sei
periti,
tutti
ingegneri
aeronautici
laureati
o in
servizio
all'Università
di
Napoli,
erano
Massimo
Blasi
e
Marino
Migliaccio,
entrambi
esperti
di
motoristica
industriale,
Ennio
Imbimbo,
specialista
in
esplosivi,
Raffaele
Cerra,
conoscitore
di
sistemi
radar
e
dirigente
della
Selenia
(società
produttrice
di
missili
e
radar),
il
medico
legale
Carlo
Romano
ed
infine
Leonardo
Lecce,
l'unico
perito
esperto
in
aeronautica'.
In
un
primo
momento
furono
tutti
concordi
nel
sostenere
la
tesi
del
missile;
due
di
loro,
Blasi
e
Cerra,
cambiarono
idea:
ad
abbattere
il
Dc-9
era
stata
una
bomba.
Un
ripensamento,
questo,
che
di
fatto
invalidò
il
giudizio
finale
della
commissione
tanto
da
costringere
il
giudice
istruttore
a
chiedere
un
supplemento
di
perizia.
Il
risultato,
però,
fu
identico:
i
pareri
degli
esperti
rimasero
discordi.
Tra
coloro
che
non
cambiarono
opinione
su
ciò
che
aveva
provocato
il
disastro
aereo
c'è
il
professor
Lecce.
Egli
è
tuttora
convinto
che
quella
notte,
nel
cielo
di
Ustica,
"qualcosa
dall'esterno
colpì
la
parte
superiore
sinistra
della
carlinga
dell'aereo,
facendolo
precipitare
dopo
un
breve
tentativo
di
ammaraggio
durato
dai
quattro
ai
sei
minuti"
Nell’intervista,
ad
opera
di
Reno
Dinoi
e
Paola
Pentimella
Testa
(settembre
2000)
il
professore
descrisse
brevemente
un
altro
breve
episodio
cui
aveva
assistito:
“Una
delle
cose
che
ci
colpì
molto
fu
il
comportamento
di
un
esperto
inglese
da
noi
contattato
per
una
consulenza.
Dopo
che
recuperammo
la
prima
delle
due
scatole
nere
dell'aereo,
quella
che
registra
tutti
gli
eventi
sonori
all'interno
della
cabina
di
pilotaggio,
ci
trovammo
di
fronte
a
delle
registrazioni
incomplete
e
disturbate.
Nell'ultima
parte
dei
nastri,
pochi
istanti
prima
del
black-out
che
seguì
all'impatto,
erano
stati
incisi
dei
rumori,
estranei
alla
cabina,
che
non
riuscivamo
a
decifrare.
Interpellammo
allora
un
tecnico
inglese
esperto
in
questo
genere
di
analisi,
al
quale
spedimmo
una
copia
delle
registrazioni.
Quando
andammo
a
trovarlo
in
Inghilterra
per
concordare
il
lavoro,
lui,
che
già
aveva
dato
un’occhiata
al
materiale,
si
dimostrò
molto
disponibile
a
collaborare
e ci
fornì
anche
un
preventivo
per
la
sua
consulenza.
Ottenuta
la
necessaria
autorizzazione
del
giudice,
ricontattammo
l'esperto
inglese
che,
inspiegabilmente,
ci
disse
di
non
essere
più
disponibile
per
quel
lavoro.
Aveva
detto
di
no a
una
ventina
di
milioni
per
pochi
giorni
di
lavoro.
L'idea
che
ci
facemmo
fu
quella
che
qualcuno
lo
aveva
avvicinato
dicendogli
di
lasciar
perdere.
Anche
in
altre
occasioni
ci
furono
dette
cose
che,
in
seguito,
furono
rettificate
o
smentite.
In
particolare,
in
certe
indagini
svolte
in
ambienti
inglesi
i
colloqui
successivi
ad
alcuni
studi
sembravano
essere
favorevoli
alla
tesi
del
missile
esterno.
Poi,
quando
ci
venivano
inviati
i
rapporti
scritti,
le
versioni
erano
inspiegabilmente
cambiate.
Ciò
che
a
voce
era
certo,
sulla
carta
diventava
dubitativo
o
addirittura
negava
quanto
sostenuto
in
precedenza.
Che
ci
fosse
dietro
qualcuno
che
si
prodigasse
per
cercare
di
indirizzare
il
risultato
delle
indagini
in
un
senso
anziché
in
un
altro
era
abbastanza
evidente”.
