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										antica 
										
										
										L’ARRIVO degli Unni 
										l’inesorabile malessere dell’organismo 
										romano 
										
										
										
										di Mauro
										Napoliello  
										
										
										  
										
										
										La Storia ha dato più volte 
										dimostrazione, di come gli imperi di 
										qualsiasi epoca umana, si siano uno dopo 
										l’altro sgretolati sotto il loro peso: 
										non distrutti, ma autodistrutti. Tale 
										affermazione, potrebbe far storcere il 
										naso ai più, dato che 
										nell’indottrinamento comune, dietro a 
										ogni grande tracollo imperiale, ci 
										devono essere per forza guerre o 
										invasioni.  
										
										
										  
										
										
										Parlando della questione romana, questi 
										ultimi aspetti sono solamente i sintomi 
										della fine imperiale, tanto della parte 
										occidentale, quanto quella orientale 
										mille anni dopo. Detto ciò sarebbe bene 
										immaginare l’impero romano, come 
										qualcosa di vivo, di organico che nel 
										corso della sua vita, si è saputo 
										adattare agli stimoli interni ed esterni 
										in cui era collocato: cresce, si 
										irrobustisce, prospera, ma col tempo 
										invecchia e le minacce esterne diventano 
										più pericolose per la sua esistenza.
										 
										
										
										  
										
										
										Nel III secolo, da Oriente giunge un 
										vento burrascoso, proveniente da un 
										altro impero, quello Sassanide. Questo 
										grande popolo arrivato di prepotenza a 
										sostituire il secolare impero partico, 
										aveva le idee chiare in testa e una 
										volta risolte le faccende in casa 
										propria, puntò dritto come una freccia 
										sul confine orientale romano. 
										 
										
										
										  
										
										
										A quell’epoca, l’imperatore romano 
										Valeriano, tutto si aspettava, tranne 
										che una guerra di tale portata; 
										combattere i Parti prima e ora i 
										Sassanidi, non era come confrontarsi con 
										le bande più o meno numerose di barbari 
										germanici. Alle porte dei confini di 
										Oriente, era situata una civiltà 
										sviluppata e organizzata tanto quella 
										romana, capace di mettere sul campo di 
										battaglia, truppe scelte con armamenti e 
										strategie belliche ben precise. 
										 
										
										
										  
										
										
										Valeriano si mosse in fretta e furia per 
										arginare l’esuberanza bellica dei 
										Sassanidi, ma venne malamente sconfitto. 
										Non solo, fu catturato e imprigionato a 
										vita; cosa che in patria sassanide fu 
										festeggiata con monumenti e 
										bassorilievi. Ecco, è proprio qui nel 
										III secolo d.c. che l’organismo romano, 
										viene attaccato e comincia ad ammalarsi: 
										il suo sistema immunitario reagisce 
										mettendo in campo gli anticorpi per 
										guarirlo.  
										
										
										  
										
										
										Non era mai stato tanto male come allora 
										e di conseguenza la cura fu molto 
										intensa. Si partì con la rivoluzione 
										dell’esercito, il quale venne aumentato 
										di numero per contenere la minaccia 
										sassanide; di conseguenza fu necessario 
										modificare il sistema tributario e 
										aumentare la tassazione che colpì 
										soprattutto i piccoli proprietari 
										terrieri: come se non bastasse vuoi la 
										peste antonina, vuoi la maggiore 
										chiamata alle armi, nelle campagne 
										cominciò a scarseggiare la manodopera. 
										In un epoca dove il gettito fiscale 
										imperiale veniva esclusivamente dalla 
										produzione agricola, questo fu un bel 
										problema. L’organismo imperiale concesse 
										allora le terre ai soldati, come 
										pagamento del loro impiego nelle fine 
										dell’esercito, ma anche a molti barbari 
										desiderosi di stabilirsi dentro i 
										confini romani, i foederati, 
										popoli alleati che in cambio di terre 
										garantivano il controllo per conto 
										dell’impero. 
										
