N. 42 - Giugno 2011
(LXXIII)
a proposito dell'usia
ruolo dei mezzi di comunicazione
negli anni '60 della Guerra Fredda
di Letizia Magnolfi
Non
voglio
chiedere
ai
vostri
giornali
di
appoggiare
un’amministrazione,
ma
sto
chiedendo
il
vostro
aiuto
nel
poderoso
compito
di
informare
ed
allertare
il
popolo
americano.
Poiché
ho
totale
fiducia
nel
responso
e
nella
dedizione
dei
nostri
cittadini,
qualora
siano
pienamente
informati
(John
Fitzgerald
Kennedy)
L’argomento
proposto
in
questa
relazione
è il
legame
che
si
instaura
tra
mezzi
di
comunicazione
e
politica
americana
negli
anni
sessanta
della
Guerra
Fredda.
Per
l’analisi
sono
stati
scelti
alcuni
eventi
e
fatti
importanti
tra
quelli
che
definirono
storicamente
questa
fase:
la
propaganda
internazionale
di
Kennedy
e la
guerra
nel
Vietnam.
Il
punto
centrale
da
cui
partiranno
le
osservazioni
sarà
lo
studio
delle
attività
dell’USIA,
l’Agenzia
pubblica
di
informazioni
creata
nel
1953
che
si
occupava
di
divulgare,
oltre
i
confini
USA,
i
temi
e i
fatti
inerenti
la
politica
estera.
Legando
il
suo
operato
al
contesto
della
guerra,
si
intende
evidenziare
come
essa
sia
riuscita
a
indirizzare
con
successo
l’opinione
pubblica,
specie
per
quello
che
riguardava
la
contrapposizione
bipolare
delle
due
potenze
e le
rappresentazioni
che
di
queste
si
davano.
Successivamente,
per
la
guerra
del
Vietnam,
è
messo
invece
in
evidenza
il
ruolo
importante
e
decisivo
che
assunsero
i
mezzi
di
informazione
americani
ad
essa
alternativi
nel
rendere
noti
i
fatti
del
conflitto,
un
vero
e
proprio
“pantanaio
di
guerra”
dal
quale
gli
Stati
Uniti
riuscirono
a
liberarsi
solo
nel
1975.
Il 1 agosto 1953, durante la presidenza Eisenhower, fu introdotta
la
USIA,
United
States
Information
Agency.
Sin
dagli
inizi
della
guerra
fredda
Washington
necessitava
di
un’unità
centrale
che
si
occupasse
della
divulgazione
delle
informazioni.
Soprattutto
che
queste
venissero
diffuse
nei
modi
più
efficaci
e
oltre
i
confini
dell’America.
Il compito dell’USIA, come afferma Stephanson in Propaganda
–
Cold
War
consisteva
nel
creare
condizioni
e
clima
favorevoli
alla
politica
americana
(“climate
of
opinion”),
promuovendone
la
sua
cultura,
la
sua
storia,
i
progressi
scientifici,
tutto
ciò
che
rimandava
ad
un
immaginario
positivo
del
paese.
Le informazioni presenti nei fondi degli Archivi di Stato
descrivono
le
sue
funzioni
similarmente,
aggiungendo
che
essa
doveva
consigliare
“il
Presidente,
il
personale
diplomatico,
l’esecutivo
e i
dipartimenti
e le
sue
agenzie,
sulle
implicazioni
del
parere
straniero,
sui
programmi
e
sulle
dichiarazioni
ufficiali”.
All’epoca dei fatti di cui si parla, gli anni 60, direttore
dell’USIA
era
Robert
Murrow,
nominato
da
Kennedy
e
noto
per
la
sua
fama
di
giornalista
obiettivo
nel
riportare
la
cronaca
della
Seconda
Guerra
Mondiale
e di
quella
in
Corea.
Il
destino
volle
che
successivamente
un
giornalista
di
Voice
of
America,
tal
Kamenske,
lo
soprannominasse
spregiativamente
“The
Man
who
invented
the
Truth”
perché,
spiegava
sempre
Kameske,
egli
“sembrava
molto
più
dedito
all’apparenza
delle
cose
più
che
alla
sostanza
di
queste”.
