N. 93 - Settembre 2015
(CXXIV)
LA VENDETTA DI OTTAVIANO AUGUSTO
uso politico e propagandistico della ultio Caesari nell’ascesa del PrinciPE
di Francesco Ramagli
All’indomani delle Idi di Marzo del 44 a.C., mentre a Roma l’uccisione di Cesare portava la già tumultuosa situazione politica romana all’apice del caos, Gaio Ottavio, nipote del defunto dictator, si trova ad Apollonia, città lungo le coste dell’attuale Albania, dove soggiornava da alcuni mesi per completare i suoi studi in materia militare e per prepararsi alla spedizione che a breve si sarebbe mossa verso Oriente contro i Parti, in compagnia di alcuni tra i più fidati amici e commilitoni di Cesare come Agrippa e Salvidieno Rufo.
Una
volta
giunta
la
notizia
del
cesaricidio,
Ottaviano
si
consulta
in
primo
luogo
con
questi
fidati,
che
gli
suggeriscono
di
agire
con
assoluta
prudenza,
di
rifugiarsi
presso
il
leale
esercito
di
stanza
in
Macedonia
e di
non
tornare
a
Roma
fino
a
che
non
fosse
stato
assolutamente
certo
che
l’assassinio
di
Cesare
non
stesse
riscuotendo
il
consenso
generale.
In
questo
modo
avrebbe
potuto
garantirsi
una
protezione
personale
e,
in
tempi
più
sicuri,
procedere
alla
vendetta
di
colui
che,
come
svelò
la
lettura
del
testamento
di
Cesare,
lo
voleva
come
proprio
figlio
adottivo.
“Gli
consigliarono
anche
di
rinunciare
all’adozione
e
all’eredità.
Ma
lui[Ottaviano]
pensò
che
agire
in
quel
modo,
e
non
vendicare
Cesare,
sarebbe
stato
vergognoso”
APP.
Bell.Civ.
11,
III
La
madre
Azia
e i
famigliari,
in
apprensione
per
l’incolumità
di
Gaio
Ottavio,
giovane
e
inesperto
rispetto
ai
nemici
che
avrebbe
dovuto
affrontare
a
Roma,
gli
suggerirono
perfino
di
rinunciare
alla
eredità
paterna
e di
desistere
dal
commettere
azioni
avventate,
invitandolo
a
riflettere
sulla
sorte
toccata
a
Cesare
stesso.
Ma
come
ci
indica
Appiano
nel
passaggio
sopracitato
Ottaviano
non
rimane
indeciso
a
lungo
sul
da
farsi
e,
palesando
in
questo
modo
fin
da
subito
le
sue
intenzioni,
decide
di
attraversare
lo
Ionio
e
raggiungere
Brindisi
ma
non
prima
di
aver
promesso
all’esercito
orientale,
rimastogli
fedele,
che
una
volta
giunto
a
Roma
avrebbe
sconfitto
gli
assassini
del
padre
compiendo
così
la
Ultio
Caesaris.
Fin
dalle
prime
battute
della
sua
ascesa
politica
quindi,
Ottaviano
Augusto
decide
di
improntare
sull’importante
tematica
della
Ultio
il
suo
ruolo
nella
nuova
scena
politica
romana.
La
sua
scelta
non
è
certo
casuale.
Da
buon
comunicatore
il
futuro
Principe
conosce
bene
l’impatto
emotivo
che
un
tema
come
quello
della
Ultio
può
avere
sulla
popolazione
romana
essendo
la
vendetta
di
un
padre
assassinato,
un’azione
fortemente
legata
ad
un
concetto
più
amplio
e al
contempo
fondamentale
nella
società
della
Roma
Antica:
quello
della
Pietas.
Nel
concetto
di
Pietas
si
riassumevano
una
serie
di
atteggiamenti,
riti
e
adempienze
volte
alla
celebrazione
e
alla
manifestazione
del
rispetto
verso
quelli
che
erano
considerati
come
i
princìpi
capitali
dell’identità
culturale
romana,
in
particolare
a
tre
elementi
considerati
fondamentali.
