N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
SCOPRIRE IL PASSATO, CAPIRE IL PRESENTE, AFFRONTARE IL FUTURO
LA MORTE DI UMBERTO I IL “RE BUONO”
di Fabio Patacca
Il
29
Luglio
del
1900,
a
Monza,
in
una
spensierata
giornata
estiva,
quattro
colpi
di
pistola
posero
fine
alla
vita
e al
regno
di
Umberto
I,
secondo
re
d’Italia.
Un
re
che
aveva
difeso
con
coraggio
il
suo
popolo,
un
uomo
che
aveva
affrontato
con
premura
le
diverse
sciagure:
dall’alluvione
del
Veneto
nel
1882,
al
terremoto
di
Casamicciola
del
1883
sino
al
colera
di
Napoli
del
1884
prodigandosi
personalmente
nei
soccorsi
e
guadagnandosi
così,
l’appellativo
di
“Re
buono”.
Perché
proprio
lui?
Chi
ha
ordinato
il
suo
assassinio?
Forse
gli
scontri
e le
sommosse
popolari
del
1898
e la
successiva
decorazione
al
generale
Bava
Beccaris
alimentarono
ancora
di
più
il
malcontento
tra
i
suoi
sudditi?
Forse
Umberto
I
aveva
commesso
degli
errori
anche
in
politica
estera?
Quanto
ha
pesato
la
disastrosa
guerra
coloniale
in
Africa
culminata
con
la
sconfitta
di
Adua?
Qual’era
la
reale
condizione
di
vita
dei
contadini
italiani
dell’epoca?
Per
poter
rispondere
a
queste
domande
e
capire
quei
drammatici
istanti
che
precedettero
la
morte
di
Umberto
I
cercheremo
di
analizzare
la
complessa
situazione
del
giovane
regno
d’Italia.
A
Gennaio
del
1898,
i
disordini
che
imperversano
ormai
da
decenni
in
tutta
la
penisola,
finirono
per
assumere
aspetti
drammatici.
L’aumento
delle
imposte
e
del
prezzo
del
pane,
scatenarono
la
rabbia
della
popolazione
che
con
coraggio
combatteva
da
anni
contro
la
miseria,
l’ingiustizia,
la
fame.
Le
manifestazioni
furono
represse
dal
governo
con
l’intervento
di
interi
reparti
di
fanteria
e si
conclusero
con
centinaia
di
arresti.
A
metà
Gennaio
viene
aumentato
nuovamente
il
prezzo
del
pane
e la
reazione
popolare
non
si
fa
attendere,
come
del
resto
la
risposta
dello
stato.
La
città
di
Ancona
è
affidata
al
generale
Baldissera,
il
quale,
assumendo
pieni
poteri
militari,
ordina
senza
batter
ciglio
arresti
di
massa.
Il
23
gennaio
il
governo
decide
di
attuare
una
diminuzione
minima
della
tassa
doganale
sul
grano,
misura
che
è
del
tutto
insufficiente
e
richiama
alle
armi
40.000
riservisti
da
impiegare
nella
repressione
delle
manifestazioni.
Le
proteste
si
fanno
sentire
in
tutta
Italia,
scioperi
e
tumulti
si
contano
a
decine
in
Sicilia,
in
Campania,
nelle
Marche.
Il
16
febbraio
l’esercito
interviene
contro
una
manifestazione
a
Palermo,
le
truppe
sparano
su
disoccupati,
donne
e
bambini:
il
bilancio
è di
cinque
morti
e
ventotto
feriti.
Il
paese,
posto
in
stato
d’assedio,
è
occupato
da
due
compagnie
di
fanteria.
A
Milano,
la
seconda
città
più
popolare
del
regno
dopo
Napoli,
entra
in
azione
la
cavalleria,
ma
le
barricate
erette
per
strada
dagli
abitanti
sembrano
inizialmente
arrestarne
l’avanzata.