										
										  
										
										
										Non volendo entrare troppo in profondità 
										in questo discorso, l’impero romano 
										riuscirà con estremi sacrifici a 
										mantenere in piedi i suoi possedimenti, 
										ma ripeto, tutto ciò a un prezzo 
										salatissimo. Questo avvenne in un 
										momento dove a Roma fu concesso il tempo 
										di mutare: un secolo dopo, questo tempo 
										non gli venne concesso.  
										
										
										  
										
										
										Nel 374 d.c. dalle cronache dell’epoca, 
										circa 100.000 Goti attraversarono di 
										prepotenza il Danubio, riversandosi 
										nell’ impero romano d’Oriente e nel giro 
										di un secolo insieme dall’arrivo di 
										migliaia di altri barbari porteranno 
										allo sfascio l’impero romano 
										d’Occidente. Questa volta l’organismo 
										romano non più giovanissimo e un po’ 
										indebolito, riceve un “virus” troppo 
										rapido e violento da gestire. Non è una 
										normale malattia che arriva col tempo, 
										questo è una sorta di avvelenamento; nel 
										376 d.c. ad Adrianopoli i Goti 
										sconfiggono l’esercito imperiale 
										d’Oriente, uccidono l’imperatore Valente 
										e costringono i romani a riformare 
										nuovamente l’esercito, che in un sol 
										colpo aveva perso migliaia tra i più 
										esperti soldati dell’epoca. Dislocamento 
										delle legioni dal Reno e dalla 
										Britannia, inevitabile reclutamento di 
										mercenari e truppe barbariche inesperte, 
										doverose concessioni di terre ai barbari 
										invasori e l’immancabile aumento della 
										tassazione. L’impero mette nuovamente in 
										campo le sue difese immunitarie, ma 
										stavolta non guarisce, rimane 
										inesorabilmente invalidato.  
										
										
										  
										
										
										Perché nel IV secolo d.c. Roma e 
										Costantinopoli non riescono ad avere 
										quel tempo necessario per mettere in 
										campo le loro contromisure? 
										
										
										  
										
										
										Il dito questa volta lo possiamo 
										tranquillamente putare contro gli Unni. 
										Questi misteriosi cavalieri provenienti 
										dalle lontane steppe asiatiche, era di 
										una tale spietatezza che al loro arrivo 
										in Europa, portarono il panico tra i 
										popoli barbarici. La loro azione fu 
										talmente violenta che spinse popoli 
										forti e orgogliosi come i Goti a 
										chiedere aiuto ai Romani, ma una tale 
										mole di invasori concentrata in un lasso 
										temporale così breve, non era possibile 
										gestirla in modo organizzato. 
										 
										
										
										  
										
										
										Stessa cosa accadde su altri confini 
										europei, con volumi diversi, ma 
										periodicamente numerosi; in ultimo, lo 
										smembramento delle legioni sui confini, 
										spianò ulteriormente la strada a quei 
										popoli germanici che da sempre 
										spingevano per entrare: Alani e Vandali 
										verso la penisola iberica, Franchi, 
										Burgundi, Sassoni in Gallia e così via.
										 
										
										
										  
										
										
										Il perché gli Unni fossero così temuti 
										dai barbari, ma anche dai romani lo 
										spiega egregiamente il cronista Ammiano 
										Marcellino: 
										
										
										  
										
										