Si
poteva
quindi
intendere
come
Pietas
erga
patriam
l’atteggiamento
di
rispetto
e
assoluta
dedizione
verso
lo
stato
e le
sue
istituzioni
così
come
verso
la
storia
dell’Urbe.
Con
Pietas
erga
Deos
i
romani
intendevano
invece,
oltre
che
al
dovuto
ossequio
per
le
divinità
e i
loro
ministri,
l’importanza
dello
svolgimento
dei
rituali
e,
soprattutto,
il
mantenimento
dei
voti
promessi
agli
Dei,
principio
sostanziale
su
cui
si
erigeva
l’intero
sistema
religioso
Romano.
La
Pietas
erga
Parentes
riassumeva
al
suo
interno
l’amore,
il
rispetto
e la
difesa
dei
membri
della
famiglia,
in
particolare
i
genitori,
con
tutte
le
declinazioni
che
questi
valori
implicavano
tra
cui,
appunto,
la
vendetta.
La
Pietas
erga
Parentes,
per
i
Romani
racchiudeva
temi
ancestrali
legati
al
mito
delle
origini
dell’Urbe,
richiamando
inevitabilmente
nell’immaginario
culturale
collettivo,
la
fuga
da
Troia
di
Enea
che
portò
in
salvo
l’anziano
padre
Anchise
trasportandolo
sulle
proprie
spalle.
Ottaviano
Augusto
attraverso
la
Ultio
Caesaris
non
intendeva
quindi
palesarsi
solamente
come
il
figlio
bramoso
di
vendetta
per
la
morte
violenta
del
padre.
Il
Principe
intendeva
mostrarsi
alla
Roma
Antica
come
il
pragmatico
difensore
di
tutti
questi
elementi
atavici
nella
genetica
culturale
del
popolo
romano
ma
che
ora,
con
la
morte
di
Cesare,
venivano
a
mancare.
Il
Dictator
infatti
non
era
semplicemente
il
padre
adottivo
di
Ottaviano
bensì
il
Pontefice
Massimo
in
carica,
per
la
cui
uccisione
vigeva
la
pena
capitale,
e al
contempo
un’istituzione
dello
Stato
che,
inoltre,
aveva
lasciato
nel
suo
testamento
ingenti
fortune
al
Popolo
di
Roma
a
cui
era
sempre
stato
legato
nella
sua
carriera
politica
e
nel
quale
aveva
sempre
suscitato
simpatie.
Come
vedremo,
Gaio
Ottavio
agli
albori
della
sua
ascesa
al
Principato,
utilizzerà
l’espediente
retorico
della
Ultio
contro
chiunque
gli
si
opponesse,
indiscriminatamente
dalla
posizione
di
quest’ultimo
nei
confronti
di
Giulio
Cesare,
strategia
questa
ben
ritoccata
nelle
Res
Gestae
dove
Ottaviano
si
autocelebrerà
come
colui
che
ha
lecitamente
ristabilito
l’ordine
nel
caos
morale
della
Res
Publica,
vendicando
suo
padre
e
castigando
con
la
giusta
punizione
gli
assassini
traditori
dello
Stato.
Le
fonti
letterarie
e le
prove
archeologiche
ci
danno
testimonianza
di
come,
fin
dal
principio
della
sua
carriera,
il
giovane
Gaio
Ottavio
fece
uso
di
ogni
mezzo
comunicativo
per
sottolineare
il
suo
diritto
di
discendenza
da
Giulio
Cesare,
per
palesare
la
sua
volontà
di
mantenere
una
continuità
politica
(anche
attraverso
un
sapiente
uso
rievocativo
della
semiotica)
e
per
ricordare
a
tutti,
ma
soprattutto
alla
sua
base
elettorale
formata
dal
popolo
e
dai
veterani
di
Cesare,
che
i
princìpi
che
animavano
il
suo
spirito
politico
si
sarebbero
concretizzati
nella
Ultio
paterna.