Nel
pomeriggio
di
quella
stessa
giornata,
il
governo
decreta
lo
stato
d’assedio
per
la
città,
affidando
pieni
poteri
al
generale
Fiorenzo
Bava
Beccaris.
L’8
maggio
i
cannoni
aprono
il
fuoco
contro
la
folla
indifesa
e
l'esercito
riceve
l'ordine
di
sparare
contro
ogni
raggruppamento
di
persone
superiore
alle
tre
unità.
Restano
uccise
centinaia
di
persone,
oltre
un
migliaio
di
feriti,
ma
il
numero
esatto
delle
vittime
non
è
mai
stato
precisato.
Il 9
maggio
il
generale
Bava
Beccaris,
ordina
lo
scioglimento
delle
associazioni
e
circoli
ritenuti
sovversivi,
fa
arrestare
migliaia
di
persone
e
sopprimere
la
stampa
d’opposizione.
Il
12
Maggio
è
tratta
in
arresto
a
Roma
l’intera
redazione
dell’Avanti
e
vengono
fatte
chiudere
sino
a
nuovo
ordine
tutte
le
università.
E’
un
complotto
dei
socialisti,
si
grida
da
ogni
parte,
lo
stesso
Turati
accusato
di
aver
guidato
la
protesta,
subirà
una
condanna
a
dodici
anni
di
reclusione.
La
notizia
dei
tristi
avvenimenti
italiani
si
diffonde
in
tutta
Europa,
si
mormora
di
quasi
800
condanne
inflitte
dai
tribunali
militari,
di
organizzazioni
dei
lavoratori
e
giornali
soppressi
con
la
forza.
Cosa
pensa
davvero
il
re
delle
pietose
condizioni
economiche
che
tormentano
da
decenni
il
suo
amato
popolo?
Dov’è
il
sogno
di
una
vita
nazionale
più
serena
e
tranquilla
promessa
agli
italiani
dopo
l’Unità?
Dobbiamo
considerare
la
sua
morte
come
un
castigo
degli
errori
politici
o
credere
piuttosto
a
una
tragica
fatalità
dovuta
al
clima
di
tensione
dell’epoca?
Quella
mattina
di
Luglio
il
re
si
preparava
a
partecipare
alla
chiusura
di
una
manifestazione
ginnica
presso
la
reggia
di
Monza,
una
cerimonia
piuttosto
semplice,
cui
Umberto
I
non
volle
rinunciare.
Esaminando
subito
alcuni
aspetti
insoliti
della
sua
morte,
molti
storici
si
chiesero
perché
il
re
avesse
voluto
presentarsi
dinanzi
alla
tribuna
centrale,
dove
la
folla
si
accalcava
per
assistere
alla
cerimonia
e
non
sul
lato
opposto
dove
avrebbe
goduto
di
maggior
protezione.
Perché
la
polizia
non
prese
alcun
provvedimento
quando
la
folla
festante
cercò
di
avvicinarsi
alla
carrozza?
In
quei
drammatici
momenti
nessuno
si
preoccupò
di
fermare
quell’uomo
che
impugnava
una
pistola?
Umberto
I
era
nato
a
Torino
il
14
Marzo
del
1844.
La
sua
educazione
religiosa
restò
nei
primi
anni
affidata
a
sua
madre
Maria
Adelaide,
una
donna
d'animo
profondamente
religioso
e
praticante.
Il
futuro
re
cresce
dunque
tra
la
rigida
educazione
reale
e
l’amore
religioso
di
sua
madre,
tanto
che
a
soli
quattordici
anni
viene
nominato
capitano
di
fanteria.
Dopo
tre
anni
dalla
spedizione
dei
mille
che
aveva
unito
l’Italia,
i
Savoia
cercarono
di
avere
subito
l’appoggio
completo
dei
napoletani
e
soprattutto
di
assicurarsi
l’amicizia
dell’aristocrazia
locale.
Non
mancarono,
infatti,
all’epoca,
eventi
mondani,
cene
lussuose
e
diverse
battute
di
caccia
nella
splendida
reggia
di
Caserta
e di
Capodimonte.