Giorgio
Bocca,
nel
giorno
dell’anniversario
dello
stesso
anno,
arrivò
a
fendere
pesanti
colpi
proprio
su
questo
argomento:
“Quella
di
Ustica
fu
una
strage
di
Stato
di
tipo
particolare,
non
di
un
singolo
Stato
ma
degli
Stati
legati
all’Alleanza
atlantica.
Che
fosse
una
strage
di
Stato
era
evidente:
il
Dc9
Itavia
non
era
precipitato
per
un
guasto
nel
mare
di
Ustica,
doveva
averlo
colpito
un
missile
lanciato
da
uno
degli
aerei
che
partecipavano
alla
caccia
a un
MiG
libico.
Ma i
cittadini
fanno
fatica
ad
accettare
lo
Stato
che
fa
strage,
lo
Stato
assassino,
da
sempre
li
lega
allo
Stato
un
patto
di
complicità:
i
cittadini
che
gli
hanno
delegato
l'uso
della
violenza
non
solo
per
la
guerra
ma
anche
per
la
repressione
poliziesca,
sanno
che
esso
può
farne
un
uso
distorto
o
fazioso,
ma
si
sentono
in
qualche
modo
correi,
poiché
è
una
violenza
che
garantisce
le
loro
proprietà,
che
mantiene
l'ordine
nelle
loro
città,
che
è al
loro
fianco
contro
i
criminali.
Da
cui
un
timore
reverenziale,
verso
il
patto
di
mutuo
soccorso,
verso
la
sacralità
di
un
patto
con
un
ente
che
per
Hegel,
come
per
Wittgenstein,
"è
tutto
senza
il
quale
l'individuo
è
nulla".
Di
fronte
alle
indagini
su
Ustica
molti
italiani
hanno
esitato
ad
accettare
la
colpevolezza
dello
Stato
che
sapeva
come
erano
andate
le
cose
ma
che
cercava
di
nasconderle,
in
un
concerto
di
menzogne
e di
reticenze
di
uomini
politici
ed
alti
ufficiali...
Possibile,
si
dicevano
questi
concittadini,
che
dei
generali,
degli
ammiragli,
dei
funzionari,
dei
tecnici,
dei
politici
mentano?
Per
difendere
chi?
Eppure
la
prova
che
un
complotto
del
silenzio
e
del
depistaggio
è
possibile
l’avevamo
già
avuta
pochi
anni
prima
della
tragedia
di
Ustica,
esattamente
undici
anni
prima
nei
giorni
della
bomba
di
Piazza
Fontana
subito
coperta
dalla
rete
delle
azioni
ed
omissioni
compiute
da
poliziotti,
magistrati,
uomini
di
governo”.
Le
commissioni
tecniche,
via
via
nominate,
demolirono
progressivamente
la
spiegazione
dei
falsi
“plots”:
“[…]
è da
tutti
accettata
l’ipotesi
che
si
tratti
di
oggetti
reali
e
cioè
che
essi
rappresentino
effettivamente
aerei
in
volo
[…]”.
L’ipotesi
del
missile,
quella
che
trovò
più
consensi
fuori
dagli
ambienti
militari
(e,
di
conseguenza,
più
probabile)
conobbe
anche
un
altro
testimone
d’eccezione.
Da
subito,
come
detto,
voci
incontrollate
parlarono
di
un
tentativo
di
abbattere
Gheddafi,
magari
col
concorso
di
ufficiali
libici
ostili
al
governo
del
dittatore.
E lo
stesso
Gheddafi
ha
più
volte
fatto
mostra
di
conoscere
la
verità,
su
quella
vicenda;
stigmatizzando
altre
manovre
NATO
nel
Tirreno,
scrisse
più
tardi
al
nostro
Paese,
che
vi
aveva
fatto
parte:
”Non
avete
scordato
certamente
il
delitto
e la
tragedia
occorsa
al
DC9
dell’Itavia,
abbattuto
il
27.06.80,
in
cui
hanno
perso
la
vita
decine
e
decine
di
vittime,
a
causa
della
aggressione
ed
in
conseguenza
della
presenza
delle
basi
e
delle
flotte
militari,
nel
Mediterraneo,
come
non
avete
scordato
l'attacco
americano
alla
Jamahirija,
che
causò
la
morte
di
decine
e
decine
di
morti
fra
civili
inermi
le
nostre
donne,
bambini
e
vecchi”.