										
										«Il popolo degli Unni, poco noto agli 
										antichi storici, abita al di là delle 
										paludi Meotiche lungo l’oceano glaciale 
										e supera ogni limite di barbarie. 
										Siccome hanno l’abitudine di solcare 
										profondamente con un coltello le gote ai 
										bambini appena nati, affinché il vigore 
										della barba, quando spunta al momento 
										debito, si indebolisca a causa delle 
										rughe delle cicatrici, invecchiano 
										imberbi, senz’alcuna bellezza e simili a 
										eunuchi. Hanno membra robuste e salde, 
										grosso collo e sono stranamente brutti e 
										curvi, tanto che si potrebbero ritenere 
										animali bipedi o simili a quei tronchi 
										grossolanamente scolpiti che si trovano 
										sui parapetti dei ponti. Per quanto 
										abbiano la figura umana, sebbene 
										deforme, sono così rozzi nel tenor di 
										vita da non aver bisogno né di  
										fuoco né di cibi conditi, ma si nutrono 
										di radici di erbe selvatiche e di carne 
										semicruda di qualsiasi animale, che 
										riscaldano per un po’ di tempo fra le 
										loro cosce e il dorso dei cavalli. Non 
										sono mai protetti da alcun edificio, ma 
										li evitano come tombe separate dalla 
										vita d’ogni giorno. Neppure un tugurio 
										con il tetto di paglia si può trovare 
										presso di loro, ma vagano attraverso 
										montagne e selve, abituati sin dalla 
										nascita a sopportare geli, fame e sete. 
										Quando sono lontani dalle loro sedi, non 
										entrano nelle case a meno che non siano 
										costretti da estrema necessità, né 
										ritengono di essere al sicuro trovandosi 
										sotto un tetto. Adoperano vesti di lino 
										oppure fatte di pelli di topi selvatici, 
										né dispongono di una veste per casa e di 
										un’altra per fuori. Ma una volta che 
										abbiano fermato al collo una tunica di 
										colore appassito, non la depongono né la 
										mutano finché, logorata dal lungo uso, 
										non sia ridotta a brandelli. Usano 
										berretti ricurvi e coprono le gambe 
										irsute con pelli caprine e le loro 
										scarpe, poiché non sono state 
										precedentemente modellate, impediscono 
										di camminare liberamente. Per questa 
										ragione sono poco adatti a combattere a 
										piedi, ma inchiodati, per così dire, su 
										cavalli forti, anche se deformi, e 
										sedendo su di loro alle volte come le 
										donne, attendono alle consuete 
										occupazioni. Stando a cavallo notte e 
										giorno ognuno in mezzo a questa gente 
										acquista e vende, mangia e beve e, 
										appoggiato sul corto collo del cavallo, 
										si addormenta così profondamente da 
										vedere ogni varietà di sogni. E nelle 
										assemblee in cui deliberano su argomenti 
										importanti, tutti in questo medesimo 
										atteggiamento discutono degli interessi 
										comuni. Non sono retti secondo un severo 
										principio monarchico, ma, contenti della 
										guida di un capo qualsiasi, travolgono 
										tutto ciò che si oppone a loro. 
										Combattono alle volte se sono provocati 
										e ingaggiano battaglia in schiere a 
										forma di cuneo con urla confuse e 
										feroci. E come sono armati alla leggera 
										e assaltano all’improvviso per essere 
										veloci, così, disperdendosi a bella 
										posta in modo repentino, attaccano e 
										corrono qua e là in disordine e 
										provocano gravi stragi. Senza che 
										nessuno li veda, grazie all’eccessiva 
										rapidità attaccano il vallo e 
										saccheggiano l’accampamento nemico. 
										Potrebbero poi essere considerati 
										senz’alcuna difficoltà i più terribili 
										fra tutti i guerrieri poiché combattono 
										a distanza con giavellotti forniti, 
										invece che d’una punta di ferro, di ossa 
										aguzze che sono attaccate con arte 
										meravigliosa, e, dopo aver percorso 
										rapidamente la distanza che li separa 
										dagli avversari, lottano  
										a corpo a corpo con la spada senz’alcun 
										riguardo per la propria vita. Mentre i 
										nemici fanno attenzione ai colpi di 
										spada, quelli scagliano su di loro lacci 
										in modo che, legate le membra degli 
										avversari, tolgono loro la possibilità 
										di cavalcare o di camminare. Nessuno fra 
										loro ara né tocca mai la stiva di un 
										aratro. Infatti tutti vagano senza aver 
										sedi fisse, senza una casa o una legge o 
										uno stabile tenor di vita. Assomigliano 
										a gente in continua fuga sui carri che 
										fungono loro da abitazione. Quivi le 
										mogli tessono loro le orribili vesti, 
										qui si accoppiano ai mariti, qui 
										partoriscono e allevano i figli sino 
										alla pubertà. Se s’interrogano sulla 
										loro origine, nessuno può dare una 
										risposta, dato che è nato in luogo ben 
										lontano da quello in cui è stato 
										concepito e in una località diversa è 
										stato allevato. Sono infidi e incostanti 
										nelle tregue, mobilissimi a ogni soffio 
										di una nuova speranza e sacrificano ogni 
										sentimento ad un violentissimo furore.
										 