Come
suo
padre,
anche
il
giovane
principe
seguì
gli
interessi
di
casa
Savoia
recandosi
spesso
in
visita
presso
le
maggiori
case
regnanti
europee,
riuscendo
ad
attenere
subito
importanti
riconoscimenti.
Ma i
lussuosi
banchetti
dei
reali
italiani
erano
ben
lontani
dalla
realtà
quotidiana
del
popolo.
Se,
infatti,
l’aristocrazia
poteva
godere
di
una
sterminata
ricchezza
e
cibo
in
abbondanza,
basti
pensare
che
quando
Guglielmo
I di
Germania
durante
la
sua
visita
in
Italia
nel
1875
ebbe
dinanzi
ben
diciotto
portate
diverse,
i
contadini
specialmente
nel
meridione
raramente
vedevano
carne
nelle
loro
case.
Pasquale
Villari
storico
nato
a
Napoli
nel
1827
nelle
sue
lettere
meridionali
descrisse
con
premura
la
vita
quotidiana
di
un
contadino
meridionale
che
iniziava
il
suo
duro
lavoro
dall’alba
sino
al
tramonto.
Un
tozzo
di
pane
e
una
scodella
di
legno,
dove
veniva
versata
un
po’
d’acqua
salata
con
un
poco
d’olio,
era
la
cena
di
tutti
i
giorni,
senza
contare
l’enorme
peso
fiscale
che
gravava
sulle
loro
spalle
e i
forti
debiti
accumulati
negli
anni.
Gli
italiani
iniziarono,
infatti,
a
non
sopportare
più
questa
situazione
e
molti
decisero
di
andarsene
all’estero,
soprattutto
al
sud
dove
l’unificazione
sotto
i
Savoia
aveva
peggiorato
molto
le
condizioni
di
vita
dei
contadini.
L’estensione
del
sistema
fiscale
piemontese
al
resto
d’Italia,
infatti,
non
solo
portò
un
aggravamento
delle
tasse
ma
fece
del
contadino
meridionale
un
individuo
ancora
più
povero
ed
emarginato
di
quanto
non
lo
fosse
sotto
i
sovrani
Borbonici.
Lo
stato
dell’epoca
da
parte
sua,
aveva
bisogno
di
creare
opere
pubbliche
imponenti
per
risollevare
il
paese:
ferrovie,
strade,
ponti
e
servizi
di
ogni
genere
e
tutto
ciò
richiedeva
forti
importazioni
dall’estero.
Molti
contadini
speravano
che
dopo
la
morte
del
primo
re
d’Italia,
Vittorio
Emanuele
II,
le
cose
potessero
cambiare,
che
almeno
suo
figlio
il
principe
Umberto
I,
uomo
tutto
di
un
pezzo,
riuscisse
a
risollevare
le
sorti
del
paese.
Ma
tutto
ciò
non
si
verificò,
l’enorme
pressione
fiscale
sulla
proprietà
terriera
rimase
elevata,
i
salari
non
aumentarono,
le
irregolarità,
i
favoritismi
e
l’arroganza
spesso
ingiustificata
dell’aristocrazia
finirono
ben
presto
per
far
svanire
i
sogni
dei
contadini
italiani.
Vittorio
Emanuele
II è
morto,
dopo
alcuni
mesi
di
lutto,
il
nuovo
re
decide
di
mostrarsi
al
suo
popolo,
forse
convinto
di
poter
risolvere
tutti
i
problemi
dei
suoi
sudditi.
A
Napoli,
tutto
è
pronto,
la
folla
entusiasta
aspetta
soltanto
la
carrozza
del
re,
ma
qualcosa
di
inquietante
stravolge
quella
giornata
di
festa.
Mentre
la
carrozza
procede
lentamente
verso
palazzo
reale,
la
gloriosa
reggia
abitata
dai
Borboni,
un
uomo
con
un
pugnale
colpisce
più
volte
re
Umberto
I.