Ma quali erano i compiti principali che l’ USIA a livello
internazionale
doveva
assolvere?
Professando la tecnica della “strategia della verità” con
toni
il
più
possibile
obiettivi
e
privati
di
retorica
propagandistica,
doveva
innanzitutto
informare
degli
esperimenti
nucleari
dell’Urss,
a
conferma
di
quanto
l’Unione
Sovietica
rappresentasse
sempre
un
pericolo
incombente
per
il
mondo;
allo
stesso
tempo
doveva
mostrare
un’immagine
di
grande
prosperità
del
proprio
paese,
esaltando
le
politiche
del
libero
mercato
e i
benefici
del
capitalismo.
Anche William Benton, prima Segretario di Stato poi senatore
dal
1949,
fu
una
figura
di
spicco
negli
ambienti
collegati
all’USIA,
poiché
riuscì
a
far
passare
lo
“Sminth-Mundt
Act”,
legge
che
autorizzava
i
programmi
di
informazione
a
trasmettere
dentro
e
fuori
il
paese,
tra
cui
Voice
of
America
(VOA).
Essa,
nell’ambito
generale
del
progetto
USIA
doveva
essere
la
radio
e la
rete
di
trasmissioni
tv
che
andava
in
onda
in
tutto
il
mondo.
L’altra importante radio supportata era Radio Free Europe o
Radio
Liberty,
le
cui
frequenze
erano
trasmesse
in
Europa
e
Asia
mediorientale;
in
questo
modo
le
informazioni
erano
diffuse
con
successo
su
larga
scala.
L’USIA
svolgeva,
oltre
a
ciò,
altre
operazioni
collaterali
altrettanto
importanti
per
promuovere
l’immagine
degli
USA.
Per questo l’Agenzia si impegnava a esportare la cultura
degli
Stati
Uniti
nel
resto
del
mondo,
e lo
faceva
utilizzando
svariati
mezzi;
per
esempio
con
quello
editoriale
pubblicava
e
faceva
circolare
scritti
di
autori
americani
all’estero,
oppure
utilizzava
il
circuito
massmediatico
degli
altri
paesi
facendo
trasmettere
documentari
in
lingua
inglese
con
fini
formativi
e
istruttivi
sulle
arti
lavorative
che
in
America
erano
già
state
sperimentate.
È interessante notare come, anche per quanto riguarda gli
episodi
di
politica
sociale
interna,
l’USIA
fosse
attenta
a
mantenere
alto
il
livello
dell’attenzione,
in
una
logica
che
sempre
faceva
riferimento
al
sistema
bipolare,
dove
l’America
era
portavoce
e
rappresentante
della
libera
circolazione
delle
idee
e
delle
espressioni
delle
libertà
individuali.
È il
caso,
per
esempio,
della
battaglia
per
i
diritti
civili.
Murrow si impegnò strenuamente al fine di assicurare massima
pubblicità
alla
marcia
di
Luther
King
dell’agosto
1963.
Stando
alle
affermazioni
di
Cull,
l’USIA
costruì
il
reportage
sui
diritti
civili
con
l’approccio
e la
facilità
con
cui
un
bambino
si
avvicina
a
temi
sconosciuti;
la
copertura
della
marcia
fu
infatti
garantita
persino
in
Africa
Orientale.
L’informazione molto spesso funziona quanto più è immediata
e
colpisce
se
riesce
a
scoprire
il
linguaggio,
la
chiave
dialettica
o
l’immagine
più
adeguata
per
diffondere
una
certa
notizia.
Lo sapeva bene anche Kennedy che, consapevole delle potenzialità
degli
strumenti
massmediatici,
riuscì
ad
avere
la
meglio
sul
candidato
repubblicano
Nixon
durante
la
campagna
per
le
elezioni
presidenziali
nel
1960.
La questione dell’immagine diventò un tema peculiare anche
per
la
politica
internazionale.
