antica
SULL’UMANESIMO CRISTIANO DEL IV SECOLO
DOPO LA SVOLTA COSTANTINIANA
di Valerio Acri
I versi danteschi del VI Canto del
Paradiso suggellano mirabilmente
l’interpretazione storico-teologica del
successo di Costantino su Massenzio a
Ponte Milvio il 28 ottobre del 312 d.C.
Le parole del Sommo Poeta condensano il
racconto dell’affermazione costantiniana
e del suo enorme significato universale
come quello di una corrispondenza
predestinata tra la storia pagana di
Roma e la storia del Cristianesimo.
Già nei primi sermoni del giovane
vescovo Agostino d’Ippona, meno di un
secolo più tardi della conversione di
Costantino, fu presente il motivo di una
storia in rapido movimento, dal 312 in
avanti, verso una conclusione
preordinata che prevedeva il trionfo del
messaggio di Cristo. Gli storici moderni
adottarono unanimemente questa linea
interpretativa, al netto di non
considerarla necessariamente sotto
l’aura di una manifestazione del disegno
divino, e assegnarono alla vittoria di
Ponte Milvio un primato epocale, quello
di aver inaugurato l’Impero cristiano.
Dal momento in cui, il giorno successivo
alla battaglia, Costantino rifiutò di
celebrare il suo trionfo immolando il
sacrificio appropriato sugli altari
degli dèi in Campidoglio il
Cristianesimo si accinse ad abbandonare
lo status di confessione proscritta per
avviarsi a un’ascesa che, dal 311 al
381, lo portò prima a essere un culto
ammesso e poi il credo ufficiale
dell’Impero.
Per la Chiesa si aprì una nuova era,
l’alluvione di leggi e lettere che dal
Palazzo imperiale piovvero a favore dei
cristiani andò di pari passo con una
massiccia assimilazione della cultura e
dell’istruzione profane e l’adozione
senza più riserve delle forme letterarie
tradizionali.
Si assistette rapidamente alla
consacrazione di un Umanesimo cristiano
attraverso il quale la letteratura
ecclesiastica raggiunse vette di massimo
splendore grazie al contributo di
pensatori finissimi che, diversamente da
coloro che li avevano preceduti,
poterono mettere il loro talento anche a
servizio di cause diverse da quella che
presentava la Chiesa serrata in un
continuo conflitto con l’Impero romano
pagano. La libertà di culto concessale
da Costantino significò così per la fede
cristiana anche la libertà, dopo oltre
250 anni, di poter finalmente
abbracciare la classicità di Omero e
Platone per dar vita a una produzione
letteraria entrata a pieno titolo nel
patrimonio culturale europeo.
Gli autori classici della Chiesa greca
come Basilio Magno, Gregorio Nisseno e
Gregorio Nazianzeno (i cosiddetti Padri
Cappadoci, attivi dalla metà del 300)
poterono aggiungere alla loro formazione
teologica la cultura ellenistica,
l’eloquenza brillante e la padronanza
dello stile che avevano acquisito nelle
accademie antiche.
La Scuola ateniese, al tempo dei giovani
eruditi Basilio e Nazianzeno, era ancora
la culla degli studi filosofici e viveva
un periodo di transizione della sua
millenaria esistenza passando
dall’indirizzo dell’eclettismo
(inaugurato da Filone di Larissa e
Antioco di Ascalona, quest’ultimo
maestro di Cicerone) a quello
neoplatonico che consentì poi la
conciliazione del pensiero di Platone
con la filosofia cristiana.
Ad Atene Basilio e Gregorio Nazianzeno
poterono
apprendere tutti quegli accorgimenti di
composizione e persuasione che li
resero, insieme a Gregorio Nisseno e
Giovanni Crisostomo, i migliori esempi
di eloquenza tardo antica. In entrambi
era la convinzione di dover trarre dalle
storie dell’antica mitologia tutto ciò
che poteva condurre alla virtù e mai
contemplarono l’idea di rifiutare
l’eredità pagana così come qualunque
altra personalità colta del quarto
secolo.
