N. 52 - Aprile 2012
(LXXXIII)
Se Israele tifa repubblicano
ragioni della crescita del GOP
di Federico Donelli
Storicamente,
negli
ultimi
sessant’anni
il
rapporto
con
Israele
ha
avuto
un
peso
specifico
molto
significativo
nelle
campagne
elettorali
per
la
corsa
alla
Casa
Bianca.
In
previsione
delle
prossime
elezioni,
previste
in
novembre,
premesso
che
nessun
candidato
alla
presidenza
oserebbe
minare
il
rapporto
di
speciale
amicizia
con
lo
Stato
ebraico,
emergono
comunque
posizioni
differenti
sui
temi
che
da
anni
infiammano
la
questione
israelo-palestinese.
Posizioni
molto
diverse
emergono
tra
l’attuale
Presidente
Barack
Obama
e il
suo
possibile
sfidante
Mitt
Romney.
Nonostante
quest’ultimo
sia
dato
per
sicuro
sfidante,
in
assenza
di
risultati
ancora
certi,
l’articolo
analizza
anche
la
posizione
dell’altro
candidato
repubblicano
ancora
in
corsa,
cioè
l’astro
nascente
Rick
Santorum.
Una
precaria
stabilità
caratterizza
l’attuale
situazione
in
tutto
il
Medio
Oriente,
stabilità
che
viene
quotidianamente
minacciata
dal
progetto
nucleare
iraniano,
dalle
sanguinosa
rivolta
siriana
e
dai
missili
jihadisti
che
da
Gaza
cadono
sulle
città
del
sud
di
Israele.
Questa
situazione
ha
inevitabilmente
posto
al
centro
del
dibattito
politico
americano,
ed
in
particolare
dei
candidati
alla
Casa
Bianca,
le
future
scelte
e
posizioni
da
assumere
nell’ambito
dei
rapporti
con
il
mondo
arabo
e
con
lo
Stato
di
Israele.
Per
quanto
riguarda
l’attuale
Presidente
Barack
Obama
non
si
può
dire
che
abbia
mai
veramente
suscitato
l’entusiasmo
dell’attuale
Premier
israeliano
Benjamin
Netanyahu
né
tanto
meno
del
suo
partito,
il
Likud
e di
gran
parte
dell’opinione
pubblica
israeliana.
Un
sentimento
molto
critico
e
sospettoso
nei
suoi
confronti
nato
a
partire
dal
famoso
discorso
pronunciato
all’Università
del
Cairo
nel
giugno
del
2009,
quando
promise
che
avrebbe
portato
avanti
ogni
sforzo
per
riuscire
a
dar
corso
ad
un
“nuovo
inizio”
tra
gli
Stati
Uniti
e
l’Islam.
Quel
“nuovo
inizio”
venne
letto
da
alcuni
esponenti
dell’establishment
israeliano
come
l’inizio
di
un
graduale
raffreddamento
dell’amicizia
tra
Israele
e
USA.
Nel
corso
dei
suoi
quattro
anni
di
presidenza
Obama
non
ha
perso
occasione
per
criticare
l’atteggiamento
israeliano,
giudicato
troppo
intransigente
sia
nell’ambito
delle
trattative
con
l’Autorità
Palestinese
sia
nelle
ferme
risposte
agli
attacchi
di
miliziani
appartenenti
ad
Hamas
e
Hezbollah.
Critiche
che
han
suscitato
reazioni
negative
alla
base
del
Likud,
attuale
partito
di
governo,
tra
le
cui
fila
cresce
sempre
di
più
il
numero
di
coloni.
Non
si
può
comunque
negare
che
l’amministrazione
Obama
in
questi
anni
ha
cercato
di
mantenere
saldo
lo
storico
legame
con
Israele;
la
dimostrazione
se è
avuta
sia
la
dura
condanna
alla
richiesta
palestinese
di
riconoscimento
formulata
nel
settembre
scorso
alle
Nazioni
Unite,
sia
attraverso
la
richiesta
al
Congresso
di
uno
stanziamento
per
una
cifra
intorno
ai 3
miliardi
di
dollari
nel
solo
2011
(cifra
più
alta
dal
2003)
per
il
sostegno
alla
politica
israeliana.
La
posizione
ufficiale
dell’amministrazione
è
quella
di
promuovere
negoziati
che
portino
alla
formazione
di
due
Stati
(two-state
solution)
lungo
i
confini
del
1967
attraverso
una
progressiva
concessione
di
territori
concordati
tra
le
parti.
Secondo
i
vertici
dell’amministrazione
Obama
raggiungere
un
compromesso
sui
territori
e
sulle
linee
di
confine
rappresenterebbe
la
base
necessaria
per
procedere
poi
ad
una
discussione
sulle
due
questioni
più
delicate:
Gerusalemme
e il
rientro
dei
profughi
palestinesi.
