arte
L’ULTIMO VERUDA
NUDO DI SCHIENA E
(POST)IMPRESSIONISMO
di Elena
Angenica
In un momento in cui in Europa una certa
cultura fin-de-siècle si
preparava a lasciare il passo alla
stagione delle grandi Avanguardie
novecentesche, il pittore Umberto Veruda
(Trieste 1868-1904) trascorreva gli
ultimi anni della sua breve vita
rielaborando in uno stile del tutto
personale le molteplici suggestioni che
da Monaco a Roma, da Parigi a Venezia,
avevano stimolato la sua curiosità
d’artista.
Triestino di nascita ma non di
formazione Veruda aveva, infatti, saputo
essere spettatore attento di quella
modernità che vedeva nella luce e nel
colore gli strumenti primari di indagine
del reale: partendo, dunque, dalla
“pennellata lunga, franca e avvolgente”
di Velàsquez mescolata allo stile crudo
e terroso del realismo tedesco di
Liebermann, Veruda aveva subìto, infine,
la fascinazione dell’Impressionismo –
finanche del Postimpressionismo – che
aveva combinato in maniera originale con
gli esiti luministici e coloristici
della pittura veneziana di Favretto.
Tutti questi elementi fondavano la
“poetica” verudiana che, negli ultimi
anni di vita dell’artista, si era
liberata di tutte le sue iniziali
incertezze diventando pura ricerca,
nell’intento di raggiungere un unico
obiettivo: «scoprire con la tavolozza
il segreto miracoloso della luce […]
possedere per un istante un raggio di
sole».
L’oera Nudo di schiena
costituisce esattamente uno degli esiti
di questa ricerca. Realizzato intorno al
1900, il grande olio su tela, non
firmato né datato, era stato presentato
per la prima volta al pubblico
all’interno della grande retrospettiva
allestita nel Padiglione Caffè Stella
Polare di Trieste nell’ottobre del 1904.
Umberto Veruda era scomparso
prematuramente nell’estate di quello
stesso anno; in seguito il dipinto aveva
fatto parte di quella collezione che,
dopo essere passata al padre, l’ingegner
Alessandro Veruda, alla morte di
quest’ultimo nel 1919 era confluita
nella raccolta di Italo Svevo, amico
fraterno nonché grande estimatore del
pittore.
Nel 1932 l’opera era stata, infine,
donata da Livia Veneziani-Svevo al
Civico Museo Revoltella di Trieste, in
occasione dell’inaugurazione di un busto
marmoreo dedicato alla memoria
dell’artista nel Giardino Pubblico della
città.
Quando Nudo di schiena viene
presentato al pubblico e alla critica,
nel 1904, ottiene consensi e commenti
entusiasti: così scriveva, ad esempio,
sulle pagine de Il Piccolo, il
critico Silvio Benco: «ecco quel
formidabile studio di nudo, nel quale il
Veruda è veramente un impressionista
moderno nel più lato senso della parola,
avendo ormai stabilito le relazioni
reciproche di tutti i colori d’una
tavolozza audacissima, in modo che ogni
tratto abbia valore di luce e non esista
più l’ingombro greve e opaco di materia
morta che anticamente si chiamava
l’ombra».
Siamo, dunque, di fronte a una prova di
stile che va oltre la semplice
rappresentazione di una scena di intima
quotidianità femminile: il soggetto,
così come l’ambiente all’interno del
quale è inserito, diventa l’espediente
per uno studio finalizzato alla
comprensione degli aspetti luministici
della pittura, e al tentativo di
“catturare” l’impressione visiva che
scaturisce dalla scena stessa.
Il dipinto mostra una donna
rappresentata di spalle, completamente
nuda, mentre si acconcia i capelli
specchiandosi nella sua toletta, ai suoi
piedi delle vesti, alle pareti una carta
da parati a fiori. Nessun altro
dettaglio emerge. Tra lei e lo
spettatore non si instaura nessun
rapporto, nessun gioco di sguardi
nemmeno attraverso il riflesso dello
specchio: sembra di ritrovarsi di fronte
a un’istantanea di vita, lo scatto
rubato di un momento privato della
giovane e sconosciuta protagonista del
dipinto.
.