E
ancor
di
più
recentemente,
nel
febbraio
98,
in
un’intervista
a
“la
Stampa”,
quando
affermò:
"Io
sono
il
testimone,
perchè
io
in
quelle
ore
andavo
in
aereo
verso
la
Jugoslavia
ed
io
ho
visto
in
mare
la
Sesta
Flotta
americana
che
manovrava
dalle
parti
di
Ustica.
C'erano
navi
militari
degli
Stati
Uniti.
La
gente
che
era
con
me
temeva,
aveva
paura
che
ci
abbattessero
con
un
missile.
Però
noi,
a
differenza
dei
passeggeri
del
volo
Itavia,
siamo
arrivati
a
destinazione
sani
e
salvi.
Quando
abbiamo
sentito
dell'abbattimento
di
questo
aereo
che
probabilmente
noi
eravamo
l'obiettivo,
e
che
loro
volevano
buttar
giù
il
mio
aereo".
Dichiarazioni
che
potrebbero
trovare
in
qualche
riscontro
nelle
rivelazioni
dei
militari
italiani
operanti
presso
il
citato
sito
radar
di
Marsala,
che
hanno
riferito
di
aver
seguito
la
sera
del
27
giugno
il
volo
di
un
velivolo
di
nazionalità
libica
- in
rotta
da
Tripoli
a
Varsavia
-
che,
giunto
ai
limiti
dei
nostri
cieli,
aveva
compiuto
una
deviazione
verso
Est
in
direzione
di
Malta.
Il
giudice
Priore
ha
così
definito
i
rapporti
tra
Italia
e
Libia:
"tormentati
e
tormentosi,
sia
sul
versante
interno
ove
provocano
spaccature
in
qualsiasi
ambiente,
che
su
quello
esterno
ove
precipuamente
inquietavano
l'alleato
maggiore,
gli
Stati
Uniti,
e
irritavano
quello
prossimo,
cioè
la
Francia”.
Qualcuno
ritiene
che
la
soluzione
sia
tutta
qui.
Comunque
sia,
il
23
luglio
1990,
l'inchiesta
sul
disastro
fu
affidata
al
giudice
istruttore
Rosario
Priore,
che
nominò
un
altro
collegio
di
periti.
A
livello
giudiziario,
le
cose
cominciarono
a
muoversi:
il
15
gennaio
dell’anno
seguente
il
giudice
emise
le
prime
comunicazioni
giudiziarie
nei
confronti
di
generali
dell’Aeronautica;
il
14
aprile
1992
la
Commissione
Stragi
approvò
inoltre
la
relazione
conclusiva
dell'inchiesta
su
Ustica,
che
segnalava
duramente
reticenze
e
menzogne
di
poteri
pubblici
e
istituzioni
militari;
nell’estate
’94,
si
ebbero
due
diverse
relazioni
specialistiche:
per
i
periti
degli
ufficiali
inquisiti
la
causa
della
strage
era
una
bomba,
per
il
collegio
nominato
dal
G.I.
Priore
una
bomba
nella
toilette
dell'aereo,
ma
due
tra
gli
esperti
presentarono
un'altra
relazione
che
non
escludeva
l’ipotesi
del
missile.
Il
17
giugno
’97
una
nuova
perizia
radar
evidenziò
la
presenza
di
diversi
aerei
militari
in
zona;
e
finalmente,
il
31
luglio
1998,
i
pubblici
ministeri
romani
Nebbioso,
Roselli
e
Salvi
chiesero
il
rinvio
a
giudizio
per
i
generali
dell'Aeronautica
Lamberto
Bartolucci
(capo
di
Stato
maggiore
dell’A.M.),
Zeno
Tascio
(capo
del
Servizio
Informazioni),
Corrado
Melillo
(gen.
di
brigata
aerea)
e
Franco
Ferri
(sottocapo
di
Stato
maggiore
dell’A.M.)
e
per
altri
cinque
ufficiali.
Il
31
agosto
1999
questi
furono
rinviati
a
giudizio
per
attentato
contro
gli
organi
costituzionali
con
l'aggravante
dell'alto
tradimento,
mentre
non
si
procedette
per
“strage”
perché
rimanevano
''ignoti
gli
autori
del
reato”.