Ad
inizio
marzo
si è
tenuto
un
importante
meeting
tra
Obama
e
Netanyahu,
dove
al
di
là
dei
sorrisi
e
delle
strette
di
mano
di
circostanza,
sono
emerse
le
due
posizioni
opposte
sulla
questione
iraniana;
se
Netanyahu
sperava
di
trovare
in
Obama
l’appoggio
necessario
per
un
azione
militare
contro
i
siti
nucleari
iraniani
nel
medio-breve
periodo,
ha
dovuto
ricredersi
trovando
solamente
una
tiepida
apertura.
La
questione
è
stata
affrontata
dallo
stesso
Presidente
di
fronte
alla
platea
della
più
potente
lobby
ebraica
americana,
l’AIPAC
(American
Israeli
Public
Affairs
Committee),
dove,
in
cerca
di
finanziamenti
e
appoggio
per
le
prossime
elezioni,
ha
espresso
dubbi
sull’intervento
armato,
ribadendo
che
la
strada
da
seguire
è
prima
di
tutto
quella
diplomatica
attraverso
anche
un
ulteriore
incremento
delle
sanzioni.
Al
momento
Obama
è
ben
consapevole
che
un
nuovo
intervento
militare
americano,
dagli
alti
costi
in
termini
economici,
potrebbe
risultare
determinante
per
il
proprio
futuro
rischiando
di
comprometterne
il
secondo
mandato
che
ad
oggi
pare
quasi
scontato.
Israele
vive
al
momento
ore
di
alta
tensione
e la
popolazione
appare
stanca
e
provata
dai
missili
(più
di
duecento)
provenienti
da
Gaza
,
lanciati
dai
gruppi
jihadisti
palestinesi
e da
membri
dei
Comitati
di
Resistenza
il
cui
leader
e
segretario
generale
Zuhair
al-Qaissi
è
stato
ucciso
da
un
raid
delle
forze
israeliane.
Solamente
il
perfetto
funzionamento
del
nuovo
scudo
missilistico
israeliano
“cupola
di
ferro”
e
l’ottima
educazione
all’emergenza
dei
civili
hanno
consentito
che
nessuno
dei
razzi
potesse
causare
gravi
danni
in
termini
di
vite
umane.
Negli
Stati
Uniti
le
immagini
provenienti
da
Israele,
unite
ai
precedenti
tentennamenti
di
Obama,
hanno
favorito
l’opposizione
tra
le
cui
fila
emerge
ormai
come
candidato
unico
per
il
Partito
Repubblicano
il
mormone
Mitt
Romney.
Nel
suo
programma
elettorale,
intitolato
“An
American
Century”,
vengono
delineate
le
linee
guida
della
propria
politica
estera.
Romney
descrive
Israele
come
l’alleato
più
fidato
e
importante
degli
Stati
Uniti
in
tutto
il
Medio
Oriente
e
sottolinea
come
proprio
per
questo
motivo
sia
fondamentale
per
gli
Stati
Uniti
fare
in
modo
che
conservi
la
propria
supremazia
strategica
e
militare
nella
regione.
Romney
critica
aspramente
la
politica
dei
negoziati
promossa
dall’amministrazione
Obama
considerandola
eccessivamente
accondiscendente
con
le
richieste
dell’Autorità
Palestinese
senza
considerare
le
ripercussioni
sulla
sicurezza
dei
cittadini
israeliani.
Considera
come
unica
reale
base
per
l’inizio
di
un
concreto
negoziato
la
garanzia
data
ad
Israele
che,
la
stipula
di
un
eventuale
accordo
sia
legata
alla
certezza
della
propria
esistenza.
A
seguito
dell’intervento
di
Obama
di
fronte
alla
lobby
ebraica
delusa
per
il
mancato
appoggio
ad
un
azione
militare
nei
confronti
dell’Iran,
Romney
ha
voluto
rassicurare
la
comunità
ebraica
dichiarando
che
nel
caso
dovesse
essere
lui
il
prossimo
Presidente
degli
Stati
Uniti
prenderebbe
in
considerazione
l’ipotesi
di
un
attacco
militare.
Parole
queste
che
hanno
iniziato
a
far
credere
a
molti
israeliani
ma
soprattutto
a
molti
ebrei
americani
che
forse
il
candidato
del
Gop
possa
essere
l’uomo
giusto
per
ristabilire
quella
comune
visione
sulle
questioni
mediorientali
che
ha
caratterizzato
per
molti
anni
i
rapporti
tra
i
due
Paesi.
Lo
stesso
Netanyahu
ha
apprezzato
le
dichiarazioni
fatte
da
Romney
e
durante
il
proprio
intervento
all’AIPAC
ha
ribadito
come
al
di
là
di
tutto
Israele
deve
sempre
e
comunque
rimanere
“padrone
del
proprio
destino”
e
per
questo
motivo
il
popolo
israeliano
non
può
aspettare
ancora
a
lungo
i
tentativi
diplomatici
lasciando
che
venga
costantemente
minacciata
la
propria
stessa
sopravvivenza.
Ragioni
queste
che
rafforzano
l’idea
di
un
sempre
più
probabile
di
un
prossimo
intervento
solitario
israeliano,
ipotesi
questa
ormai
data
per
certa
da
parte
dell’intelligence
americana,
che
lo
ritiene
imminente
(tra
aprile
e
giugno).