La
Ultio
Caesaris
nelle
Res
Gestae
“Qui
parentem
meum
trucidaverunt,
eo
sin
exilium
expuli
iudiciis
legitimis
ultus
eorum
facinus,
et
postea
bellum
inferentis
reipublicae
vici
bis
acie”
“Ho
mandato
in
esilio
coloro
che
hanno
assassinato
mio
padre
con
procedimenti
giudiziari
conformi
alle
leggi,
facendo
vendetta
del
loro
delitto,
e
dopo
li
ho
vinti
due
volte
in
battaglia
visto
che
muovevano
guerra
alla
repubblica.
”AUG.
Res
Gestae,
II,
5
La
Ultio
Caesaris
appare
fin
dalle
prime
righe
delle
Res
Gestae.
Già
nel
secondo
capitolo
Ottaviano
si
premura
di
ricordare
come
la
sua
gloriosa
ascesa
al
potere
sia
iniziata
trionfalmente,
in
nome
del
suo
totale
rispetto
della
moralità
e
della
legalità.
Ottaviano
Augusto
però,
ben
conscio
di
quali
fossero
le
macchie
della
sua
iniziale
fase
politica,
sceglie
attentamente
le
parole
per
descrivere
i
fatti
di
quel
periodo.
Apre
il
capitolo
II
delle
Res
Gestae
identificando
coloro
che
lo
hanno
spinto
ad
agire:
gli
assassini
di
suo
padre.
Ma
per
descrivere
il
reato
da
loro
commesso
non
sceglie
un
verbo
neutrale.
“Trucidaverunt”(così
come
il
successivo
“facinus”)
è un
termine
forte
che
esprime
immediatamente
l’efferatezza
del
gesto
facinoroso
di
cui
il
padre,
“Parentem
meum”,
è
stato
vittima.
Procede
precisando
che
la
sua
vendetta
è
avvenuta
nel
rispetto
della
legge
“iudiciis
legitimis”
e
che
i
colpevoli
sono
stati
mandati
in
esilio
“exilium
expuli”.
Senz’altro
questo
è il
passaggio
più
controverso
del
capitolo.
In
effetti
il
procedimento
giudiziario
attraverso
il
quale
Augusto
legittimò
la
guerra
contro
i
cesaricidi,
la
Lex
Pedia
De
Interfectoribus
Caesaris
(43
a.C.),
venne
emanata
regolarmente.
Come
sappiamo
però,
Ottaviano
Augusto
ottenne
il
consolato
marciando
su
Roma
il
19
Agosto
del
43
a.C.
minacciando
il
Senato
con
il
suo
esercito
in
modo
tale
da
estorcere
il
consolato,
carica
di
cui
mantenne
la
collegialità
facendosi
affiancare
dal
cugino
Quinto
Pedio
il
quale
provvide
poco
dopo
a
promulgare
tale
provvedimento.
Il
clima
di
tensione
che
la
Legge
Pedia
portò
a
Roma
raggiunse
il
suo
apice
pochi
mesi
dopo
quando,
con
la
nascita
del
secondo
Triumvirato,
vennero
stilate
le
Liste
di
Proscrizione
all’interno
delle
quali
furono
inseriti
non
solo
i
congiurati
cesaricidi
ma
anche
i
nemici
politici
dei
tre
Triumviri.
La
marcia
su
Roma
inoltre
avvenne
in
un
momento
decisivo
della
Guerra
di
Modena.
Ottaviano
infatti,
infastidito
dal
riconoscimento
che
il
Senato
e
Cicerone
avevano
manifestato
nei
confronti
di
Decimo
Bruto
Albino
e
dalla
negazione
del
Trionfo,
decise
di
sfruttare
il
momento
per
lui
favorevole
come
nuovo
leader
della
fazione
Cesariana
Antiantoniana
(in
seguito
alla
morte
di
Irzio
e
Pansa)
e di
tornare
in
armi
verso
Roma,
abbandonando
così
l’alleanza
con
il
cesaricida.