Nel trattato Ad Adolescentes è
possibile rintracciare la maniera
attraverso la quale Basilio esortava i
più giovani a trarre profitto dalle
lettere elleniche. Questo scritto di
carattere pedagogico si presenta sotto
forma di ammonimento ai nipoti che si
accingono a frequentare le scuole
pagane, trasmettendo loro la convinzione
che lo studio degli autori classici
potrà affiancare quello ben più
importante delle Sacre Scritture.
Gli esempi di virtù in Omero, Esiodo,
Solone, Euripide e Platone vengono
descritti da Basilio con uno
straordinario senso dei valori durevoli
dell’insegnamento ellenistico e
riflettono una matura coscienza
dell’utilità di una formazione che
unisca la verità cristiana all’eredità
culturale greca. Una larghezza di
spirito che è ben presente anche in
Gregorio Nazianzeno e che ha
profondamente influenzato
l’atteggiamento della Chiesa di fronte
alla tradizione classica.
In questo senso è importante
sottolineare che la svolta costantiniana
non apportò sostanziali modifiche al
modello d’istruzione liberale vigente in
tutto l’Impero a partire dall’età
ellenistica. Certamente la Chiesa del IV
Secolo aveva ben chiaro come
l’istruzione avesse, in ultima analisi e
nel suo significato più immediato, una
matrice pagana e soprattutto era
cosciente che alcuni cristiani
continuassero a trovare in essa una
fonte di scandalo. Il rifiuto
dell’istruzione era un’opzione che aveva
peraltro cominciato a trovare spazio
nella letteratura bizantina a partire da
Antonio, l’iniziatore del monachesimo
(seconda metà del III secolo), incapace
di cogliere alcuna necessità che
giustificasse le vanità della sapienza
profana per chi aspirava al Regno dei
Cieli.
Ancora nel 375 le Costituzioni
Apostoliche – un’opera apocrifa
contenente otto trattati ancora oggi
presenti nelle collezioni canoniche
delle Chiese orientali – non ammettevano
compromessi sotto questo aspetto
invitando a evitare “le favole dei
Gentili, scritti e leggi aliene di falsi
profeti che distolgono i frivoli dalla
fede”. La possibilità di
mantenere la struttura tradizionale
dell’istruzione sostituendo testi
cristiani a quelli pagani era del resto
una soluzione difficilmente percorribile
proprio perché fino al IV secolo non
esisteva un adeguato corpus di
letteratura cristiana da offrire ai
giovani per la loro formazione
grammaticale e retorica.
Fu l’autorevole benestare dei Padri
Cappadoci, in particolare di San
Basilio, a legittimare la scelta della
Chiesa di conservare con cura i testi
pagani e non allestire un sistema
d’istruzione parallelo. Dal IV Secolo in
avanti giovani cristiani frequentarono
gli stessi insegnanti dei giovani pagani
studiando Platone e acquisendo
familiarità con le storie dell’antica
mitologia. Alcuni di loro divennero
insegnanti ed è facile immaginare che
trasmisero le medesime conoscenze ai
loro allievi.
Fu anche per questo motivo che,
nell’ultimo rigurgito di paganesimo
imperiale con Giuliano l’Apostata, un
editto del 362 proibì non soltanto
incarichi di insegnamento a coloro che
non credevano negli dèi ma anche agli
adolescenti cristiani di frequentare le
scuole pubbliche e studiare gli autori
greci, nella convinzione che una tale
istruzione procurasse la capacità di
argomentare e persuadere.
Il retore Apollinare di Laodicea
utilizzò allora tutta la sua erudizione
classica per ideare, insieme al figlio
suo omonimo, una trasposizione
dell’Antico Testamento in versi,
componendo un poema in 24 libri sulla
storia ebraica dalla Creazione fino al
regno di Saul nel quale erano impiegate
tutte le forme metriche classiche. Prima
di convertirsi al Cristianesimo
Apollinare fu un grammatikòs,
ovvero un insegnante che spiegava non
soltanto la grammatica nella nostra
accezione del termine ma soprattutto un
numero scelto di autori classici,
principalmente poeti e su tutti Omero.