La
carrozza
riesce
a
raggiungere
il
cortile
della
reggia
e
l’uomo
viene
bloccato
e
arrestato
dal
capitano
dei
corazzieri
tra
le
grida
della
folla
che
terrorizzata
aveva
assistito
al
fallito
attentato.
Il
re è
salvo,
fortunatamente
è
stato
colpito
solo
al
braccio
destro
e
viene
subito
assistito
da
un
medico.
Il
giovane
cuoco,
Giovanni
Passanante,
identificato
subito
dopo
l’attentato,
viene
condotto
immediatamente
in
carcere
e
interrogato
dalla
polizia.
Nel
Marzo
del
1879,
dopo
pochi
mesi,
la
Corte
d’Assise
lo
condanna
a
morte
ma
con
stupore
di
tutti,
il
re
Umberto
I
commuta
la
pena
in
detenzione
a
vita
e
assegna
addirittura
alla
madre
del
giovane
che
versa
in
condizioni
di
miseria
una
piccola
pensione.
Il
popolo
è
sbalordito
dal
gesto
del
re,
ormai
tutti
non
parlano
che
della
sua
grande
generosità,
molti
condannano
l’attentato,
altri
credono
che
sia
stato
soltanto
l’azione
di
uno
squilibrato,
un
uomo
in
serie
difficoltà
economiche.
Il
re è
una
persona
saggia
e
buona,
non
può
avere
nemici,
sono
i
ministri
e i
deputati
che
tradiscono
le
sue
intenzioni,
il
popolo
ama
il
suo
re e
quest’ultimo
dimostra
tutta
la
sua
gratitudine
salvando
la
vita
al
suo
attentatore.
Vere
o
false
che
fossero
queste
affermazioni,
la
realtà
è
che
ormai
gli
italiani
non
sopportavano
più
di
vivere
in
miseria,
il
malcontento
durava
ormai
tra
troppi
decenni
e le
promesse
fatte
dopo
l’Unità
restavano
tali.
Gli
scioperi
continuarono
in
tutta
la
penisola
e
mentre
a
Firenze
la
folla
manifestava
tutta
la
sua
solidarietà
al
re e
alla
monarchia
per
il
drammatico
attentato,
scoppia
una
bomba
che
provoca
quattro
morti.
A
Pisa
qualche
giorno
dopo
tra
la
folla
festante
esplode
un’altra
bomba,
per
fortuna
non
ci
furono
vittime,
ma
l’opinione
pubblica
iniziò
a
preoccuparsi
sul
serio
e le
grida
festanti
per
il
sovrano
diminuirono
drasticamente.
Molti
addossarono
tutta
la
colpa
agli
anarchici
e la
polizia
approfittò
di
questa
indignazione
popolare
per
scatenarsi
contro
tutti
coloro
sospettati
di
complottare
contro
il
re e
poco
importava
se
avessero
realmente
preso
parte
a
qualche
manifestazione.
Ma
chi
sono
questi
anarchici?
Passanante
aveva
cercato
realmente
di
uccidere
il
re
perché
anarchico?
Dietro
il
suo
folle
gesto
c’era
una
vera
organizzazione
internazionale
che
intendeva
destabilizzare
il
paese?
Il
popolo
italiano
amava
davvero
il
suo
re
ma
desiderava
soltanto
avere
una
condizione
di
vita
migliore?
Per
molti
l’anarchia
era
la
mancanza
di
un
governo,
di
leggi,
uno
stato
di
caos
e
terrore.
Molti
pensatori
dell’epoca
da
Godwin
a
Proudhon
perseverano
su
un
sistema
di
pensiero
che
mirava
alla
trasformazione
della
società
con
la
partecipazione
di
ogni
libero
cittadino.
Soltanto
l’intelligenza
e la
coscienza
dell’individuo
avrebbero
trasformato
la
società
e
abolito
le
ingiustizie.