Dietro
a
quelle
sintetiche
ma
accurate
parole
Ottaviano
vuole
quindi
celare
ai
posteri
l’onta
e
l’ipocrisia
di
molte
delle
decisioni
da
lui
prese:
l’appoggio
ai
cesaricidi
nella
Guerra
di
Modena,
i
suoi
sfrontati
cambi
di
rotta
e,
non
meno
importante,
la
vergogna
per
un
provvedimento
come
le
Liste
di
Proscrizione
che,
come
vedremo,
misero
in
discussione
l’integrità
di
Ottaviano
nei
confronti
della
Pietas.
Augusto
al
contrario
mira
a
sottolineare
di
aver
agito,
oltre
che
legalmente,
anche
in
nome
della
tanto
decantata
Clementia
augustea:
gli
assassini
del
padre
secondo
quanto
riportato
dal
Principe
vennero
semplicemente
esiliati.
Sappiamo
in
realtà
che
vennero
trucidati
a
migliaia
tra
senatori
e
cavalieri,
per
non
parlare
del
tradimento
sopracitato
della
Pietas
filiale.
Dopo
aver
ricordato
il
compimento
della
Ultio,
Ottaviano
afferma
poi
di
aver
sconfitto
due
volte
i
rimanenti
assassini
del
padre
poiché
muovevano
guerra
contro
la
Repubblica
(“bellum
inferentis”,
“vici
bis”).
In
questo
caso
Augusto
fa
riferimento
alle
guerre
intestine
che
si
svolsero
negli
anni
dal
suo
approdo
sulla
scena
politica
romana
fino
alla
svolta
della
battaglia
di
Filippi
durante
la
quale,
sebbene
in
realtà
il
merito
della
vittoria
fu
sostanzialmente
di
Marco
Antonio,
puntualmente
omesso,
vennero
sconfitti
e
persero
la
vita
gli
ultimi
due
leader
filorepubblicani,
Bruto
e
Cassio.
“In
privato
solo
Martis
Ultoris
templum
forumque
Augustum
ex
manibiis
feci.
Theatrum
ad
aedem
Apollinis
in
solo
magna
ex
partea
privatis
empto
feci,
quod
subnomine
M.Marcelli
generi
mei
esset”
“Sul
suolo
privato
ho
costruito
il
tempio
di
Marte
Ultore
e il
Foro
di
Augusto
con
il
bottino
di
guerra.
Ho
costruito
il
teatro
presso
il
tempio
di
Apollo,
che
doveva
portare
il
nome
di
mio
genero,
Marco
Marcello
sul
terreno
acquistato
in
gran
parte
da
privati”
AUG.
Res
gestae,
XXI,1
Fu
proprio
in
occasione
della
imminente
battaglia
di
Filippi
che
Ottaviano
Augusto
pronunciò
un
voto
a
Marte
Ultore,
promettendo
al
dio
della
guerra
un
tempio
grandioso
se
gli
avesse
concesso
di
concretizzare
la
sua
vendetta.
Ovidio
nei
suoi
“Fasti”
riporta
in
questi
versi
la
preghiera
con
cui
Ottaviano
avrebbe
offerto
il
suo
voto:
“Ille
manus
tendens,hinc
stanti
milite
iusto,
hinc
coniuratis,
talia
dicta
dedit: «Si
mihi
bellandi
pater
est
Vestaeque
sacerdos
auctor,
et
ulcisci
numen
utrumque
paro,
Mars,
ades
et
satia
scelerato
sanguine
ferrum,
stetque
favor
causa
pro
meliore
tuus.
Templa
feres
et,
me
victore,
vocaberis
Ultor».
Voverat,
et
fuso
laetus
ab
hoste
redit”.
