N. 110 - Febbraio 2017
(CXLI)
uomini contro macchine
La robotizzazione
del nostro tempo
di Antonio Coppola
È
una
sfida
antichissima
quella
che
vede
gli
uomini
schierati
contro
le
“macchine”,
senza
che
i
primi
si
rendano
conto
che
ogni
macchina
altro
non
è
che
uno
strumento
tecnologico
al
loro
servizio.
Del
resto,
se
provassimo
a
scavare
più
a
fondo,
potremmo
notare
che
tale
rapporto
di
ostilità
altro
non
è
che
la
“naturale
evoluzione”
di
uno
scontro
tra
l’uomo
e
qualsiasi
strumento
volto
a
stravolgere
il
suo
modo
di
lavorare.
Sembra
quasi
che
all’essere
umano
lavoratore,
piaccia
particolarmente
stancarsi
e
affaticarsi
più
del
dovuto,
ma
allo
stesso
tempo
esso
non
vede
di
buon
occhio
la
possibilità
di
lavorare
a se
stesso
e
per
se
stesso,
allo
scopo
del
miglioramento
delle
proprie
possibilità.
Insomma,
all’uomo
piace
stancarsi,
ma
quando
c’è
da
rimboccarsi
le
maniche
seriamente
è
sempre
pronto
a
defilarsi
in
cerca
di
una
soluzione
più
semplice,
che
precluda
il
cambiamento,
radicandosi
in
un
profondo
rifiuto
al
cambiamento
e
preferendo
il
lavoro
“tradizionale
”,
ormai
obsoleto
e
inutilmente
più
faticoso
e
costoso
in
termini
sia
economici
che
energetici.
Per
avere
un
quadro
più
completo
di
questo
scontro
tra
l’uomo
e la
macchina,
dove
però
la
macchina
non
combatte
realmente,
possiamo
guardare
ad
alcuni
degli
innumerevoli
esempi
storici,
costituiti
dalle
innumerevoli
“rivoluzioni
tecnologiche”,
e
che
di
fatto,
ci
forniscono
un
immensa
rosa
do
possibili
esempi,
tra
cui,
più
di
tutti,
spiccano
le
varie
rivoluzioni
industriali,
l’ultima
delle
quali
sta
compiendosi
proprio
nella
nostra
epoca.
La
nostra
rivoluzione
industriale
più
di
qualunque
altra
rivoluzione
tecnologica
del
passato,
si
fonda
su
di
un
radicale
cambio
nel
modo
di
concepire
sia
la
produzione
sia
le
tecniche
di
produzione,
ormai
sempre
più
automatizzate,
ed è
proprio
questo
fattore
che
sta
alimentando
e
nutrendo
l’antichissima
paura
per
una
potenziale
“perdita
di
occupazione”
da
parte
dei
lavoratori
meno
qualificati.
Questa
paura
non
è
certamente
una
peculiarità
della
nostra
epoca
e
della
rivoluzione
robotica/informatica,
ma
anzi,
si è
già
presentata
nella
storia
in
innumerevoli
altre
occasioni.
Il
caso
storico
del
movimento
luddista
,
nato
sul
finire
del
secolo
XVIII
ed
esploso
nei
primi
anni
del
secolo
XIX,
è
una
chiara
manifestazione
di
questa
medesima
paura
espressa
da
parte
dei
lavoratori,
più
o
meno
qualificati,
per
la
presenza
e
l’introduzione
nei
sistemi
produttivi
di
strumenti
e
tecnologie
che,
nell’atto
pratico,
riducevano
notevolmente
i
tempi
del
lavoro,
aumentandone
quindi
l’intensità,
e
sul
lungo
periodo,
a
parità
di
prodotto
finito,
i
costi
necessari
alla
realizzazione
di
un
dato
prodotto
sarebbero
andati
diminuendo,
permettendo
quindi
la
nascita
di
quella
che
oggi
siamo
soliti
chiamare
“società
di
massa”
o
“del
consumo”.
Allontanando
leggermente
la
lente
dal
movimento
luddista
e
guardando
all’intero
scenario
planetario,
dipanatosi
nel
corso
del
secolo
successivo,
possiamo
osservare
come
le
paure
dei
luddisti
fossero
sostanzialmente
inesatte
poiché
essi
si
soffermarono
soltanto
su
una
parte
del
problema,
proiettando
i
vecchi
canoni
e i
vecchi
modelli
di
lavoro
in
un
sistema
con
il
quale
non
erano
più
compatibili
al
cento
per
cento.
Di
fatto
la
“prima
rivoluzione
industriale”,
con
le
sue
molteplici
innovazioni,
ebbe
sì
gli
effetti
negativi,
preventivati
dai
luddisti,
ovvero
la
riduzione
e in
alcuni
casi
la
sparizione
di
numerose
figure
professionali,
ma
allo
stesso
tempo
se
ne
crearono
di
nuove,
che
poterono
godere
a
pieno
della
riduzione
dei
costi
di
produzione,
potendo
quindi
acquistare
beni
e
proprietà
fino
a
quel
momento
a
loro
esclusi,
perché
“troppo
costosi
” ed
etichettati
come
“superflui”.