Immediatamente
dopo
la
vittoria
alle
elezioni,
una
delle
prime
preoccupazioni
di
Kennedy
infatti,
fu
quella
di
recuperare
punti
sulla
percezione
che
il
mondo
aveva
dell’America
e
del
suo
presidente.
Anche gli aggiustamenti linguistici furono fondamentali per
rafforzarne
il
prestigio.
Rilanciando
il
tema
della
“coesistenza
pacifica”
a
livello
mondiale,
USIA
e
Casa
Bianca
si
scontrarono
con
non
pochi
problemi
di
traduzione.
Per
esempio
il
termine
“community”
in
alcuni
paesi
poteva
intendersi,
senza
differenza
alcuna,
“village”
o “communism”;
per
i
russi
“word
wide”
si
traduceva
allo
stesso
modo
di “paceful”.
Preoccupazione
di
Washington
era
quella
di
evitare
assolutamente
che
“coesistenza
pacifica”
fosse
in
qualche
modo
assimilabile
al
concetto
di
“comunismo”;
un
espediente
suggerito
da
Schlesinger
fu
quello
di
strappare
la
parola
“democrazia”
al
nemico
sovietico
depurandola
della
sua
accezione
ideologica.
Nell’ambito della riorganizzazione dell’Agenzia, in poco
più
di
un
mese
l’amministrazione
Kennedy
consultò
più
di
ventidue
studiosi,
giornalisti
ed
esperti
di
affari
internazionali,
tra
cui
Frank
Stanton,
presidente
dal
1946
al
1971
della
CBS,
uno
dei
più
grandi
network
televisivi
presenti
negli
Stati
Uniti.
Se i rapporti con l’USIA rischiarono in qualche modo di
sporcare
la
buona
reputazione
del
presidente,
(si
pensi
all’episodio-scandalo
che
legò
Murrow
alla
BBC,
quando
cioè
il
direttore
tentò
di
dissuadere
la
rete
pubblica
inglese
dal
trasmettere
un
servizio
che
metteva
in
cattiva
luce
la
gestione
dell’immigrazione
negli
Stati
Uniti),
dall’altra
parte
la
straordinaria
capacità
comunicativa
di
Kennedy
riuscì
più
volte
a
superare
magistralmente
le
conseguenze
delle
trame
politiche
della
USIA.
Nel 1963 Kennedy pronunciò uno dei discorsi più riusciti
della
sua
presidenza:
era
il
26
giugno,
e
con
alle
spalle
il
muro
che
divideva
la
Germania
in
due
parti,
si
rivolse
ai
tedeschi
dicendo
“Ich
bin
ein
Berliner”:
in
quattro
semplici
ma
dirette
parole
riuscì
a
trasmettere
una
forte
carica
di
incoraggiamento
morale
e la
volontà
dell’America
di
essere
vicino
a
tutti
i
tedeschi
che
pretendevano
di
essere
liberi
cittadini.
La critica ai regimi comunisti, resa dal contrasto dialettico
che
paragonava
“mondo
libero”
e
“mondo
comunista”,
bene
evidenziava
i
temi
portanti
della
linea
strategica
internazionale,
politicamente
trasversale
ai
partiti
repubblicano
e
democratico,
e in
cui
la
democrazia
-
intesa
in
senso
liberale
-
doveva
dimostrare
coi
fatti
la
sua
giustezza.
In un altro discorso pubblico altrettanto famoso, quello
del
27
aprile
1961
tenuto
davanti
all’Associazione
Americana
degli
Editori,
Kennedy
mise
in
guardia
i
cittadini
americani
dalle
infiltrazioni
di
società
segrete
nel
corso
della
libera
informazione
e
del
libero
agire.