Oltre a questa opera, che ricalcava
esattamente i poemi omerici, scrisse
commedie a imitazione di Menandro,
tragedie simili a quelle di Euripide,
odi sul modello di Pindaro e dialoghi
platonici di argomento evangelico. Tutte
opere che purtroppo non ci sono
arrivate, eccetto una Parafrasi dei
Salmi in esametri, abbondantemente
farcita di reminiscenze degli antichi
poeti greci.
Il centro culturale nel quale si
espresse maggiormente il contatto tra
l’ellenismo e il Cristianesimo fu
certamente Alessandria, che in tutto
l’Impero fu sempre ufficialmente
nominata come a Aegyptum e non
in Aegypto per rimarcarne il
carattere prevalentemente greco a
dispetto dell’appartenenza geografica.
Gli antichi splendori della monumentale
biblioteca di epoca tolemaica furono
rinnovati ad Alessandria, già a partire
dalla fine del II secolo d.C., dal
fiorire di scuole religiose, filosofiche
e scientifiche.
Questo si tradusse poi nei primi anni
del 300 in quella particolare
combinazione di paganesimo e ricerca
cristiana nota sotto il nome di
gnosticismo che si diffuse
principalmente attraverso le scuole
alessandrine. Soprattutto, però,
Alessandria ospitò il Didaskaleiòn
(ovvero “luogo dove si insegna”), la
scuola catechetica che secondo la
tradizione fu fondata dall’evangelista
San Marco e nel 250 circa era divenuta
grazie a Origene Adamanzio un autentico
centro d’irradiazione teologica.
Nel periodo post-costantiniano il
Didaskaleiòn conobbe una seconda
primavera e la ricerca di una sapienza
superiore messa al servizio
dell’interpretazione delle Sacre
Scritture portò contemporaneamente alla
formulazione del dogma e
all’elaborazione di teorie che,
differendo anche solo in minima parte da
esso, furono dichiarate eretiche. In
questo senso, la scuola alessandrina
ebbe un ruolo predominante
nell’inaugurare quella lunga stagione di
controversie trinitarie e cristologiche
che, a partire dalla prima metà del IV
Secolo, contribuirono anche a indebolire
ulteriormente i delicati equilibri
imperiali tra Oriente e Occidente.
L’insegnamento di Origene aveva di fatto
rappresentato l’apogeo del
Didaskaleiòn alessandrino in quanto
miglior esempio della compatibilità del
Cristianesimo con i tradizionali
princìpi filosofici. Il suo approccio di
tipo allegorico fu però a un certo punto
considerato “responsabile” di un
approfondimento scientifico ispiratore
della formulazione dell’arianesimo,
ovvero la prima grande eresia cristiana.
Per questo, pur mantenendosi fedele
all’impulso del suo maestro, la scuola
catechetica di Alessandria proseguì i
suoi sforzi speculativi attraverso un
metodo teologico mutuato
dall’altrettanto rinomata scuola di
Antiochia, altro polo cristiano facente
capo all’omonimo patriarcato secondo per
importanza solamente a quello di
Costantinopoli.
Capofila di questo nuovo corso fu
Atanasio, considerato ancora oggi dalla
Chiesa greca il campione
dell’ortodossia, proprio perché dal
Concilio di Nicea del 325 in avanti
consacrò le sue fatiche teologiche
perlopiù alla confutazione dell’eresia
ariana. Per farlo scelse appunto
l’esegesi più storica e grammaticale di
derivazione antiochena che, accantonando
l’allegorismo, consentì di utilizzare la
filosofia per codificare la dottrina
della Chiesa.