“Da
questa
parte
stavano
le
giuste
schiere
e di
là i
congiurati,
ed
egli
così
disse
tendendo
i
palmi
al
cielo:
«Se
il
padre
mio
e
pontefice
di
Vesta
vuole
che
combatta,
e se
io
mi
accingo
a
vendicare
e
l’uno
e
l’altro
nume,
o
Marte
assistimi
e
sazia
le
spade
con
il
sangue
perverso
e
vada
il
tuo
favore
alla
causa
più
giusta.
Avrai
un
tempio
e,
se
vinco
il
nome
di
Vendicatore».
Fece
il
voto
e
tornò
lieto,
vinti
i
nemici.”
OV.
Fasti,
V,
571-578
Nel
capitolo
XXI,1
delle
Res
Gestae
in
cui
Ottaviano
menziona
il
Tempio
a
Marte
Ultore,
il
Principe
si
ribadisce
come
artefice
della
definitiva
Ultio
Caesaris
attraverso
la
costruzione
del
tempio;
non
solo:
la
vendetta
non
era
più
dovuta
esclusivamente
alla
figura
del
padre
e
del
Pontefice
Massimo,
ma
anche
ad
un
dio
dal
momento
che
Cesare,
con
un’abile
mossa
propagandistica
dei
Triumviri,
era
stato
divinizzato
nel
42
a.C.
Tuttavia
Ottaviano
non
si
limita
a
questo.
Sottolinea
infatti
che
la
costruzione
del
Tempio,
oltre
ad
essere
avvenuta
presso
suolo
privato
e
insieme
al
Foro
di
Augusto,
è
stata
finanziata
“ex
manubiis”,quindi
con
i
bottini
delle
guerre
e
dei
popoli
da
lui
sottomessi.
Come
vedremo
in
seguito,
il
Tempio
a
Marte
Ultore
si
inserisce
come
punta
di
diamante
all’interno
del
complesso
comunicativo
organizzato
da
Ottaviano
nello
spazio
del
Foro
Augusteo.
Il
Tempio
non
è la
semplice
consacrazione
di
un
voto
al
dio
della
guerra,
bensì
la
celebrazione
della
vendetta
resa
possibile
dal
volere
di
Marte
stesso
attraverso
la
persona
di
Augusto.
La
Pietas
Filiale
come
strategia
retorica
Nelle
Res
Gestae
dunque,
Ottaviano
non
manca
mai
di
ricordare
come
le
sue
azioni
e
scelte
politiche
fossero
spinte
dalla
assoluta
dedizione
alla
Pietas,
alla
Clementia,
alla
Iustitia
e
alla
Virtus.
Ma
la
sua
accorata
battaglia
per
questi
valori,
perfettamente
in
linea
con
la
sua
volontà
di
ripristinare
l’ordine
del
Mos
Maiorum,
pur
essendo
costante
e
focale
all’interno
del
suo
messaggio
propagandistico,
non
fu
altrettanto
coerente.
Il
Principe
infatti,
dal
momento
della
sua
comparsa
sulla
scena
politica,
utilizzerà
il
concetto
della
Pietas
Filiale
come
proprio
valore
positivo
volgendo
la
punta
di
questa
efficace
arma
contro
ogni
nemico
gli
si
contrapponesse,
in
modo
sfrontatamente
arbitrario.
In
questa
prima
stagione
politica
di
Ottaviano
Augusto
è
possibile
individuare
tre
differenti
metodi
di
impiego
del
tema
della
Ultio
Caesaris.
Il
primo
lo
vede
come
il
legittimo
erede
di
Cesare
che
ha
il
diritto,
ma
soprattutto
il
dovere
morale,
di
portare
a
termine
le
vendetta
del
padre
ucciso
brutalmente.
Questo
espediente
dialettico,
che
pone
l’accento
sul
rispetto
della
Pietas
da
parte
di
Ottaviano,
è
quello
più
sfruttato
dal
Principe
per
irretire
la
base
politica
fedele
al
Generale,
costituita
principalmente
dai
legionari
e da
alcuni
filocesariani,
delusi
e
oltraggiati
dalla
decisione
del
console
Marco
Antonio
di
raggiungere
una
mediazione
con
i
cesaricidi.