L’occasione diventò spunto per parlare di un pericolo strisciante
che
minacciava
la
democrazia;
non
solo
gli
Stati
Uniti,
affermò
il
presidente,
ma
tutto
il
mondo
era
preda
di
“una
cospirazione
monolitica
e
spietata
che
si
affidava
principalmente
a
mezzi
furtivi
per
espandere
la
sua
sfera
di
influenza,
all’infiltrazione
piuttosto
che
all’invasione,
alla
sovversione
piuttosto
che
alle
elezioni,
all’intimidazione
piuttosto
che
al
libero
arbitrio,
alla
guerriglia
di
notte,
piuttosto
che
agli
eserciti
di
giorno.”
Il discorso intendeva rivolgersi soprattutto al popolo americano,
raccomandando
la
stampa
di
informare
e
rendere
noti
i
fatti
di
una
guerra,
che
per
quanto
pericolosa
e
minacciosa,
ancora
non
era
giunta
a
soluzioni
irrimediabili.
Invece
di
occultare,
nascondere,
investire
risorse
in
operazioni
clandestine,
si
dovevano
invece
rendere
pubbliche
le
questioni
politiche
ed
economiche,
esortare
alla
discussione,
rendere
partecipe
e
mettere
in
guardia
il
popolo
americano
dai
possibili
pericoli
derivanti
dalle
sorti
del
conflitto.
Era la libera informazione e la rinuncia all’utilizzo di
espedienti
propri
di
un
regime
antidemocratico,
in
primis
la
censura
e la
messa
a
tacere
dei
dissidenti,
che
potevano
davvero
rendere
l’America
un
esempio
da
seguire.
Il biennio 1961-62 fu quello che vide svilupparsi alcuni
fatti
eclatanti
per
comprendere
alcune
dinamiche
insite
nella
guerra
fredda,
e
che
portarono
il
conflitto
a
livelli
di
tensione
significativamente
critici
per
l’equilibrio
mondiale:
lo
sbarco
alla
Baia
dei
Porci,
la
crisi
dei
missili
di
Cuba
e
quella
di
Berlino.
Dopo il tentativo fallito del piano di invasione dell’isola
sudamericana,
del
quale
all’inizio
fu
tenuto
all’oscuro
anche
Murrow
che
venne
a
sapere
del
progetto
casualmente
dal
collega
del
“New
York
Times”
Szulc,
la
presidenza
Kennedy
rischiò
di
subire
un
duro
smacco,
visto
che
il
piano
sconfessava
in
qualche
modo
la
propaganda
elettorale
che
aveva
fatto
dei
principi
di
pace
e
libertà
suoi
punti
di
forza.
Poco dopo però gli Stati Uniti seppero abilmente sfruttare
l’opportunità
data
dalla
costruzione
del
muro
di
Berlino:
l’USIA
rese
note
una
serie
di
immagini
che
riguardavo
le
azioni
di
coercizione
per
e
intorno
al
muro;
famosa
per
esempio
è
quella
che
ritrae
una
guardia
di
frontiera
che
salta
il
filo
spinato
verso
l’ovest
della
città,
ritratto
evocativo
e
quanto
mai
esemplificativo
di
uno
scenario
di
divisioni
e
diseguaglianze
politiche,
sociali
e
morali,
che
di
lì a
poco
si
sarebbe
aperto
nel
cuore
dell’Europa
centrale.
Altre immagini furono accuratamente selezionate e utilizzate
per
allestire
la
mostra
The
Wall
posta
sotto
il
controllo
della
SINA
(il
Servizio
di
Informazioni
degli
Stati
Uniti
a
Berlino),
e
che
poi
fecero
il
giro
del
mondo;
attraverso
il
circuito
televisivo
vennero
mostrati
una
serie
di
documentari
sulla
costruzione
del
muro.
Anche i testimoni oculari furono un espediente utilizzato
dai
media
americani
per
trasmettere
al
mondo
le
conseguenze
antidemocratiche
della
divisione:
759
giornalisti
indipendenti
di
tutto
il
globo
furono
portati
a
Berlino
perché
vedessero
con
i
loro
occhi
gli
effetti
della
città
separata.