A
dare
ulteriore
credito
a
questa
ipotesi
la
notizia
comparsa
a
fine
marzo,
subito
smentita
dalle
autorità
azerbaigiane,
secondo
cui
Israele
avrebbe
ottenuto
il
permesso
di
utilizzare
le
basi
aeree
dell’Azerbaigian
al
confine
settentrionale
iraniano
(“Foreign
Policy”
del
28/3/2012).
In
un
clima
in
cui
sono
aumentate
le
simpatie
israeliane
verso
il
Partito
Repubblicano,
molta
ammirazione
ed
interesse
hanno
suscitato
i
diversi
interventi
dell’altro
principale
competitor
repubblicano,
l’ultra-conservatore
Rick
Santorum.
In
particolare
l’ex
senatore
dello
Stato
della
Pennsylvania
in
una
dichiarazione
di
novembre
durante
un
comizio
elettorale
in
Iowa
ha
negato
la
legittimità
di
qualsiasi
rivendicazione
palestinese,
dichiarando
che
tutti
i
residenti
nella
West
Bank
sono
da
considerarsi
come
israeliani
(“Jerusalem
Post”
del
22/11/2011).
A
questa
posizione
estrema
si
devono
aggiungere
le
durissime
critiche
rivolte
alle
scelte
intraprese
negli
ultimi
anni
dall’amministrazione
Obama
sulla
questione
mediorientale;
secondo
Santorum
i
piani
di
Obama
di
far
negoziare
Israele
e
l’Autorità
Palestinese
sulla
base
di
un
ritorno
ai
confini
del
1967
è da
considerarsi
come
un
atto
irresponsabile
che
mina
la
vulnerabilità
dello
Stato
ebraico.
In
questi
mesi
molteplici
sono
state
le
uscite
del
candidato
repubblicano
che
hanno
portato
l’ala
più
radicale
del
“centro
destra”
israeliano,
il
partito
Israel
Beitenu,
a
vedere
in
Santorum
un
paladino
della
causa
ebraica.
La
base
elettorale
del
partito
Israel
Beitenu
è
composta
soprattutto
dagli
immigrati
di
ultima
generazione
provenienti
dalle
province
russe
dopo
il
crollo
dell’Unione
Sovietica;
una
considerazione
necessaria
per
valutare
come
sia
quasi
nulla
l’influenza
del
partito
sulla
comunità
ebraica
americana.
Tuttavia
Santorum
ha
saputo
guadagnarsi
la
simpatia
trasversale
nel
contesto
politico
israeliano
grazie
alla
sua
ferma
condanna,
nel
settembre
scorso,
alla
proposta
dell’Autorità
Palestinese
alle
Nazioni
Unite.
Una
condanna
che
è
seguita
di
pochi
mesi
ad
un
articolo
in
cui
Santorum
definisce
la
situazione
israeliana
molto
preoccupante
per
il
futuro;
perché
il
Paese
si
ritrova
circondato
da
un’unica
coesa
massa
di
jihadisti
fondamentalisti
e di
fanatici
nazionalisti
(in
“National
Review
Online”
del
20/5/2011).
Le
posizioni
di
Santorum
sulla
politica
estera
sono
radicali
quanto
quelle
su
altri
temi
cari
all’opinione
pubblica
(famiglia,
tasse)
motivi
questi
che
comunque
spingono
a
credere
sia
molto
difficile
considerarlo
come
possibile
sfidante
di
Obama
alla
presidenza
nel
prossimo
mese
di
novembre.
Ad
oggi
pare
probabile
che
in
novembre
la
sfida
avvenga
tra
il
Presidente
Obama
e
Mitt
Romney
con
un
altrettanto
probabile
vittoria
del
primo
il
quale
potrà
così
iniziare
il
suo
secondo
mandato
con
l’obiettivo,
di
tutti
i
Presidenti
americani
che
ottengono
un
secondo
mandato,
ovvero
cercare
di
raggiungere
una
soluzione
della
questione
israelo-palestinese.
Forse
a
spaventare
Israele
è
proprio
l’idea
che
il
grande
“amico”
americano,
con
al
comando
ancora
Barack
Obama,
possa
decidere
di
non
fornire
più
alcun
appoggio
politico
e
militare
alle
scelte
future
israeliane
per
non
compromettere
le
proprie
relazioni,
già
critiche,
con
il
mondo
arabo.
Posizioni
ancora
più
incerte
di
quelle
attuali
porterebbero
gli
Stati
Uniti
non
solo
a
non
avvallare
un
eventuale
intervento
militare
contro
l’Iran
(ammesso
e
non
concesso
che
l’intervento
israeliano
non
avvenga
prima)
ma
anche
ad
un
aumento
delle
pressioni
sullo
Stato
ebraico
affinché
aumenti
le
concessioni
all’Autorità
Nazionale
Palestinese.
Questi
timori
hanno
fatto
si
che
nelle
ultime
settimane
in
Israele
sia
cresciuto
sempre
più
il
numero
di
coloro
che
in
novembre
tiferanno
apertamente
il
candidato
del
GOP,
chiunque
esso
sia.