1) Perché andò negli
Stati Uniti?
Per diversi motivi. Il
primo fu quello di fare un’esperienza di vita e
quindi poter avere anche un termine di paragone con
la mia realtà, cioè quella in cui avevo vissuto per
venticinque anni. Poi per cercare di capire come mai
gli Stati Uniti fossero una superpotenza mondiale ed
osservare da vicino il loro modus vivendi.
Infine, per imparare la lingua. Era quasi una
scommessa con me stessa, visto che ero stata
bocciata in quella materia all’esame universitario.
2) Visse sempre nello
stesso posto?
No, infatti ho vissuto
per circa nove mesi in una cittadina di nome Palm
Bay, che è vicino Orlando, in Florida. In quei nove
mesi lavoravo come cameriera in un ristorante
italiano, di proprietà di mio zio, fratello di mia
madre. Iniziai dal gradino più basso, che è quello
della busser – ha il compito di apparecchiare e
sparecchiare i tavoli, oltre che di rassettare le
sale a fine serata. La ricordo come un’esperienza
molto forte: una vera palestra di umiltà. Era - per
me - la prima volta d’un lavoro manuale. Fino ad
allora avevo dato qualche lezione privata. La mia
carriera all’interno del ristorante fu piuttosto
veloce. Infatti, passai molto presto da busser a
cameriera di sala, con una nuova divisa che si
componeva di pantaloni neri, camicia bianca ed un
papillon anch’esso nero. Pure la retribuzione era
diversa.
Dopo nove mesi mi
trasferii a Boston, dove vissi col mio ragazzo di
nome Hunt ed un esemplare femmina di dalmata, Jazmyn.
Feci delle ricerche che riguardavano la mia tesi: il
caso Napster.
3) Cos’era Napster?
Napster era (ed è) un
programma che consentiva il download e lo scambio
tra vari utenti di migliaia di canzoni, ma non solo.
Tutto ciò avveniva in violazione dei relativi
copyright e scatenava feroci reazioni da parte delle
principali Majors (come Sony, Emy, etc.).
4) Le sue prime
impressioni...
Mi hanno colpito
diverse cose dell’American way of life, prima
fra tutte il pragmatismo: è un indirizzo di pensiero
che affonda le sue radici negli Stati Uniti alla
fine dell’Ottocento e si basa sull’idea di fondo
secondo la quale qualsiasi teoria ha un valore
pratico, nel senso che vale ed è vera se è utile
all’uomo. Poi ho notato grande multietnicità,
sintomatica di apertura verso il nuovo, senza
chiusure preconcette. Ma, tuttavia non si può
sottacere quanto si sa e si vede: la discriminazione
verso i neri, più accentuata nei Paesi del Sud.
Forse è uno strascico della Guerra di secessione.
C’è inoltre una superficialità nei rapporti umani.
Un’eccessiva cordialità iniziale difficilmente
sfocia in un rapporto duraturo, amichevole.
5) E dopo, conservò lo
stesso giudizio?
Sì, sono rimasta dello
stesso parere. Infatti, una volta scomparsa dal
campo visivo dei miei “amici” statunitensi, il
rapporto evaporava rapidamente.
6) Visti da vicino,
come sono?
Abbastanza cordiali,
come ho già accennato, ed hanno un approccio con le
cose che è ispirato dal desiderio di semplificarle
il più possibile. Sono estremamente pratici e per
loro ogni ragionamento deve confluire in qualche
certezza pratica. Non per niente c’è la domanda che
si fanno: where is the beef? Cioè, oltre
l’odore, ci vuole la bistecca.
E quello che m’ha
colpito è che hanno un grande senso del valore del
tempo, per cui niente file alle poste, in banca,
alle casse dei supermercati: time is money.
7) Qualche ricordo
particolare...
Non saprei; ne ho
tanti. Ricordo quanto ci disse nel college Ánela,
una ragazza bosniaca. Suo padre era stato arrestato
e rinchiuso in una cella; per quindici giorni s’era
nutrito solo di erba che riusciva a prendere
allungando le mani. E mentre raccontava queste cose,
noi del college eravamo fortemente impressionati.
Un altro sorprendente
racconto fu quello di Osama che aveva vissuto la
“prima puntata” della Guerra del Golfo. Ricordo la
meraviglia nei suoi occhi, mentre descriveva la
precisione con cui un missile radiocomandato
attraversava la strada per andare a colpire un
bersaglio militare prestabilito.
Le scuole erano
chiuse ed i ragazzini giocavano tra le macerie e gli
edifici abbandonati in seguito ai bombardamenti. Nei
rifugi, la sera, ci si riuniva per condividere la
cena e scambiarsi opinioni sulle possibili
evoluzioni della guerra. Il desiderio comune era
quello di tornare presto alla normalità.
Mi piaceva frequentare
quel college perché c’erano studenti da tutte le
parti del mondo: Giappone, Venezuela, Francia,
Germania, Svizzera, Kwait, Brasile, Arabia Saudita.
8) Attacco alle Torri
Gemelle...
Arrivai a Boston la
sera del 10 settembre 2001, venne a prendermi Hunt
in aeroporto. Il mattino successivo: l’ecatombe.
L’insistente suonare
del campanello, come due forti braccia che
scuotendoci interrompevano bruscamente il sonno, ci
svegliò. Era il nostro amico JJ, un ragazzo di
colore che lavorava come shampista per cani in un
negozio poco distante da casa. Facevamo fatica a
capire cosa dicesse tanto era sconvolto; camminava
su e giù per la casa ed infine, dinanzi al nostro
sconcerto, accese la TV e ci pregò di guardare. Di
fronte alle immagini che scorrevano sul video Hunt
si lasciò cadere sul divano annientato dallo
avvenimento; io rimasi in piedi, sgomenta,
ammutolita. Tre dei quattro aerei kamikaze erano
partiti proprio da Boston: la città era blindata.