Sempre
nel
1961
gli
Stati
Uniti
rilevarono
i
test
nucleari
fatti
dall’Urss
nel
1958;
la
notizia
fece
il
giro
del
mondo,
con
la
mappa
del
sito
di
questi
test
stampata
in
numerosi
quotidiani
dell’epoca.
Per
rispondere
all’
azione
sovietica,
Murrow
consigliò
di
incrementare
in
modo
massiccio
l’informazione
sui
test
nulceari
condotti
dall’Urss,
in
attesa
che
gli
Stati
Uniti
recuperassero
tempo
per
un
nuovo
test.
Per
il
direttore
dell’Agenzia
questa
risultava
essere
la
mossa
più
azzeccata:
in
una
lettera
scritta
al
presidente
(1
settembre
1961)
Murrow
affermava
che
Krusciov
agli
occhi
del
mondo
era
diventato
il
simbolo
della
paura,
mentre
gli
Stati
Uniti
rappresentavano
la
speranza
per
un
conflitto
evitabile.
La
posizione
degli
USA,
continuava
Murrow,
doveva
essere
“una
combinazione
di
freni,
riluttanza
ma
anche
di
determinazione
nello
scongiurare
ogni
possibilità
di
vivacizzare
una
competizione
che
poteva
divenire
incontrollabile.”
Il ruolo dell’informazione assume sicuramente gli aspetti
più
avvincenti
con
la
guerra
del
Vietnam,
non
tanto
per
il
ruolo
che
essa
ebbe
all’inizio,
quanto
per
quello
che
ebbe
successivamente
con
la
denuncia
senza
mezzi
termini
delle
efferatezze
e
dei
crimini
compiuti.
Nel 1960, riporta Romero nel suo libro sulla storia della
guerra
fredda,
“un
insolito
western
hollywodiano,
I
magnifici
sette
di
John
Sturges,
raffigurava
dei
pistoleri
americani,
che
invece
di
combattere
gli
indiani,
andavano
ad
aiutare
un
villaggio
messicano
a
difendere
il
raccolto
da
una
banda
di
predoni.
Cinici
mercenari
all’inizio,
i
sette
finivano
per
identificarsi
con
la
lotta
dei
contadini
per
la
dignità
e
l’autonomia,
tanto
da
trovare
in
quella
causa
una
migliore
ragione
di
vita
fino
al
sacrificio
finale.
Nell’epoca
Kennedy
essi
sembrarono
altruistici
eroi
dei
proclami
statunitensi
per
liberare
il
Terzo
Mondo
dalla
miseria
e
l’oppressione.”
Un messaggio, quello del film, che si fermava all’aspetto
idealista,
trascurando
invece
le
priorità
connesse
alla
“strategia
del
contenimento”
aggressivo
nella
periferia
del
mondo,
Vietnam
compreso.
Anzi,
a
dire
il
vero,
per
Washington
il
conflitto
vietnamita
aveva
connotazioni
e
implicazioni
ben
più
importanti,
che
simbolicamente
comprendevano
gli
interessi
di
tutto
il
mondo
libero.
Per
questo
il
conflitto,
almeno
all’inizio,
fu
presentato
come
una
sorta
di
guerra
lampo,
da
vincere
contro
la
minaccia
di
un
regime
dalle
smanie
espansionistiche
e
liberticide;
una
mossa,
politica
e
militare,
che
confermasse
la
superiorità
degli
Stati
Uniti
rispetto
all’Urss
e i
suoi
alleati.
Ma la guerra, dati alla mano, rappresentò il fallimento più
significativo
delle
iniziative
militari
statunitensi.
Difatti,
insieme
a
gran
parte
della
credibilità
e
del
prestigio
internazionale
come
“poliziotto”
del
mondo,
gli
Stati
Uniti
persero
anche
il
controllo
della
politica
monetaria,
sprofondando
in
una
crisi
economica
che,
se
da
un
lato
ebbe
ripercussioni
a
livello
globale,
dall’altro
provocò
un’
escalation
del
debito
pubblico
senza
precedenti,
spese
che
il
sistema
di
Bretton
Woods
evidentemente
non
era
più
in
grado
di
sostenere.