In
effetti
Augusto
annuncia
la
Ultio
come
suo
obbiettivo
primario
alle
legioni
stanziate
a
Oriente
presso
le
quali
viene
raggiunto
dalla
notizia
della
morte
del
padre.
Ribadisce
la
promessa
ai
veterani
di
Cesare
in
Campania
per
convincerli
a
formare
il
suo
privato
esercito
di
Evocati
(offrendo
loro
inoltre
500
dracme
e il
mantenimento
delle
stesse
promesse
fatte
dal
Dictator).
È
anche
la
forza
delle
sue
adlocutiones,
così
come
di
quelle
degli
altri
Triumviri,
alle
truppe
in
occasione
della
Battaglia
di
Filippi
ed è
la
base
di
tutto
il
suo
piano
propagandistico
contro
Sesto
Pompeo,
all’interno
del
quale
porrà
l’accento
sulla
“Ultio
Generazionale”
tra
lui
e il
figlio
dell’eterno
rivale
di
Cesare.
In
effetti
entrambi
i
protagonisti
di
questa
sfida
generazionale
si
giocavano
in
quel
confronto
buona
parte
della
loro
credibilità
politica
che,
se
pur
avversa,
presentava
molti
aspetti
in
comune.
Entrambi
sono
giovani
ed
ambiscono
alla
leadership
delle
rispettive
fazioni
ma
soprattutto
entrambi
mirano
alla
vendetta
del
padre
(che
in
ambedue
i
casi
ricopriva
una
carica
istituzionale
religiosa:
Gneo
Pompeo
era
un
Augurato
ai
tempi
della
sconfitta
di
Farsalo).
Sesto
Pompeo
sebbene
fosse
all’oscuro
del
cesaricidio
ne
trae
comunque
un
beneficio
poiché
il
Senato
lo
nomina
Praefectus
et
Orae
Marittimae
affidandogli
di
fatto
l’intera
flotta
del
Mediterraneo.
Lo
scontro
propagandistico
tra
i
due
verterà
principalmente
sul
tema
della
Pietas
Paterna.
Nelle
monete
di
quel
periodo
entrambi
fanno
raffigurare
il
proprio
volto
barbuto,
dettaglio
che
nella
simbologia
romana
rimandava
immediatamente
alla
trasandatezza
dovuta
alla
sofferenza
per
la
vendetta
ancora
da
compiersi.
Sempre
nella
simbologia
numismatica,
sul
retro
delle
loro
monete
i
due
ricorrono
a
immagini
inequivocabilmente
legate
alla
memoria
del
padre
o ad
un
mito
evocativo
come
Enea
che
trasporta
Anchise
o,
nel
caso
di
Sesto
Pompeo,
il
mito
dei
Pii
Fratres
di
Catania
che
trasportarono
i
genitori
in
spalla
per
salvarli
da
un’eruzione
dell’Etna.
Sebbene
Augusto
riuscì
a
prevalere
militarmente
sulla
fazione
Pompeiana,
non
uscì
altrettanto
trionfante
dallo
scontro
propagandistico
con
Sesto.
A
mettere
in
difficoltà
l’efficacia
comunicativa
del
messaggio
di
Ottaviano
furono
le
Liste
di
Proscrizione.
Sesto
fu
molto
abile
nel
proporsi
come
salvezza
per
i
proscritti
come
riporta
Appiano
in
questo
passaggio:
“La
maggior
parte
dei
proscritti
andava
in
Sicilia
a
causa
della
sua
vicinanza
all’Italia
poiché
Pompeo
li
accoglieva
benevolmente.
Pompeo
infatti
dimostrò
zelo
ammirevole
e
tempestivo
verso
gli
sfortunati,
inviando
messi
che
offrivano
ai
salvatori
dei
proscritti,
sia
schiavi
che
liberi,
il
doppio
della
ricompensa
che
era
stata
loro
offerta
per
ucciderli”
APP.