Umberto Veruda, Nudo di schiena,
1900 circa, olio su tela,
182x95 cm, inv. 2221, Civico Museo
Revoltella, Galleria d’arte moderna,
Trieste
A questo proposito è lecito un
riferimento alla fotografia della quale
sono ormai noti i legami con la pittura
di fine Ottocento: Umberto Veruda, così
come molti altri artisti suoi
contemporanei, era solito servirsi delle
fotografie come strumento di lavoro per
studiare la composizione delle scene
nonché gli effetti di luce; inoltre è
noto che a Trieste frequentasse
assiduamente lo studio del fotografo
Wulz insieme all’amico pittore Barison.
L’uso del mezzo fotografico stava alla
base di molte delle sue opere: ad
esempio Dichiarazione d’amore
(1893), palesemente derivata da una foto
d’epoca che ritraeva Veruda nel suo
studio insieme a Ortensia Schimtz,
sorella di Italo Svevo. Per quanto
riguarda, poi, Nudo di schiena,
come ha giustamente notato Claudia
Crosera, è possibile stabilire una
filiazione dal Nudo femminile visto
di spalle di Mariano Fortuny y
Madrazo a sua volta derivante da una
fotografia preparatoria datata al 1900
circa.
Il tema del nudo femminile allo specchio
presentato da Veruda proveniva
senz’altro da una lunga e fortunata
tradizione iconografica – si pensi alla
Venere allo specchio di Rubens
(1613) o alla Venere e Cupido di
Velàsquez (1648) – filtrata, però,
attraverso la lente di una visione
nuova, più moderna della donna: non più
Dea, creatura eterea e spirituale, ma
individuo, persona in carne e ossa e lo
specchio, simbolo della sua vanità, ora
è anche metafora della sua
autosufficienza, in quanto connesso alla
ricerca di una propria identità.
La donna di Veruda è presente, concreta
nella sua corporeità, ammaliante e
seducente, di una seduzione che non è
solo bellezza ma incanto erotico. Non a
caso nel 1946 Remigio Marini,
ripercorrendo il percorso artistico di
Veruda, metteva a confronto: «da un
lato Susanna o il nudo spirituale e
dall’altro il Nudo grande o la carne
monumentale […] Quanto Susanna è pittura
fatta di spirito, tanto il Nudo grande è
dipingere tutto senso e carne».
Nudo di schiena
era, dunque, diventato l’emblema di un
mutamento nella visione verudiana,
mutamento che aveva riguardato la
maniera dell’artista come aveva rilevato
Benco già nel 1907: «in due parti, di
dieci anni ciascuna, si deve dividere la
sua vita d’artista, la prima va
contrassegnata dall’esistenza di
elementi audaci d’arte nuova, di
espressione immediata di realtà, nel
loro cozzo con un’arte preesistente; la
seconda è quella dell’artista del tutto
liberato, tutto sgombro, che non discute
più sui limiti divisori fra la realtà e
l’arte, ma segue naturalmente,
fiduciosamente, la sua aspirazione verso
ogni forma quale egli la vede
nell’avvolgente poesia della luce, verso
la qualità di luce che è propria e
particolare di ogni materia», ed è a
questa seconda parte della parabola
verudiana che si riferiva ancora Marini
nel ‘46 quando affermava che “in piena
libertà e indipendenza estetica”
l’artista traduceva “in italiano e
veneziano i vitali insegnamenti
dell’Ottocento francese”.
La Francia, e in particolare Parigi, era
stata una delle mete predilette dei
viaggi di Veruda: vi aveva soggiornato
per la prima volta nel 1886 e poi ancora
nel 1892, nel 1899 e nel 1903. A Parigi
Veruda aveva visto le opere di Renoir,
Degas, Corot, Cezanne; lì il suo occhio
si era imbevuto di quegli elementi del
nuovo linguaggio figurativo inaugurato
dagli Impressionisti che maggiormente
rispondevano alla natura del suo estro
pittorico: il colore e la luce. Ma
Parigi era stata anzitutto il luogo
dello studio: Veruda era stato allievo
di Borguereau e di Flery, ma,
soprattutto, aveva frequentato a più
riprese l’Académie Julian per
perfezionarsi nel disegno.