Secondo
il
giudice
Priore,
in
definitiva,
non
era
vero
che
il
cielo
di
Ustica
fosse
vuoto,
riempito
com’era
di
molti
piccoli
velivoli:
e
uno
di
questi
si
sarebbe
avvicinato
molto
all’I-TIGI,
volandovi
immediatamente
dietro,
volontariamente
o
meno,
mentre
un
altro,
dal
fianco
destro
dei
primi
due,
avrebbe
compiuto
una
virata
verso
di
questi,
in
una
tipica
procedura
d’attacco
militare,
fino
ad
incrociare
la
rotta
del
DC9,
che
subito
dopo
sarebbe
esploso.
Forse
perché
colpito
da
missile,
coscientemente
o
meno,
o
forse
per
collisione.
Una
battaglia
aerea
nel
Tirreno:
una
punizione
per
un
MiG
diretto
in
Jugoslavia,
o in
missione
di
ricognizione,
ad
esempio.
Per
il
Comitato
Studi
per
Ustica,
per
le
autorità
militari,
la
spiegazione
sta
nell’ordigno,
posizionato
nella
toilette
anteriore,
caricata
a
Bologna
(molto
dubbia
per
alcuni,
in
particolare
Andrea
Purgatori:
come
può
una
bomba
nella
toilette
lasciare
integro
il
lavandino
ed
il
water,
distruggendo
al
contempo
l’aereo?).
Qualcuno,
infine,
collega
Ustica
alla
strage
del
2
agosto
del
1980,
alla
stazione
di
Bologna,
eseguita
forse
per
sviare
le
indagini
dalla
prima,
forse
per
rinforzarne
l’impatto
emotivo
nella
società
italiana,
forse
per
rispondervi
da
parte
di
altri
gruppi.
Ma
Priore,
comunque,
non
poté
che
formulare
un’accusa
contro
ignoti,
per
il
lancio
del
missile,
segnalando
al
contempo
“..distruzioni
e
sparizioni
non
casuali
[…]
ma
tutte
in
esecuzione
di
un
preciso
progetto
di
impedire
ogni
fondata
e
ragionevole
ricostruzione
dell’evento,
dei
fatti
che
lo
avevano
determinato,
e di
quelli
che
ne
erano
conseguiti”
(sentenza-ordinanza).
In
tutto
questo
periodo,
a
detta
di
molti
le
pressioni
proseguirono,
su
giudici
e
giornalisti;
Andrea
Purgatori,
in
una
recente
intervista,
ha
usato
parole
precise
per
descrivere
il
clima
del
periodo:
“Quando
Priore
si
trovava
nella
fase
cruciale
dell'inchiesta,
tutti
i
suoi
16
collaboratori
-
cancellieri,
poliziotti
dell'Ucigos
e
carabinieri
- di
cui
nessuno
poteva
conoscere
le
generalità,
hanno
subito
nell'arco
di
40
giorni
un
tentativo
di
effrazione
in
casa,
in
macchina
o in
ufficio.
A me
personalmente
hanno
spaccato
la
macchina
due
volte
e
rivolto
minacce
verbali,
anche
di
morte.
Ho
ricevuto
fino
a 40
telefonate
anonime
al
giorno.
Periodi
in
cui
non
si
riusciva
a
dormire.
E le
pressioni
sono
proseguite.
Solo
due
anni
fa
mi
hanno
distrutto
la
macchina
senza
rubare
nulla,
spaccato
la
porta
di
casa
e
rovistato
tra
le
carte
che
avevo
in
ufficio”.
Il
23
giugno
2000
la
procura
militare
chiese
l’archiviazione
del
caso;
però,
il
28
settembre
seguente
si
aprì
a
Roma
nell'aula
bunker
di
Rebibbia,
davanti
alla
terza
sezione
della
Corte
d'Assise
di
Roma,
il
processo
sui
presunti
depistaggi.
Aldo
Davanzali,
presidente
dell’Itavia,
chiese
allo
Stato
un
risarcimento
di
1.700
miliardi
per
i
danni
morali
e
patrimoniali
subiti
dopo
la
strage
di
Ustica,
nell’aprile
2001
(l’Itavia
ottenne
poi
108
milioni
di
euro,
perché
lo
Stato
non
aveva
garantito
la
sicurezza
dell’aerovia);
e lo
stesso
fece
la
Corte
dei
Conti,
chiedendo
un
risarcimento
di
27
miliardi
a
militari
e
personaggi
coinvolti,
come
compenso
per
il
recupero
della
carcassa
del
DC9.