Secondo
la
teoria
economica
“classica”
precedente
Marx,
incarnata
nella
visione
di
Jean
Charles
Léonard
Simonde
de
Sismondi,
la
riduzione
dei
costi
di
produzione
dava
sia
ai
lavoratori
sia
ai
nuovi
imprenditori
le
stesse
possibilità
d’acquisto,
di
conseguenza,
per
diversificare
il
proprio
“status
economico”,
i
più
ricchi
avrebbero
concentrato
le
proprie
risorse,
non
più
nell’accumulo
di
ricchezze,
ma
anche
e
soprattutto
nell’acquisizione
di
prodotti
“di
lusso”,
derivati
non
dal
lavoro
industriale
ma
da
quello
artigianale,
più
elaborato,
rifinito
e
raffinato.
Andando
quindi
ad
alimentare
e
nutrire
una
nuova
tipologia
di
lavoratori
e
artigiani
specializzati,
in
grado
di
rispondere
alla
nascente.
Questa
teoria
economica
nasce
e si
sviluppa
negli
anni
di
crescita,
o
per
dirla
in
termini
più
moderni,
negli
anni
del
boom
economico
legato
alla
prima
rivoluzione
industriale,
anni
che
però
non
sarebbero
durati
in
eterno
a
causa
della
poca
lungimiranza
dei
primi
imprenditori
industriali
che,
non
tenendo
in
considerazione
la
possibilità
di
una
saturazione
del
mercato,
finirono
di
fatto
nell’arenarsi
nelle
proprie
produzioni
intensive,
provocando
soprattutto
nell’ultimo
quarto
dell’ottocento,
una
profonda
crisi
economica
come
mai
ne
erano
state
viste
in
precedenza,
ma
di
cui
alcuni
teorici
dell’economia
avevano
prospettato
l’inizio.
Karl
Marx
e
Friedrich
Engels
scrivevano
nel
capitolo
primo
del
manifesto
del
partito
comunista:
“Nelle
crisi
scoppia
un
epidemia
sociale
che
in
tutte
le
altre
epoche
sarebbe
stata
considerata
un
controsenso:
l’epidemia
della
sovrapproduzione.
La
società
si
trova
improvvisamente
ricacciata
in
uno
stato
di
momentanea
barbarie:
una
carestia,
una
guerra
di
annientamento
totale
sembrano
sottrarle
ogni
mezzo
di
sussistenza:l’industria,
il
commercio
appaiono
distrutti,
e
perché?
Perché
la
società
ha
incorporato
troppa
civiltà,
troppi
mezzi
di
sussistenza,
troppa
industria,
troppo
commercio”.
Detto
più
semplicemente,
la
riduzione
dei
costi
di
produzione
e di
conseguenza
dei
prodotti
e un
miglioramento
delle
condizioni
economiche
delle
masse,
fa
sì
che
l’offerta,
cioè
la
presenza
sul
mercato
di
un
determinato
prodotto,
superi
la
domanda,
provocando
un
abbattimento
ulteriore
del
valore
delle
merci
e
dei
prodotti,
e se
questo,
in
una
prima
fase
si
traduce
in
una
intensificazione
degli
scambi,
in
fasi
più
avanzate
e
incontrollate,
rischia
di
saturare
il
mercato
poiché
la
domanda
non
è
più
in
grado
di
assorbire
l’eccesso
dell’offerta.
In
questa
situazione
al
limite,
l’intero
sistema
di
produzione
e di
scambi
collassa
su
se
stesso
perché
le
produzioni
si
fermano,
i
lavoratori
perdono
il
lavoro
e
non
sono
più
in
grado
di
acquistare
beni.
Nell’ultimo
quarto
dell’ottocento,
in
seguito
alla
diffusione
su
larga
scala,
in
tutta
Europa
e
oltre
oceano,
delle
tecnologie
introdotte
con
la
prima
rivoluzione
industriale,
si
verifica
esattamente
questo
scenario,
il
mercato
non
è
più
in
grado
di
assorbire
tutta
la
ricchezza
prodotta
e
quindi
entra
in
crisi.
Quella
che
si
verifica
è la
prima
crisi
economica
di
sovrapproduzione,
una
novità
assoluta
rispetto
al
passato
dove,
le
crisi
erano
state
caratterizzate
dall’elemento
della
sottoproduzione,
ovvero,
crisi
dovute
alla
carenza
di
merci
che
quindi
non
erano
più
sufficienti
per
soddisfare
la
domanda
dell’intera
popolazione.
