N. 23 - Aprile 2007
uomo E natura
“Naturam expellas furca, tamen usque
recurret”
di
Matteo Liberti
L’uso strumentale dell’ambiente da parte dell’uomo
sembra essere qualcosa di noto e da sempre considerato
nell’ordine naturale delle cose.
Già
Aristotele, nella sua Politica, affermava che
le piante esistevano per gli animali e che gli animali
vivevano per l'uomo, il quale veniva così autorizzato
allo sfruttamento indiscriminato tanto delle une che
degli altri.
Tutto il pensiero umano appare, lungo il corso dei
secoli, prima delle parole di Aristotele ed alla
stessa maniera dopo di esse, un pensiero profondamente
ed istintivamente antropocentrico. Quel che
l’uomo riconosceva come altro da se, sembrava passare
immediatamente nella categoria del sotto di se;
quando non diventava religione.
Fu
con l’illuminismo che si iniziarono lentamente ad
affrontare, su basi nuove, le questioni riguardanti i
diritti dell’uomo ma pure degli animali: si venne
scardinando, così, la teoria secondo la quale la
superiorità intellettuale dell’uomo sulle bestie
(e quindi la loro eterna inferiorità) poteva
giustificare il violento sfruttamento di questi.
Uomo
ed animale vennero portati sullo stesso piano, e ciò
fu dai lumi motivato col fatto che ambedue erano
capaci, se non di pensare, quanto meno di soffrire
nella medesima maniera.
L’uomo e l’animale, si diceva, avevano sempre avuto un
loro speciale rapporto nel corso della storia:
cavalli, cani, mucche, tori, asini e gatti, chi per
utilità e chi solo per compagnia, erano sono stati
accettati nella comunità umana, talvolta con compiti
ben specifici, altre volte solamente per fornire del
cibo.
E sulle tavole dell’uomo, fosse ricco o povero,
c’era sempre stato un grande numero di uccelli.
L’interazione tra questi animali e l’essere umano era
data dalla loro dieta: insettivori ma anche granivori,
gli uccelli eran sempre posti di fronte al bivio
dell’utilità e del danno.
Una
prima considerazione può esser quindi fatta intorno
alla visibilità e l’immediatezza che avevano i
presunti danni.
Un
solo frutto beccato risultava sicuramente molto più
appariscente agli occhi ed alle emozioni umane che
cento o mille insetti uccisi, e questa era la ragione
primaria per cui, nella maggior parte dei casi, gli
uccelli finivano con l’esser considerati come dannosi
per i raccolti. Ma essi apportavano anche dei
benefici, secondo molti, e tra tutti, il più
consistente si concretizzava proprio nella grossa
quantità di insetti dannosi per i campi e per
l’agricoltura che essi riuscivano a mangiare,
liberando così molti orti dai loro principali nemici.
Un
noto scrittore austriaco, A. E. Brehm, autore tra
l’altro della grande opera di zoologia Vita degli
Animali, usava queste parole, all’interno del
terzo volume della stessa opera, per esprimere le sue
opinioni al riguardo: “Gli uccelli, nella catena
degli esseri viventi, costituiscono un indispensabile
anello; sono i custodi dell’equilibrio del mondo
animale, si oppongono alle dannose usurpazioni delle
altre classi, e specialmente degli insetti, che
desolerebbero la creazione quando fosse abbandonata al
loro arbitrio.” E ancora:
“Un paio di uccelli ci può essere più
utile che non tutti gli individui di certi ordini di
mammiferi. L’utilità degli uccelli non si può
calcolare perché supera ogni aspettazione, ed è tale,
che chiunque si occupa della vita degli uccelli è in
diritto di dire a tutti coloro che non siano alieni da
un consiglio: Proteggete gli uccelli.”
Prima
di arrivare a proteggere seriamente gli uccelli, però,
passarono ancora molti anni e spesso, per difendersi
dai terribili insetti, si preferì affidarsi allo
scongiuro o addirittura alla scomunica religiosa, come
del resto ancora accadeva nel 1903, allorché Papa Pio
VII ne lanciava una contro le cavallette di Merate, in
Lombardia.
Riferimenti bibliografici:
Cesare Durando, La
conservazione degli uccelli in rapporto all’aumento
dei Prodotti Alimentari dell’agricoltura, Tip.
Origlia Festa e C., Torino 1899 |