Il
19
dicembre
2003
i pm
Erminio
Amelio,
Maria
Monteleone
e
Vincenzo
Roselli,
nel
corso
delle
requisitorie
in
Corte
d'Assise,
chiesero
la
condanna
a 6
anni
e 9
mesi
di
reclusione,
di
cui
4
anni
condonati,
per
i
generali
Lamberto
Bartolucci
e
Franco
Ferri,
accusati
di
attentato
agli
organi
costituzionali
con
l'aggravante
dell'alto
tradimento;
secondo
l'accusa
avrebbero
omesso
di
fornire
informazioni
al
Governo.
Fu
inoltre
chiesta
l'assoluzione
nei
confronti
dei
generali
Zeno
Tascio
e
Corrado
Melillo.
Il
processo
sui
presunti
depistaggi
si
chiuse
il
30
aprile
2004:
la
Corte
d'Assise
di
Roma
assolse
i
generali
dell'Aeronautica
Lamberto
Bartolucci,
Franco
Ferri,
Zeno
Tascio
e
Corrado
Melillo
da
tutte
le
accuse.
Per
un
capo
di
imputazione,
nei
confronti
di
Ferri
e
Bartolucci,
riguardante
le
informazione
errate
fornite
al
Governo
in
merito
alla
presenza
di
altri
aerei
la
sera
dell'incidente,
il
reato
fu
considerato
prescritto.
I
militari
non
si
macchiarono
del
reato
di
alto
tradimento,
ma
solo
di
quello
di
turbativa.
Non
riferirono
al
Governo
i
risultati
dell'analisi
dei
dati
del
radar
Marconi
e
notizie
in
merito
al
possibile
coinvolgimento
nel
disastro
di
altri
aerei.
Secondo
gli
stessi
giudici
era
errata
l'ipotesi
che
il
MiG
trovato
sulla
Sila
fosse
precipitato
la
sera
del
27
giugno
’80.
Il
Pm e
i
difensori
di
parte
civile,
oltre
ai
legali
dell’Itavia,
presentarono
una
richiesta
di
appello
contro
la
sentenza
nel
febbraio
dell’anno
seguente.
Tra
ottobre
e
novembre
2005,
i
magistrati
assolsero
dall’accusa
di
“omessa
comunicazione”
("perché
il
fatto
non
sussiste")
anche
l'ex
Capo
di
Stato
Maggiore
dell'Aeronautica
Lamberto
Bartolucci
ed
il
suo
vice,
Franco
Ferri.
Per
la
Corte
sostenere
che
accanto
al
Dc9
la
sera
del
disastro
c'era
un
aereo
significava
compiere
"un
salto
logico
non
giustificabile".
Tale
ipotesi,
si
legge
nelle
motivazioni,
era
supportata
solo
"da
deduzioni,
probabilità
e
basse
percentuali
e
mai
da
una
sola
certezza".
Il
capo
di
stato
maggiore
dell'Aeronautica,
Lamberto
Bartolucci,
non
poteva,
secondo
il
giudice
Antonio
Cappiello,
"omettere
di
comunicare
al
ministro
della
Difesa
ciò
che
probatoriamente
gli
era
ignoto".
Ma
la
Procura
Generale
di
Roma
fece
ricorso
alla
Cassazione
affinché
fosse
annullata
la
sentenza
della
Corte
d'Appello,
proponendo
che
"il
fatto
contestato
non
era
più
previsto
dalla
legge
come
reato"
anziché
"perché
il
fatto
non
sussiste”.
Secondo
la
Procura,
il
fatto
sussisteva,
dunque.
Il
10
gennaio
2007,
però,
la I
Sezione
Penale
della
Corte
di
Cassazione
dichiarò
inammissibile
il
ricorso
della
Procura
Generale
del
Tribunale
di
Roma
contro
l'assoluzione
dei
generali
Bartolucci
e
Ferri,
rigettando
anche
il
ricorso
delle
parti
civili
(
avanzato
nel
frattempo
da
Presidenza
del
Consiglio
e
Ministero
della
Difesa).
La
sen.