Questo
tipo
di
crisi
sono
impossibili
da
controllare,
poiché
provocate
da
diversi
fattori
esterni,
su
cui
l’uomo,
non
è in
grado
di
intervenire.
Queste
crisi
possono
nascere
in
seguito
ad
una
carestia,
un
epidemia,
una
guerra,
un
alluvione
o
una
qualsiasi
altra
calamità
naturale,
insomma,
in
seguito
ad
un
qualsiasi
evento
capace
di
rendere
impossibile
l’utilizzo
di
una
fetta
considerevole
delle
produzioni,
ed
ovviamente
situazioni
di
questo
tipo
erano
più
frequenti
in
passato,
rispetto
ad
oggi.
È
tuttavia
interessante
osservare
come,
l’effetto
negativo
più
significativo
della
prima
rivoluzione
industriale,
non
sia
un
collasso
del
sistema
di
produzione
dovuto
all’eccessivo
numero
di
ex
lavoratori
inoccupati,
ma
anzi,
l’esatto
contrario,
ovvero,
un
collasso
del
sistema
economico,
prima
locale
e
poi
internazionale,
legato
all’eccessiva
produzione,
che
rendendo
semplicemente
più
bassi
i
costi
di
produzione,
ha
permesso
un
aumento
esponenziale
della
domanda
che
a
sua
volta
ha
aumentato
l’offerta,
in
un
circolo
vizioso
dove,
alla
fine,
il
valore
dei
prodotti
finiti
è
diventato
più
basso
del
suo
effettivo
valore
materiale,
inteso
per
dirla
alla
Marx
come
la
sommatoria
del
valore
delle
merci
più
il
valore
del
lavoro
e il
surplus
che
va a
costituire
il
profitto
dell’imprenditore.
Dinamiche
analoghe,
anche
se
attenuate
dal
volume
notevolmente
più
basso
delle
produzioni,
e
quindi
non
in
grado
di
provocare
la
catastrofica
“sovrapproduzione”
sono
presenti
in
tutte
le
precedenti
rivoluzioni
tecnologiche
e
sociali,
fin
dall’invenzione
dell’aratro
a
buoi
che
permise
ad
un
singolo
uomo,
in
una
sola
giornata,
di
compiere,
senza
troppa
fatica,
quello
che
prima
era
il
lavoro
di
più
uomini,
e
questi
elementi
sono
presenti
anche
nella
nostra
rivoluzione
industriale.
Diversamente
dalla
prima
rivoluzione
industriale
però,
la
possibilità
della
sovrapproduzione
rappresenta
oggi,
una
minaccia
ben
nota,
contro
cui
prendere
i
dovuti
provvedimenti
e le
dovute
precauzioni,
consapevoli
del
fatto
che
essa
rappresenta
un
difetto
fondativo
del
sistema
economico
capitalista,
un
errore
di
fondo
al
quale
probabilmente
non
esiste
una
soluzione
definitiva,
ma
solo
varie
ed
eventuali
correzioni
ed
accorgimenti
in
corso
d’opera.
In
conclusione,
la
tendenza
all’informatizzazione
e
alla
robotizzazione
del
nostro
tempo,
analogamente
alla
tendenza
ottocentesca
alla
meccanizzazione
dei
sistemi
di
produzione
non
si
configura
come
l’inizio
della
fine
del
lavoro
umano,
ma
anzi,
spalanca
una
porta
su
innumerevoli
possibilità,
possibili
ad
un
unica
condizione,
un
progressivo
avanzamento
delle
conoscenze,
delle
capacità
e
delle
competenze
dei
lavoratori
non
specializzati,
che
viaggi
parallelamente
all’avanzamento
tecnologico.
Questo
avanzamento
avrà
come
effetto
il
sacrificio
e la
perdita
di
determinati
saperi
e
conoscenze,
oggi
fondamentali
per
alcuni
lavori
manuali,
in
favore
di
nuove
conoscenze
e
nuovi
saperi,
oggi
considerati
“avanzati”
e
destinati
a
diventare
“basilari”.
Così
come
i
primi
agricoltori
hanno
smesso
di
arare
a
mano
il
proprio
campo,
per
imparare
a
controllare
aratri
e
buoi,
così
come
i
tessitori
ottocenteschi
hanno
smesso
di
filare
a
mano
i
propri
tessuti
per
imparare
a
utilizzare
la
spoletta
volante,
così
come
gli
operai
del
primo
Novecento
hanno
perso
la
visione
generale
del
manufatto
a
cui
lavoravano,
per
diventare
parte
di
una
più
ampia
e
complessa
catena
di
montaggio,
così
i
lavoratori
non
qualificati
del
XXI
secolo
dovranno
rinunciare
ad
alcuni
saperi
per
acquisirne
di
nuovi,
legati
al
mondo
informatico
e
all’utilizzo
dei
computer
e
della
robotica.