Il Credo niceno adottato nel 325 divenne
di fatto quello ufficiale giunto fino ai
giorni nostri, nel quale i rapporti tra
le Persone della Trinità vengono
chiariti escludendo la distinzione
professata da Ario tra Creatore e Creato
e scartando l’idea del Logos – ovvero il
mondo delle idee di Platone – come
intermediario tra Padre e Figlio. Oltre
alle Orationes contra Arianos,
l’opera più importante comunemente
attribuita ad Atanasio fu La Vita di
Antonio, nel quale le imprese del
primo monaco eremita vengono raccontate
secondo gli antichi modelli classici
della vita dell’eroe.
Una sola percezione della Trinità, e
dunque la consustanzialità di Padre,
Figlio e Spirito Santo, fu professata
anche da Didimo il Cieco, a capo del
Didaskaleiòn intorno al 350. Egli
insistette maggiormente, rispetto ad
Atanasio, sulla Divinità dello Spirito
Santo in quanto fonte principale dei
doni divini presenti nell’uomo ma finì
anche per essere considerato meno
ortodosso (circa duecento anni più tardi
fu anzi dichiarato eretico insieme a
Origene) per la teoria della
preesistenza delle anime dei viventi
alla loro nascita carnale e per quella
nota come apocatastasi, termine
mutuato dallo stoicismo più antico per
affermare teologicamente la
restaurazione universale di tutte le
cose nel loro stato originale puramente
spirituale alla fine dei tempi.
Ancor meno ortodossa fu la posizione di
Eusebio di Cesarea, il più importante
teologo cristiano a servizio della corte
imperiale di Costantino, per benevolenza
del quale accettò il Credo niceno pur
essendosi esposto in precedenza a favore
della dottrina ariana. In realtà, la
storiografia medievale è debitrice a
Eusebio molto più per le sue opere
erudite e storiche che per il suo
pensiero teologico. La sua Storia
Ecclesiastica è di fatto l’opera
che, celebrando l’esito vittorioso di
tre secoli di conflitto con lo Stato,
inaugurò il racconto della storia
generale della Chiesa (che fu proseguito
poi nei secoli successivi da altri
storici) consegnandoci una ricca
collezione di fatti e di documenti
ricavati da una gran quantità di scritti
della Chiesa primitiva.
Essendo egli stesso vissuto in un’epoca
segnata da un ritmo precipitoso di
eventi di altissima importanza, fu
costretto ad aggiornarla a più riprese.
Comunemente se ne contano quattro
edizioni, l’ultima delle quali
contenente dieci libri, dei quali gli
ultimi tre suggeriti all’autore dalla
rapida evoluzione degli avvenimenti tra
la persecuzione di Diocleziano del 303
alla vittoria definitiva di Costantino.
Lungi dall’essere un racconto ordinato
dell’espansione e dello sviluppo del
Cristianesimo, la Storia
ecclesiastica contiene un chiaro
intento apologetico che riprende e
completa la precedente opera intitolata
Cronaca (composta nel 303 circa),
una sorta di resoconto sincronico del
mondo che prende come punto di partenza
l’anno della nascita di Abramo (2016
a.C.) e successive divisioni come la
presa di Troia, la prima Olimpiade, il
secondo anno del regno di Dario per
arrivare alla morte di Cristo (nella
traduzione/revisione di San Girolamo fu
poi proseguita fino alla disfatta
imperiale di Adrianopoli del 378).
Come Eusebio di Cesarea, anche i Padri
Cappadoci seppero andare oltre le
dispute dottrinarie, nelle quali furono
comunque protagonisti dando un
importante contributo in chiave
anti-ariana a favore del dogma
trinitario niceno e della cristologia
ortodossa della Chiesa. La loro
produzione letteraria offrì altissimi
esempi della corrispondenza cristiana,
che nella forma e nello stile continuò
la tradizione della letteratura
epistolare ellenistica. Nonostante
l’epistola fosse la forma letteraria più
antica del Cristianesimo, fu solo
nell’epoca costantiniana che
cominciarono le grandi collezioni.