Bonfietti,
insieme
ad
altri,
considera
una
questione
di
dignità
nazionale
l’approdo
alla
conoscenza
di
chi,
in
tempo
di
pace,
ha
abbattuto
un
aereo
civile
italiano.
Ancora
oggi,
non
è
stato
riconosciuto
alcun
colpevole.
Inoltre,
nell’arco
di
decenni,
tra
perizie
e
contro-perizie,
studi
e
ricerche,
silenzi
e
mezze
ammissioni,
si
rischiò
di
perdere
il
contatto
con
l’aspetto
umano
della
vicenda,
di
scordare
che
su
un
Douglas
DC9
avevano
in
ogni
caso
perso
la
vita
81
persone:
Andres
Cinzia
(24),
Andres
Luigi
(32),
Baiamonte
Francesco
(55),
Bonati
Paolo
(16),
Bonfietti
Alberto
(37),
Bosco
Alberto
(41),
Calderone
Maria
Vincenza
(58),
Cammarata
Giuseppe
(19),
Campanini
Arnaldo
(45),
Casdia
Antonio
(32),
Cappellini
Antonella
(57)
anni,
Cerami
Giovanni
(34),
Croce
Maria
Grazia
(40),
D’Alfonso
Francesca
(7),
D’Alfonso
Salvatore
(39),
D’Alfonso
Sebastiano
(4),
Davì
Michele
(45),
De
Cicco
Giuseppe
Calogero
(28),
De
Dominicis
Rosa
(Allieva
Assistente
di
volo
Itavia)
(21),
De
Lisi
Elvira
(37),
Di
Natale
Francesco
(2),
Diodato
Antonella
(7),
Diodato
Giuseppe
(1),
Diodato
Vincenzo
(10),
Filippi
Giacomo
(47),
Fontana
Enzo
(Copilota
Itavia)
(32),
Fontana
Vito
(25),
Fullone
Carmela
(17),
Fullone
Rosario
(49),
Gallo
Vito
(25),
Gatti
Domenico
(Comandante
Pilota
Itavia)
(44),
Gherardi
Guelfo
(59),
Greco
Antonino
(23),
Gruber
Berta
(55),
Guarano
Andrea
(37),
Guardì
Vincenzo
(26),
Guerino
Giacomo
(19),
Guerra
Graziella
(27),
Guzzo
Rita
(30),
Lachina
Giuseppe
(58),
La
Rocca
Gaetano
(39),
Licata
Paolo
(71),
Liotta
Maria
Rosaria
(24),
Lupo
Francesca
(17),
Lupo
Giovanna
(32),
Manitta
Giuseppe
(54),
Marchese
Claudio
(23),
Marfisi
Daniela
(10),
Marfisi
Tiziana
(5),
Mazzel
Rita
Giovanna
(37),
Mazzel
Erta
Dora
Erica
(48),
Mignani
Maria
Assunta
(30),
Molteni
Annino
(59),
Morici
Paolo
(Assistente
di
volo
Itavia)
(39),
Norrito
Guglielmo
(37),
Ongari
Lorenzo
(23),
Papi
Paola
(39),
Parisi
Alessandra
(5),
Parrinello
Carlo
(43),
Parrinello
Francesca
(49),
Pelliccioni
Anna
Paola
(44),
Pinocchio
Antonella
(23),
Pinocchio
Giovanni
(13),
Prestileo
Gaetano
(36),
Reina
Andrea
(34),
Reina
Giulia
(51),
Ronchini
Costanzo
(34),
Siracusa
Marianna
(61),
Speciale
Maria
Elena
(55),
Superchi
Giuliana
(11),
Torres
Pierantonio
(32),
Tripiciano
Giulia
Maria
Concetta
(45),
Ugolini
Pierpaolo
(33),
Valentini
Daniela
(29),
Valenza
Giuseppe
(33),
Venturi
Massimo
(31),
Volanti
Marco
(36),
Volpe
Maria
(48),
Zanetti
Alessandro
(18),
Zanetti
Emanuele
(39),
Zanetti
Nicola
(6).
Il
titolo
della
relazione
della
Commissione
stragi
del
1992
è
eloquente:
l’82°
vittima
è
l’Aeronautica
Militare.