										Ignorano profondamente, come animali 
										privi di ragione, il bene e il male, 
										sono ambigui e oscuri quando parlano, né 
										mai sono legati dal rispetto per una 
										religione o superstizione, ma ardono 
										d’un’immensa avidità d’oro. A tal punto 
										sono mutevoli di temperamento e facili 
										all’ira che spesso in un sol giorno, 
										senza alcuna provocazione, più volte 
										tradiscono gli amici e nello stesso 
										modo, senza bisogno che alcuno li 
										plachi, si rappacificano”. 
										
										
										
										  
										
										
										Gli Unni erano effettivamente, un 
										agglomerato di violenza e spietatezza 
										che pochi nella storia riuscirono a 
										replicare, per fortuna. Prima Rua e poi 
										il famoso Attila, tennero in scacco 
										decine di popoli germanici sotto il loro 
										potere. E non dobbiamo nemmeno pensare 
										che fossero così numerosi, poiché i 
										barbari assoggettati erano numericamente 
										in vantaggio rispetto ai cavalieri Unni: 
										Attila fu un leader estremamente 
										carismatico nonché spietato, i capi 
										barbarici non avevano assolutamente la 
										stoffa per reggere il confronto. 
										 
										
										
										  
										
										
										Questo spiega anche il fatto che alla 
										morte del “Flagello di Dio”, i suoi 
										figli Ellak, Ermak e Dengizich non 
										furono in grado di mantenere in piedi l’asset
										creato dal padre, incapaci di 
										controllare le numerose guerre interne 
										tra i popoli barbarici scoppiate dopo la 
										dipartita di Attila. Probabilmente il 
										fatto di essere stato l’Unno più famoso 
										della storia, deriva anche dal fatto che 
										in giovane età, fu istruito dai romani, 
										durante il suo periodo di alloggio 
										forzato nella corte di Ravenna, in 
										favore dei consueti scambi di nobili 
										ostaggi tra nemici.  
										
										
										  
										
										
										La conclusione è che la causa maggiore 
										della rovina del mondo romano, fu 
										proprio l’onda d’urto sprigionata dal 
										popolo unno, che conquistò i popoli 
										germanici, mentre altri li costrinse 
										alle repentine immigrazioni e ai 
										violenti saccheggi.  
										
										
										Tassello dopo tassello, venne smontato 
										quello che era l’apparato sociale, 
										militare e amministrativo dell’impero. 
										Il discorso è equivalente per la fine 
										dell’impero romano d’Oriente: vecchio, 
										completamente in caduta in ogni aspetto 
										sociale ed economico, venuto a contatto 
										con la potenza militare dei potenti 
										Ottomani, le sue difese immunitarie non 
										riuscirono ad annientare la minaccia. 
										
										
										  
										
										
										  
										
										
										Riferimenti bibliografici: 
										
										
										  
										
										
										P. Heather, La caduta dell’impero 
										romano: una nuova storia, Garzanti, 
										Milano 2008. 
										
										
										I. Montanelli, Storia di Roma, 
										Rizzoli, Milano 2008.     
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