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N. 29 - Ottobre 2007

Stati Uniti e pragmatismo

Incontro con Micaela Orefice

di Arturo Capasso

 

1) Perché andò negli Stati Uniti?

 

Per diversi motivi. Il primo fu quello di fare un’esperienza di vita e quindi poter avere anche un termine di paragone con la mia realtà, cioè quella in cui avevo vissuto per venticinque anni. Poi per cercare di capire come mai gli Stati Uniti fossero una superpotenza mondiale ed osservare da vicino il loro modus vivendi. Infine, per imparare la lingua. Era quasi una scommessa con me stessa, visto che ero stata bocciata in quella materia all’esame universitario.

 

2) Visse sempre nello stesso posto?

 

No, infatti ho vissuto per circa nove mesi in una cittadina di nome Palm Bay, che è vicino Orlando, in Florida. In quei nove mesi lavoravo come cameriera in un ristorante italiano, di proprietà di mio zio, fratello di mia madre. Iniziai dal gradino più basso, che è quello della busser – ha il compito di apparecchiare e sparecchiare i tavoli, oltre che di rassettare le sale a fine serata. La ricordo come un’esperienza molto forte: una vera palestra di umiltà. Era - per me - la prima volta d’un lavoro manuale. Fino ad allora avevo dato qualche lezione privata. La mia carriera all’interno del ristorante fu piuttosto veloce. Infatti, passai molto presto da busser a cameriera di sala, con una nuova divisa che si componeva di pantaloni neri, camicia bianca ed un papillon anch’esso nero. Pure la retribuzione era diversa.

Dopo nove mesi mi trasferii a Boston, dove vissi col mio ragazzo di nome Hunt ed un esemplare femmina di dalmata, Jazmyn. Feci delle ricerche che riguardavano la mia tesi: il caso Napster.

 

3) Cos’era Napster?

 

Napster era (ed è) un programma che consentiva il download e lo scambio tra vari utenti di migliaia di canzoni, ma non solo. Tutto ciò avveniva in violazione dei relativi copyright e scatenava feroci reazioni da parte delle principali Majors (come Sony, Emy, etc.).

 

4) Le sue prime impressioni...

 

Mi hanno colpito diverse cose dell’American way of life, prima fra tutte il pragmatismo: è un indirizzo di pensiero che affonda le sue radici negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento e si basa sull’idea di fondo secondo la quale qualsiasi teoria ha un valore pratico, nel senso che vale ed è vera se è utile all’uomo. Poi ho notato grande multietnicità, sintomatica di apertura verso il nuovo, senza chiusure preconcette. Ma, tuttavia non si può sottacere quanto si sa e si vede: la discriminazione verso i neri, più accentuata nei Paesi del Sud. Forse è uno strascico della Guerra di secessione. C’è inoltre una superficialità nei rapporti umani. Un’eccessiva cordialità iniziale difficilmente sfocia in un rapporto duraturo, amichevole.

 

5) E dopo, conservò lo stesso giudizio?

 

Sì, sono rimasta dello stesso parere. Infatti, una volta scomparsa dal campo visivo dei miei “amici” statunitensi, il rapporto evaporava rapidamente.

 

6) Visti da vicino, come sono?

Abbastanza cordiali, come ho già accennato, ed hanno un approccio con le cose che è ispirato dal desiderio di semplificarle il più possibile. Sono estremamente pratici e per loro ogni ragionamento deve confluire in qualche certezza pratica. Non per niente c’è la domanda che si fanno: where is the beef? Cioè, oltre l’odore, ci vuole la bistecca.

E quello che m’ha colpito è che hanno un grande senso del valore del tempo, per cui niente file alle poste, in banca, alle casse dei supermercati: time is money.

 

7) Qualche ricordo particolare...

 

Non saprei; ne ho tanti. Ricordo quanto ci disse nel college Ánela, una ragazza bosniaca. Suo padre era stato arrestato e rinchiuso in una cella; per quindici giorni s’era nutrito solo di erba che riusciva a prendere allungando le mani. E mentre raccontava queste cose, noi del college eravamo fortemente impressionati.

 

Un altro sorprendente racconto fu quello di Osama  che aveva vissuto la “prima puntata” della Guerra del Golfo. Ricordo la meraviglia nei suoi occhi, mentre descriveva la precisione con cui un missile radiocomandato attraversava la strada per andare a colpire un bersaglio militare prestabilito.

 

Le scuole erano  chiuse ed i ragazzini giocavano tra le macerie e gli edifici abbandonati in seguito ai bombardamenti. Nei rifugi, la sera, ci si riuniva per condividere la cena e scambiarsi opinioni sulle possibili evoluzioni della guerra. Il desiderio comune era quello di tornare presto alla normalità.

 

Mi piaceva frequentare quel college perché c’erano studenti da tutte le parti del mondo: Giappone, Venezuela, Francia, Germania, Svizzera, Kwait, Brasile, Arabia Saudita.  

 

8) Attacco alle Torri Gemelle...

 

Arrivai a Boston la sera del 10 settembre 2001, venne a prendermi Hunt in aeroporto. Il mattino successivo: l’ecatombe.