A
loro,
nel
corso
degli
anni,
vanno
aggiunte
alcune
morti
sospette:
in
alcuni
casi
sicure
coincidenze,
in
altri
decessi
misteriosi,
di
personaggi
che
forse,
nella
tomba,
portarono
anche
la
loro
testimonianza
decisiva:
tra
questi
Mario
Naldini
e
Ivo
Nutarelli
(i
due
piloti
istruttori
dell’F-104),
28
agosto
1988,
nell’incidente
aereo
delle
Frecce
Tricolori
a
Ramstein,
provocando
59
morti
e
368
feriti;
maresciallo
Mario
Alberto
Dettori
(in
servizio
al
Centro
radar
di
Poggio
Ballone),
31
marzo
1987,
impiccato
ad
un
albero
vicino
Grosseto,
in
campagna:
nell’ultimo
periodo
appariva
ansioso,
preoccupato,
continuava
a
cercare
microcamere
nascoste;
maresciallo
Franco
Parisi
del
radar
di
Otranto,
in
servizio
la
presunta
sera
della
caduta
del
MiG
libico,
21
dicembre
1995,
impiccato
ad
un
albero:
pochi
giorni
dopo
sarebbe
stato
interrogato
dal
giudice
Priore.
Solo
la
voce
di
una
figlia,
nel
nostro
caso,
avrebbe
dunque
potuto
concludere
questa
vicenda,
da
"Ustica
- La
via
dell'ombra"
di
Flaminia
Cardini
-
Sapere
2000.
Per
abbattere,
del
tutto,
il
muro
di
gomma.
Caro
diario
sono
felice,
oggi
è il
26
giugno
1980
e
sono
stata
promossa.
Evviva!!!
(ho
tredici
anni)
Mamma
e
Papà
sono
molto
orgogliosi
di
me,
mi
hanno
promesso
da
mesi
che
il
loro
regalo
per
la
promozione
sarà
portarmi
con
loro
in
Sicilia.
Evviva!!
Ce
l'ho
fatta
e
non
vedo
l'ora
di
fare
il
mio
primo
viaggio
in
aereo,
anche
per
i
miei
genitori
è la
prima
volta.
Oggi
ho
telefonato
a
mia
cugina
a
Palermo,
le
ho
detto
che
fra
qualche
giorno
ci
vedremo,
anche
la
nonna
è
contentissima
e
non
vede
l'ora,
ed
anch'io
sono
impaziente
di
fare
questo
viaggio.
Caro
diario
oggi
26
giugno
1980
c'è
stato
un
cambiamento
nel
programma.
La
mamma
ha
detto
che
siccome
non
ha
trovato
posto
in
aereo,
partono
solo
loro
due
con
la
speranza
di
poter
trovare
due
biglietti,
promettendomi
un
nuovo
regalo
al
ritorno.
Uffa!!!
Non
è
giusto!
Sono
arrabbiatissima!
Non
voglio
un
altro
regalo.
Ho
pianto
tutto
il
pomeriggio,
ma
le
mie
lacrime
sono
servite
solo
a
far
partire
la
mamma
molto
triste.
Le
sue
parole
per
consolarmi
sono
state:
"tu
devi
badare
alla
famiglia
perché
sei
la
più
giudiziosa".
Uffa!
Mamma
mi
ha
tradita,
non
è
stata
di
parola.
Non
si
fanno
promesse
se
poi
non
si
mantengono.
Io
voglio
il
regalo
promesso.
Voglio
volare
con
Mamma
e
Papà.
Oggi
27
sono
partiti,
nel
pomeriggio
hanno
telefonato
per
dire
che
l'aereo
partiva
in
ritardo,
volevano
parlare
con
me,
ero
così
arrabbiata
che
non
sono
andata
al
telefono.
Caro
diario
oggi
28
giugno
1980
non
crederai
a
quello
che
ti
dirò
ora:
la
Mamma
e il
Papà
non
hanno
ancora
telefonato
per
dire
che
sono
arrivati.
Qui
sono
tutti
agitati.
Non
credo
a
quello
che
sento,
dicono
che
l'aereo
è
scomparso!!
No!
Non
è
possibile,
non
può
succedere
niente
di
brutto
ai
miei
genitori.
Io
sono
la
piccola
di
casa.
Ma
perché
a
casa
nostra
c'è
sempre
il
dottore
e mi
mandano
sempre
a
comprare
la
camomilla?
Perché
i
miei
fratelli
e
mia
sorella
piangono
sempre?
Perché
la
TV
fa
vedere
sempre
quelle
immagini
nel
mare?