Anche per l’USIA la guerra con il Vietnam rappresentò la
sfida
più
grande
e il
compito
più
arduo
fino
ad
allora
intrapreso.
Davanti
a un
impegno
così
gravoso
anche
Murrow,
che
si
era
espresso
in
favore
di
un
linea
più
moderata
nel
fare
sapere
le
sorti
del
conflitto,
non
riuscì
a
reggere
il
peso
morale
e
gestionale
di
una
situazione
politica
assai
“caotica”.
Come
riporta
Stephanson,
sotto
il
controllo
di
Carl
Rowan,
neo
eletto
direttore
nel
1964,
l’Agenzia
fu
incaricata
dal
presidente
Johnson
di
coprire
a
livello
internazionale
tutte
le
notizie
della
guerra.
Essa doveva essere presentata come l’ultima e necessaria
difesa
di
un
paese
libero
a
fronte
dell’attacco
nemico.
L’opinione
pubblica
internazionale
in
principio
si
allineò
al
tono
tenuto
dall’USIA,
ma
l’evidenza
dei
fatti
che
a
mano
a
mano
si
presentavano
grazie
all’informazione
di
mass
media
indipendenti,
mutò
radicalmente
questo
corso
che
all’inizio
sembrava
facile
da
dirigere.
Le sensibilità e le forme di solidarietà verso le vittime
della
guerra
crescevano
e
diventavano
sempre
più
forti,
e la
lettura
opposta
a
quella
che
Washington
inizialmente
voleva
dare,
era
quella
più
credibile.
Dice
sempre
Stephanson
a
questo
proposito
che
“nessun
chiaro
tentativo
di
aggirare
le
notizie,
poteva
controbilanciare
la
potenza
delle
immagini
trasmesse
in
tutto
il
mondo”.
Charles Collington definì la guerra del Vietnam come la
“prima
guerra
della
televisione”,
tanto
furono
vivi
e
realisti
i
reportage
che
la
televisione,
in
particolar
modo
la
CBS,
faceva
del
conflitto.
Nel 1968 Morley Safer, corrispondente del potente network
televisivo,
riportò
con
le
immagini
e
ricostruì
con
la
sua
testimonianza
il
massacro
del
villaggio
di
My
Lai.
Il reportage di Safer offrì la più cruda e aberrante visione
di
ciò
che
avvenne
il
16
marzo
1968
nel
piccolo
villaggio;
l’incendio
fu
trasmesso
in
presa
diretta
e
così,
in
maniera
fredda
e
allo
stesso
tempo
impietosa,
lo
descriveva
Safer:
"Ecco
cosa
è in
sostanza
la
guerra
nel
Vietnam.
I
Marines
stanno
bruciando
la
capanna
di
questa
coppia
di
vecchi
perché
da
lì
sono
partiti
dei
colpi.
Era
fuoco
di
armi
automatiche
leggere.
La
gente
che
rimane
somiglia
a
questa
donna
vecchia
e
decrepita".
L’ondata di notizie reali che proveniva soprattutto dalla
CBS
si
scontrò
inevitabilmente
con
Washington,
il
quale
non
gradiva
per
certo
la
divulgazione
di
simili
efferatezze
perpetrate
ai
danni
dei
contadini
locali,
né
tantomeno
le
interviste
agli
stessi
soldati
americani,
molti
dei
quali
con
la
guerra
non
volevano
più
avere
a
che
fare.
I flebili tentativi di nascondere gli insuccessi e i disastri
del
conflitto
non
riuscirono
ad
arrestare
la
portata
degli
eventi,
che
giunsero
ad
una
svolta
con
l’offensiva
del
Tet
nel
gennaio
1968.
La
stessa
Casa
Bianca
un
anno
dopo
ammetteva
pubblicamente
tramite
Kissinger
che
la
“potenza
americana,
per
quanto
vasta,
aveva
dei
limiti”.
La contestazione contro la guerra, cominciata già nel 1967,
si
allargò
a
macchia
d’olio
in
tutto
il
paese,
con
gli
studenti
e i
gruppi
religiosi
in
prima
fila.