Bell.Civ.
V,
15
Fu
altrettanto
scaltro
nell’accusare
Ottaviano
di
Impietas,
poiché
con
le
Liste
tradiva
gli
stessi
valori
che
affermava
di
amare
e
voler
difendere.
La
crisi
sociale,
dovuta
alle
denunce
degli
schiavi
verso
i
padroni
proscritti,
ma
soprattutto
la
crisi
morale,
poiché
i
figli
e i
famigliari
dei
proscritti
si
videro
obbligati
dall’austerità
del
provvedimento
a
denunciare
i
loro
stessi
padri,
gesto
ignobile
per
la
cultura
di
Roma,
furono
le
armi
con
cui
Sesto
Pompeo
affrontò
Ottaviano.
L’imbarazzo
di
quest’ultimo
per
quanto
riguarda
questo
periodo
del
suo
cursus
è
ben
reso
dalla
celerità
con
cui
il
Principe
liquida
la
figura
di
Sesto
Pompeo
e
della
guerra
contro
di
lui
nelle
Res
Gestae
(XXV,1):
“Ho
pacificato
il
mare
liberandolo
dai
Pirati”.
Differente
è
l’iniziale
atteggiamento
propagandistico
di
Ottaviano
nei
confronti
del
rivale
Marco
Antonio.
Augusto,
se
nella
sua
prima
strumentalizzazione
della
Ultio
si
dipinge
come
il
deciso
futuro
artefice
della
vendetta,
contro
Marco
Antonio
assume
altri
toni.
Ben
conscio
che
la
base
politica
cesariana,
soprattutto
quella
militare,
pur
contrariata
da
Antonio,
non
avrebbe
visto
di
buon
occhio
un
aperto
attacco
contro
il
console
comunque
fedele
a
Cesare,
Ottaviano
decise
di
mantenere
un
profilo
basso,
quasi
remissivo
lasciando
che
fosse
lo
stesso
Console,
forte
e
sicuro
della
propria
esperienza
e
pubblicamente
avverso
al
riconoscimento
dell’eredità
di
Ottaviano,
ad
offrirgli
la
possibilità
di
apparire
come
vittima,
come
un
figlio
cui
veniva
negato
il
diritto
di
portare
giustizia
e
memoria
al
padre
ucciso.
D’altronde
Ottaviano
non
poteva
permettersi
ancora
un
confronto
politico
con
Antonio,
più
esperto
sia
delle
dinamiche
militari
che
di
quelle
politiche.
L’accusa
che
il
suo
rivale
gli
mosse
costantemente
in
ogni
momento
del
loro
scontro
politico
mirava
a
colpire
il
giovane
sui
suoi
punti
deboli
come
la
giovane
età
e la
discutibile
eredità
ottenuta
da
Cesare
con
frasi
come
questa:
“Et
tu,
o
puer,
qui
omnia
nomini
debes…”
CIC.
Phil.
XIII,
24
Se
nello
scontro
propagandistico
subito
antecedente
alla
battaglia
aziaca
Ottaviano
risponde
a
tono
alle
accuse
di
Antonio,
sottolineandone
per
esempio
l’abbandono
del
decoro
del
Mos,
la
“sregolatezza”
del
suo
stile
di
vita
in
Oriente
e
contrapponendosi
a
lui
come
campione
di
romanità,
nel
suo
esordio
subisce
gli
atteggiamenti
astiosi
del
console
senza
reagire
attivamente,
scegliendo
così
una
strategia
più
sottile
che
gli
permise
di
guadagnarsi
fin
da
subito
le
simpatie
del
popolo
e
dei
filocesariani.
Un
episodio
che
ben
esemplifica
le
dinamiche
appena
descritte
è
quello
che
occorse
tra
i
due
rivali
nel
luglio
del
44
a.C.
in
occasione
dei
Ludi
Victoriae
Caesaris,
istituiti
per
le
vittorie
militari
del
Generale.