Decidemmo di uscire,
ma dovemmo farlo a piedi in quanto non era
consentita la circolazione di automobili. Fuori i
volti corrucciati della gente, le bandiere a stelle
e strisce tristemente sventolanti dagli edifici e
poi silenzio, tanto, tanto silenzio.
Inizialmente la
reazione della maggioranza della popolazione è stata
quella di appoggiare le scelte dell'Amministrazione
Bush, senza una seria riflessione sulle radici del
terrorismo e le responsabilità dell'America
nell'averlo generato. Sembrerebbe una reazione
“impulsiva”, dettata dalla paura e dal desiderio di
giustizia per le vittime dell’attacco terroristico
e le loro famiglie. Col senno di poi qualcosa è
cambiato, l'opinione pubblica comincia a esprimere
la propria opposizione alla guerra e il dissenso nei
confronti del governo Bush. Tuttavia, il controllo
su di essa rimane forte, giacché c’è una costante,
capillare e ben nota manipolazione dei mass-media.
Gli Americani continuano ad essere per metà a favore
delle scelte politiche di Bush anche per passività
(politica e culturale) e sfiducia. In altre parole,
c'è la convinzione generale che non sia possibile
cambiare le cose attraverso una politica estera di
pace e non di guerra, che generi eguaglianza
anziché produrre povertà. Si pensa che quest’ultima,
insieme alla guerra, al razzismo, alla violenza,
ecc., faccia parte dello stato naturale del mondo e
sarebbe tempo sprecato lottare contro.
9) Si parla di
politica?
C’è scarso
coinvolgimento della gente nelle vicende politiche
del Paese. Probabilmente bisognerebbe dare
motivazioni alle persone per coinvolgersi, ciò può
avvenire solo con alternative al sistema vigente.
La soluzione al problema della sfiducia e della
passività sopra accennate, e’ sicuramente
rappresentata da una nuova politica che promuova ed
attui forme di economia più giuste. A ciò si
aggiunga che non e’ facile negli States manifestare
il dissenso politico, dato che le autorità cercano
sempre di emarginare persone e movimenti considerati
fuorvianti e potenziali ostacoli per il
raggiungimento dei loro obiettivi. Ma “Il dissenso
protegge la democrazia. Manifestazioni di protesta e
di dissenso politico nei confronti di questa America
che Bush ci impone ce ne sono molte, ma non trovano
visibilità pubblica” così dice Milton Glaser uno dei
padri della grafica. C’e’ evidentemente anche lo
zampino dei media in tutto questo. Vorrei inoltre
sottolineare il ruolo centrale assunto dalla
religione nella battaglia politica in seguito ai
fatti dell’11 settembre. Con l'amministrazione Bush
la religione tende a divenire direttamente collante
ideologico della politica e ad avere un ruolo
centrale nella società quale fattore di
identificazione collettiva.
10) L’atteggiamento
dell’uomo comune verso le istituzioni...
Indifferenza? I mezzi
di comunicazione narcotizzano la popolazione e la
rendono insensibile nei confronti di quanto le
accade intorno. In fondo, anche con la guerra in
Iraq la loro quotidianità non viene intaccata:
vivono felici in un mondo virtuale.
11) A che pensa,
l’americano medio? Quali sono i suoi modelli?
L’Americano medio è
una persona ottimista, religiosa, poco interessata
al resto del mondo, ma convinta che il suo Paese sia
il più grande, il più civilizzato, il più giusto, il
più democratico, il più potente e il più
invulnerabile della storia dell’umanità. Egli crede
nelle grandi verità, “verità evidenti”, come dice la
Dichiarazione di Indipendenza, e una di queste è che
gli Stati Uniti, il Paese verso cui gli antenati di
ognuno scapparono in cerca di una vita migliore e
più sicura, è una fortezza contro i mali che
potrebbero esistere nel mondo esterno (rigorosamente
in bianco e nero), sconosciuto.
Tuttavia, dopo l’11
settembre, è sicuramente cambiato il modo di pensare
dell’Americano medio. C’è più confusione e
consapevolezza della vulnerabilità degli Stati
Uniti. Inoltre, gli Americani hanno preso coscienza
dei problemi del mondo e delle ripercussioni che
questi possono avere sulla loro vita. Meglio tardi
che mai.
12) Cosa sanno
dell’Europa e in particolare del nostro Paese?
Sanno che e’ un
continente con profonde radici storico – culturali e
questo lo rende estremamente affascinante ai loro
occhi. Inoltre e’ dal Vecchio continente che sono
sempre arrivate nuove correnti di pensiero, nuove
mode, nuove usanze.
13) Vivrebbe in USA, e
perché?
No. Sono troppo legata
alle mie radici, intese in senso lato.
14) Quali prospettive?
Attualmente insegno e
scrivo e mi sento gratificata. Vorrei, tuttavia,
sfatare un luogo comune secondo cui a Napoli, ed al
Sud in generale, non ci sia lavoro. Ho già rifiutato
alcune offerte per le condizioni lavorative che sono
spesso improntate alla logica dello sfruttamento.
Comunque, mi sento ottimista nel credere che ci
siano realtà aziendali in controtendenza, che
rispettano i diritti e la dignità delle persone.