Culbert
riporta
la
testimonianza
di
uno
studente
universitario
di
allora;
di
fronte
alle
immagini
del
colonnello
Loan
che
sparava
a un
prigioniero
vietcong
disarmato,
esprimeva
così
la
sua
costernazione:
"Non
era
uguale
a
nessuna
altra
cosa
che
avevo
visto
prima:
poi
vidi
il
sangue
dalla
testa
di
quel
ragazzo
(…).
Dopo
questa
decisi
che
quello
che
facevamo
nel
Vietnam
era
sbagliato.
Noi
pensavamo
di
difendere
una
democrazia,
un
governo
in
favore
dei
diritti
dell’individuo
e
quello
stesso
governo
eseguiva
pene
capitali
senza
un
processo,
senza
nemmeno
la
finzione
di
un
processo".
In questi anni si verificò anche un profondo tentativo di
rinnovamento
del
cinema
europeo
e
americano,
che
si
mobilitò
contro
il
conflitto
cercando
un
cambiamento
dell’immaginaria
consapevolezza
della
violenza
e
della
crudeltà:
per
citarne
alcuni,
nel
1967
uscirono
17°
parallelo
di
Joris
Ivens
e
Marceline
Loridan
e
Loin
du
Vietnam,
firmato
da
importanti
registi
europei
tra
cui
Godard
e
Resnais.
Altri
film,
inoltre,
anche
se
non
riguardavano
il
conflitto
vietnamita,
furono
ispirati
dal
cambiamento
dei
tempi
e
dal
crollo
di
alcuni
miti
propri
della
società
americana
che
la
stessa
guerra
aveva
contribuito
a
causare,
si
pensi
a
Soldato
Blu
di
Ralph
Nelson
(1970).
Si capisce quanto importante e decisiva per le sorti della
guerra
sia
stata
l’informazione
e
l’impatto
senza
precedenti
che
questa
ebbe
sull’opinione
pubblica
americana
e
internazionale,
ancora
più
degli
insuccessi
subiti
sul
campo,
che
comunque
poco
spazio
lasciavano
alle
interpretazioni:
dal
1958
al
1975
la
guerra
aveva
prodotto
3
milioni
di
vittime
vietnamite
e
58000
statunitensi;
per
l’opinione
pubblica
la
guerra
era
diventata
inutile,
dispendiosa
e
soprattutto
ingiusta.
Vari eventi epocali avevano scosso la popolazione americana:
l’assassinio
di
Martin
Luther
King,
quello
di
Kennedy,
nel
1965
poi
quello
di
Malcom
X,
che
più
volte
con
toni
aspri
e
antipatriottici
si
era
espresso
contro
l’America
e la
sua
politica.
Nel
mezzo
la
guerra
del
Vietnam,
che
pose
l’America
e la
sua
coscienza
davanti
alla
specchio.
La delusione inaspettatamente arrivata dopo gli insuccessi
della
guerra
costituì
una
pesante
eredità
morale,
oltre
che
politica,
nel
considerare
la
reale
o
non
reale
fattibilità
del
sogno
americano
dentro
le
stesse
mura
del
paese.
Solo con l’epoca reaganiana, per tanti aspetti ancora controversa,
l’America
conobbe
una
nuova
fase,
durante
la
quale
i
tradizionali
valori
che
facevano
riferimento
al
sistema
dei
blocchi
contrapposti
tornarono
alla
ribalta
con
forza
e
convinzione.
Soprattutto grazie all’abilità comunicatrice di Reagan, gli
USA,
sia
nei
discorsi
ufficiali,
sia
nella
strategia
di
politica
internazionale,
ristabilirono
con
determinazione
le
differenze
che
contraddistinguevano
Est
e
Ovest,
“l’impero
del
male”
e la
Democrazia,
i
principi
della
Russia
marxista-leninista,
-
letamaio
della
storia
-, e
gli
altri,
quelli
dell’America
democratica
e
libera.