A partire all’incirca dagli anni ‘90
dell’Ottocento, Veruda si era cimentato
in numerosi studi di nudo femminili in
atteggiamenti differenti, uno tra tutti
Nudo femminile di spalle (1900)
in cui la posa della modella – in piedi,
di spalle – costituiva senz’altro un
preambolo al grande Nudo di schiena.
La fascinazione per gli esiti
dell’Impressionismo francese aveva
prodotto nello stile di Veruda una
evoluzione: la tavolozza si era
schiarita, la pennellata – data per
tocchi di colore puro giustapposti – era
diventata rapida e nervosa. Questi
elementi applicati allo studio della
figura umana e alla ritrattistica – da
sempre genere prediletto dell’artista –
avevano prodotto esiti considerevoli con
un effetto dirompente nel panorama
artistico della Trieste di fine
Ottocento: «Entrava con lui a Trieste
l’impressionismo sfondando bruscamente
le porte» avrebbe detto Benco nel
1922.
Per quanto riguarda Nudo di schiena
e i suoi riferimenti all’Impressionismo
francese è possibile, in qualche modo,
rintracciarne delle reminiscenze nel
dipinto di Berthe Morisot (1890)
Devant la psyché: anche in questo
caso è rappresentata una donna –
stavolta seduta e seminuda - di spalle
mentre si acconcia i capelli
specchiandosi nella sua toletta,
eseguendo con le mani un gesto molto
simile a quello che si trova nella tela
verudiana.
Mentre, però, lo stile della Morisot è
più pacato: le pennellate più lunghe e
fluide descrivono un’atmosfera
opalescente in cui si staglia il corpo
della donna sinuoso e languido; in
Veruda, invece – complice anche una
sorta di ibridazione degli elementi
dell’impressionismo francese con le
atmosfere terse e i colori baluginanti
della pittura veneziana di fine
Ottocento - «la magia del colore
fresco, brillante, capricciosamente
chiaro, elegantemente chiassoso, i
contrasti di luce tagliente messa a
tratti, a punti, a scatti di pennello
[…] l’indecisione studiata di ogni
linea, d’ogni contorno, il vigore della
demarcazione delle parti fisionomiche
[…]» rendono tutto molto più vivo,
presente, concreto. «In quell’orgia
di colore e di pennellata, in
quell’abbaruffio forsennato di pieghe
chiaroscurate a casaccio» «si sente
quasi il piacere sensuale del pittore
nel descrivere la carne […]».
Proprio osservando il corpo della donna
della tela verudiana, si scopre che c’è
qualcosa che va ben al di là della
descrizione della sua anatomia: uno
studio attento della resa degli effetti
che la luce produce infrangendosi su di
esso e “il mondo di Cezanne nei solenni
e monumentali volumi nei quali si
solidifica il colore” che manifesta lo
sperimentalismo e l’evoluzione
dell’estrema ricerca di Veruda in senso
post-impressionista.
Nudo di schiena
aveva avuto una grande fortuna non solo
presso la critica ma anche presso quegli
artisti triestini, contemporanei o di
qualche anno più giovani del Veruda, che
si cimentavano con il tema della donna
nuda di schiena come Giovanni Zangrando
(Trieste 1869-1941) – grande amico di
Veruda, che ne aveva realizzato, nel
1899, anche un Ritratto oggi al
Civico Museo Revoltella – che, come di
consueto per gli artisti della sua
generazione, si era formato a Monaco,
Venezia e a Roma e che, all’incirca nel
1905 aveva realizzato un Grande nudo
stante di schiena attualmente in
collezione privata.
Il dipinto mostra sicuramente un
riferimento al nudo del Veruda: vi si
trova lo stesso movimento del piede
destro leggermente discosto e arretrato
rispetto al sinistro, che produce un
leggero spostamento del fianco sinistro;
lo stile, però, è già diverso e mostra
quanto su Zangrando avevano agito
l’influsso monacense e il clima delle
Secessioni.
In definitiva pur essendo Nudo di
schiena, dal punto di vista
strettamente iconografico, non molto di
più che la moderna evoluzione di un tema
che aveva radici secolari, esso ha
rappresentato, per quanto riguarda lo
stile e la tecnica, uno degli esiti più
originali della produzione del Veruda e
ha contribuito a traghettare la cultura
artistica italiana – e nella fattispecie
triestina – verso l’elaborazione di un
linguaggio artistico moderno.
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