Sono
tutte
finte,
come
dice
sempre
la
Mamma!
Se
potessi
sentirla
al
telefono
la
Mamma
mi
tranquillizzerebbe.
Mi
sento
morire.
I
miei
fratelli
sono
partiti
a
cercare
Mamma
e
Papà.
Sono
due
giorni
che
tengo
le
dita
incrociate,
qui
sono
tutti
disperati,
ma
io
no,
perché
so
che
Mamma
e
Papà
torneranno
molto
presto.
C'è
un
via
vai
di
parenti,
amici
che
ci
opprimono,
piangono.
Non
sanno
che
lo
fanno
inutilmente,
perché
non
è
vero
niente,
Mamma
e
Papà
torneranno
da
me,
perché
non
lascerebbero
mai
la
propria
piccola
qui
sola.
I
miei
genitori
mi
vogliono
troppo
bene
per
abbandonarmi.
Tornate
presto
vi
prego.
Caro
diario
mi
stanno
facendo
credere
a
questa
realtà,
ma
io
tengo
forte
le
mie
dita
incrociate,
quello
che
sto
passando
non
te
lo
so
descrivere.
Mi
riempio
di
pizzicotti
per
svegliarmi
da
questo
incubo
che
non
finisce
mai.
Papà,
Mamma
dove
siete
andati
a
finire?
Perché
mi
lasciate
così
sola...
In
famiglia
c'è
tensione,
non
so
più
se
chiamarla
famiglia,
ora
non
è
rimasto
niente
della
mia
meravigliosa
famiglia.
Solo
il
dolore
regna
fra
noi
e fa
continuare
i
nostri
giorni.
Oh
Dio,
che
sta
succedendo
a
noi
tutti?
Perché
hai
voluto
questo?
Chi
ha
voluto
e
permesso
tutto
questo?
Perché
delle
persone
fanno
queste
cattiverie?
Perché
devono
esistere
questi
sbagli
e
far
soffrire
così
la
gente?
Caro
diario
oggi
sono
andata
nella
casa
dove
ero
così
felice
con
i
miei
genitori,
è
così
vuota,
spoglia,
lugubre
ed
ho
cominciato
a
sognare
ad
occhi
aperti.
Vedo
Mamma
e
Papà
scendere
dall'autobus
con
delle
grandi
valige,
entrare
in
casa,
salire
le
scale
ed
io
precipitarmi
ad
abbracciarli!
Oh
Signore
ti
ringrazio!!
Non
mi
stacco
più
da
loro,
non
mi
voglio
più
svegliare,
portatemi
via
con
voi
vi
prego.
Ho
pianto
tanto,
tanto,
urlato
più
forte
che
potevo,
avrei
voluto
farli
scendere
da
quel
maledetto
aereo
che
me
li
aveva
portati
via.
Sono
stanca,
nauseata,
ho
paura
che
impazzirò
o
forse
pazza
lo
sono
già.
Vorrei
farla
finita.
Mamma,
Papà
perché
non
mi
avete
portato
via
con
voi?
Io
non
riesco
più
a
vivere!
Caro
diario
sono
strastufa,
non
ce
la
faccio
più,
ora
ti
saluto,
vado
a
dormire,
spero
che
i
miei
sogni
mi
portino
via
con
loro.
Anno
1990.
Da
quel
triste
momento
di
dieci
anni
fa
tutti
mi
hanno
sempre
detto
che
ero
fortunata
ad
essere
così
piccola
e
che
quindi
non
soffrivo
più
di
tanto,
ma
non
sanno
che
quando
la
speranza
muore
la
vita
non
ha
più
senso.
Quella
bambina
è
cresciuta,
ora
ha
ventitré
anni,
ed
ancora
non
sa
che
senso
dare
a
questa
sua
sofferenza.
Linda
Lachina
Per
informazioni:
L'Associazione
dei
parenti
delle
vittime
continua
ad
esistere,
allo
scopo
di
"accertare
la
verità
e
quindi
le
responsabilità
civili
e
penali
della
strage
di
Ustica,
con
tutte
le
iniziative
possibili":
la
senatrice
Daria
Bonfietti,
parlamentare
dei
Ds,
è il
presidente.
La
sede
è in
Via
Polese,
22 -
40122
Bologna,
tel.
051/253925
fax
051/253725.
I
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