 

L’insistente suonare del campanello, come due forti braccia che scuotendoci interrompevano bruscamente il sonno, ci svegliò. Era il nostro amico JJ, un ragazzo di colore che lavorava come shampista per cani in un negozio poco distante da casa. Facevamo fatica a capire cosa dicesse tanto era sconvolto; camminava su e giù per la casa ed infine, dinanzi al nostro sconcerto, accese la TV e ci pregò di guardare. Di fronte alle immagini che scorrevano sul video Hunt si lasciò cadere sul divano annientato dallo avvenimento; io rimasi in piedi, sgomenta, ammutolita. Tre dei quattro aerei kamikaze erano partiti proprio da Boston: la città era blindata.

 

Decidemmo di uscire, ma dovemmo farlo a piedi in quanto non era consentita la circolazione di automobili. Fuori i volti corrucciati della gente, le bandiere a stelle e strisce tristemente sventolanti dagli edifici e poi silenzio, tanto, tanto silenzio.

 

Inizialmente la reazione della maggioranza della popolazione è stata quella di appoggiare le scelte dell'Amministrazione Bush, senza una seria riflessione sulle radici del terrorismo e le responsabilità dell'America nell'averlo generato. Sembrerebbe una reazione “impulsiva”, dettata dalla paura e dal desiderio di giustizia  per le vittime dell’attacco terroristico e le loro famiglie. Col senno di poi qualcosa è cambiato, l'opinione pubblica comincia a esprimere la propria opposizione alla guerra e il dissenso nei confronti del governo Bush. Tuttavia, il controllo su di essa rimane forte, giacché c’è una costante, capillare e ben nota manipolazione dei mass-media.


Gli Americani continuano ad essere per metà a favore delle scelte politiche di Bush anche per passività (politica e culturale) e sfiducia. In altre parole, c'è la convinzione generale che non sia possibile cambiare le cose attraverso una politica estera di pace e non di guerra, che   generi eguaglianza anziché produrre povertà. Si pensa che quest’ultima, insieme alla guerra, al razzismo, alla violenza, ecc., faccia parte dello stato naturale del mondo e sarebbe tempo sprecato lottare contro.

 

9) Si parla di politica?

 

C’è scarso coinvolgimento della gente nelle vicende politiche del Paese. Probabilmente bisognerebbe dare motivazioni alle persone per coinvolgersi, ciò può avvenire solo con alternative al sistema vigente.


La soluzione al problema della sfiducia e della passività sopra accennate, e’ sicuramente rappresentata da una nuova politica che promuova ed attui forme di economia più giuste. A ciò si aggiunga che non e’ facile negli States manifestare il dissenso politico, dato che le autorità cercano sempre di emarginare persone e movimenti considerati fuorvianti e potenziali ostacoli per il raggiungimento dei loro obiettivi. Ma “Il dissenso protegge la democrazia. Manifestazioni di protesta e di dissenso politico nei confronti di questa America che Bush ci impone ce ne sono molte, ma non trovano visibilità pubblica” così dice Milton Glaser uno dei padri della grafica. C’e’ evidentemente anche lo zampino dei media in tutto questo. Vorrei inoltre sottolineare il ruolo centrale assunto dalla religione nella battaglia politica in seguito ai fatti dell’11 settembre. Con l'amministrazione Bush la religione tende a divenire direttamente collante ideologico della politica e ad avere un ruolo centrale nella società quale fattore di identificazione collettiva.

 

10) L’atteggiamento dell’uomo comune verso le istituzioni...

 

Indifferenza? I mezzi di comunicazione narcotizzano la popolazione e la rendono insensibile nei confronti di quanto le accade intorno. In fondo, anche con la guerra in Iraq la loro quotidianità non viene intaccata: vivono felici in un mondo virtuale.

 

11) A che pensa, l’americano medio? Quali sono i suoi modelli?

 

L’Americano medio è una persona ottimista, religiosa, poco interessata al resto del mondo, ma convinta che il suo Paese sia il più grande, il più civilizzato, il più giusto, il più democratico, il più potente e il più invulnerabile della storia dell’umanità. Egli crede nelle grandi verità, “verità evidenti”, come dice la Dichiarazione di Indipendenza, e una di queste è che gli Stati Uniti, il Paese verso cui gli antenati di ognuno scapparono in cerca di una vita migliore e più sicura, è una fortezza contro i mali che potrebbero esistere nel mondo esterno (rigorosamente in bianco e nero), sconosciuto.

 

Tuttavia, dopo l’11 settembre, è sicuramente cambiato il modo di pensare dell’Americano medio. C’è più confusione e consapevolezza della vulnerabilità degli Stati Uniti. Inoltre, gli Americani hanno preso coscienza dei problemi del mondo e delle ripercussioni che questi possono avere sulla loro vita. Meglio tardi che mai.

 

12) Cosa sanno dell’Europa e in particolare del nostro Paese?

 

Sanno che e’ un continente con profonde radici storico – culturali e questo lo rende estremamente affascinante ai loro occhi. Inoltre e’ dal Vecchio continente che sono sempre arrivate nuove correnti di pensiero, nuove mode, nuove usanze.

 

13) Vivrebbe in USA, e perché?

 

No. Sono troppo legata alle mie radici, intese in senso lato.

 

14) Quali prospettive?

 

Attualmente insegno e scrivo e mi sento gratificata. Vorrei, tuttavia, sfatare un luogo comune secondo cui a Napoli, ed al Sud in generale, non ci sia lavoro. Ho già rifiutato alcune offerte per le condizioni lavorative che sono spesso improntate alla logica dello sfruttamento. Comunque, mi sento ottimista nel credere che ci siano realtà aziendali in controtendenza, che rispettano i diritti e la dignità delle persone.

 

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