Le lettere di San Basilio sono vere
perle dell’arte epistolare cristiana,
per lingua, stile, profondità e calore
del sentimento, come anche per la
varietà degli argomenti e delle
relazioni personali. Tratto distintivo
della sua corrispondenza è il desiderio
di koinonìa, la comunione della
comunità primitiva cristiana descritta
negli Atti degli Apostoli che egli
nostalgicamente rievocava come modello a
fronte di una Chiesa divisa dalle
dolorose conseguenze della controversia
ariana. Illuminanti in questo senso sono
La lettera sulla concordia, un
testo composto nel 360 che illustra
anche i motivi alla base della sua
scelta monastica comunitaria e non
eremitica, e la Lettera 70
indirizzata, in qualità di vescovo di
Cesarea, nel 371 a Papa Damaso (ma in
realtà non pervenutagli) per invocare il
conforto della Chiesa d’Occidente ai
cristiani dell’Asia Minore.
Brillanti furono anche le epistole di
Gregorio Nazianzeno che esprimono tutti
i virtuosismi retorici e il talento
oratorio appreso dai maestri ateniesi
tanto da meritargli l’appellativo di
Demostene cristiano da parte dei
cronisti bizantini medievali. Meno
incline rispetto a Basilio alle
responsabilità della vita attiva e degli
incarichi ecclesiastici, il Nazianzeno
fu il primo grande poeta cristiano
superando anche Apollinare di Laodicea
ed Efrem il Siro, attivo nella prima
metà del 300, le cui poesie furono
perlopiù inni e sermoni dedicati a Maria
e in contrapposizione alla dottrina
gnostica.
La ritmica dei loro componimenti poetici
ricalca sostanzialmente le leggi del
metro antico, ma i versi di Gregorio
Nazianzeno riflettono una teologia
propriamente detta, ovvero da ultimo
l’impossibilità per lo spirito umano di
comprendere e definire gli attributi di
Dio. Opera massima della sua produzione
letteraria fu il poema autobiografico
De Vita Sua, il ritratto interiore
dei pensieri, delle speranze e dei
sentimenti più intimi di un’anima
cristiana, una sorta di anticipazione
delle Confessioni di
Sant’Agostino.
La limitatezza della conoscenza
razionale di Dio fu invece il tema di
fondo delle missive di Gregorio Nisseno,
fratello minore di Basilio e di gran
lunga il più filosofico della Triade dei
Cappadoci. Egli assunse la formula
platonica, secondo la quale l’occhio
umano può contemplare i raggi della luce
perché questa fa parte della sua natura,
per concludere che l’ascensione mistica
dell’uomo verso Dio è resa possibile
solamente dal compiacere quell’elemento
divino presente in ogni persona.
La ricerca teologica del Nisseno
procedette principalmente sulle tracce
del pensiero di Platone producendo anche
il Dialogus de anima et resurrectione,
un’opera composta poco dopo la morte di
Basilio avvenuta nel 379 e considerata
il corrispettivo cristiano del Fedone.
Attraverso questa conversazione di stile
platonico con la sorella Macrina che
parla nel ruolo del maestro socratico,
Gregorio espose le sue idee
sull’immortalità dell’anima, destinata
alla fine dei tempi a ristabilire con il
corpo una unione perfetta.
Per molti versi le opere dei tre Padri
Cappadoci furono quelle che, più di
tutte, affinarono l’affermazione degli
antichi filosofi secondo cui la ricerca
filosofica esprimeva in fondo una
capacità di auto-trasformazione.
Attraverso i loro scritti è infatti
possibile rintracciare un’esposizione
della fede cristiana come una
“filosofia” offerta da Dio, una “scuola
di virtù” aperta a tutti.
Riferimenti bibliografici:
P. Brown, La formazione dell’Europa
cristiana, traduzione di Michele
Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 1995.
J. Quasten, Patrologia Vol.II, I
Padri greci dal Concilio di Nicea al
Concilio di Calcedonia, Marietti,
Torino 1967. |