Ma
in
quegli
anni,
in
Italia
le
ingiustizie
ormai
non
si
contano
più
e
Umberto
I si
trova
ad
affrontare
un'altra
questione
delicata:
la
rivolta
dei
contadini
in
Sicilia,
ma
non
solo.
Gli
scioperi
in
tutta
la
penisola
si
moltiplicano
giorno
dopo
giorno
e
come
se
non
bastasse
scoppia
lo
scandalo
bancario
che
costringe
alle
dimissioni
diversi
ministri
dell’epoca.
Ma
per
la
giovane
Italia
i
guai
non
sono
finiti,
Umberto
I,
infatti,
deve
confrontarsi
anche
con
la
drammatica
questione
africana,
ovvero
il
massacro
di
seimila
italiani
e la
sconfitta
di
Adua.
Il
re
si
rende
conto
che
troppi
soldi
e
troppi
morti
stanno
portato
l’unità
d’Italia
sull’orlo
del
fallimento,
ma
molti
in
realtà
credono
che
pur
combattendo
con
onore,
i
soldati
italiani
non
sarebbero
mai
riusciti
a
vincere
quella
guerra
in
Africa:
carte
geografiche
inadatte,
armi
antiquate,
strumenti
di
comunicazione
inefficienti.
Umberto
I
suo
malgrado
dovette
incassare
un
duro
colpo,
ma
cercò
di
mostrarsi
tranquillo
e
all’energico
Crispi
seguì
Di
Rudinì,
ma
senza
alcun
risultato.
I
problemi
del
paese
rimanevano
ancora
irrisolti;
scioperi
nell’agro
romano,
occupazione
dell’università
di
Bologna
e
infine
un
altro
attentato
al
re.
L’attentatore
viene
arrestato
e
condannato
all’ergastolo,
ma
le
indagini
proseguono
con
troppa
lentezza
e
non
si
scopre
nulla
sui
presunti
mandanti
o
complici.
Intanto
per
il
“Re
buono”
che
sembra
non
trovar
pace
sul
suo
trono,
si
avvicina
l’ora
fatale.
Nel
Maggio
del
1900
si
imbarca
per
l’Italia
un
giovane,
un
certo
Gaetano
Bresci
originario
di
Prato.
Emigrato
da
tempo
negli
Stati
Uniti
e
vissuto
a
Paterson
(New
Jersey)
decide
di
ritornare
in
Italia
e
uccidere
il
re.
Umberto
I
arriva
a
Monza
il
22
Luglio,
sembra
tranquillo
e
vuole
rilassarsi
qualche
giorno
nella
sua
residenza.
Il
29
Luglio,
la
carrozza
scoperta
avanza
lentamente
tra
la
stretta
energica
della
folla,
il
re
si
accinge
a
fare
il
suo
ingresso
trionfante,
tutti
gli
occhi
sono
puntati
su
di
lui.
Tre
o
forse
quattro
spari
esplodono
all’improvviso,
l’arma
è
impugnata
da
Gaetano
Bresci
che
si
lascia
subito
dopo
catturare
senza
opporre
resistenza.
Il
re
Umberto
I
viene
colpito
al
cuore,
al
polmone,
al
collo
e si
accascia
poco
dopo
mentre
la
carrozza
si
allontana
ad
altissima
velocità.
Il
re
forse
è
ferito
esclamerà
qualcuno
tra
la
folla,
ma
in
realtà
Umberto
I il
“Re
buono”
è
morto.
Restano
dunque
grandi
interrogativi
sulla
sua
tragica
morte,
forse
misteri
che
non
saranno
mai
svelati;
il
re è
stato
ucciso
per
i
suoi
errori
politici?
Furono
gli
anarchici
a
ucciderlo?
Oppure
si
può
addossare
all’azione
di
un
singolo
la
responsabilità
e le
sorti
di
un
intero
popolo?
Il
governo
dell’epoca
tentò
realmente
di
migliorare
le
sorti
di
uno
stato
così
fragile?