Ottaviano
si
propone
di
organizzare
a
proprie
spese
questa
commemorazione
del
padre
e di
esporre
il
seggio
e la
corona
aurei
che
il
Senato
aveva
concesso
a
Cesare
in
occasione
di
eventi
e
spettacoli
pubblici,
solitamente
tenuti
nei
teatri
per
accogliere
la
folla
numerosa
che
vi
si
presentava
regolarmente.
Marco
Antonio
però,
infastidito
dalla
iniziativa
di
Ottaviano,
anche
in
considerazione
del
fatto
che
tali
eventi
erano
solitamente
organizzati
da
magistrati
annuali,
glielo
vieta.
Il
futuro
Principe
rispetta
la
posizione
di
Antonio
senza
protestare
ma:
“Quando
entrò
nel
teatro,
il
popolo
lo
applaudì
a
lungo
e i
soldati
di
Cesare,
indignati
perché
gli
si
impediva
di
rinnovare
gli
onori
in
memoria
del
padre
morto,
indicandolo
a
dito,
rinnovarono
gli
applausi
durante
tutto
lo
spettacolo”.
NIC.DAM.
FGrHist
F
130,
108
Ottaviano
decide
in
seguito
a
questa
pubblica
manifestazione
di
solidarietà
da
parte
del
popolo
e
soprattutto
dei
militari,
di
fare
un
uso
paradigmatico
nelle
sue
contiones
della
sofferenza
causatagli
da
Antonio
con
la
proibizione
di
offrire
la
giusta
memoria
al
padre:
“Egli
rivelò
loro
qual
era
lo
stato
delle
cose
e
richiamò
l’attenzione
dei
soldati
sul
fatto
che
suo
padre
fosse
bersaglio
di
insidie.[…]la
popolazione
lo
ascoltava
assai
volentieri
e
con
simpatia.
Provava
compassione
di
lui
e
spesso
gridava
di
farsi
coraggio,
dicendo
che
gli
avrebbe
prestato
aiuto
incondizionato
e
non
si
sarebbe
data
pace
finché
non
gli
fosse
riconosciuta
la
dignità
paterna”.
NIC.DAM.
FGrHist
F
130,
136
Augusto
infine
seppe
strumentalizzare
la
Ultio
anche,
paradossalmente,
nel
dialogo
politico
con
quella
fazione
che,
teoricamente,
avrebbe
dovuto
combattere,
per
lo
meno
in
parte:
la
fazione
senatoria.
In
questa
fase
politica
il
Principe
decide
di
palesare
platealmente
la
sua
rinuncia
alla
Ultio
erga
Patrem
per
garantire
prima
di
tutto
la
Ultio
erga
Patriam.
Dopo
aver
radunato
il
suo
esercito
di
Evocati,
Ottaviano
scrive
a
Cicerone
per
offrire
a
lui,
al
Senato
e a
Pansa
il
servizio
dei
suoi
militari,
atteggiamento
questo
che
insospettisce
il
politico
arpinate:
“In
un
solo
giorno
mi
sono
state
recapitate
due
lettere
insieme
da
parte
di
Ottaviano,
che
ora
mi
invita
a
recarmi
immediatamente
a
Roma,
dicendo
che
vuole
agire
attraverso
il
senato.
[…]
Ma
egli
aggiunge
«con
il
tuo
consiglio».
Perché
farla
tanto
lunga?
Egli
esercita
pressioni,
però
io
mi
prendo
una
pausa
di
riflessione.
Non
ho
fiducia
nella
sua
età,
ignoro
da
quali
intenzioni
sia
animato.[…]A
Varrone
dispiace
proprio
il
progetto
del
ragazzo,
a me
no.
Dispone
di
truppe
valide
e
potrebbe
avere
dalla
sua
parte
Bruto.
Svolge
le
sue
azioni
alla
luce
del
sole
e a
Capua
forma
le
centurie
dei
suoi
soldai
e dà
loro
il
soldo.
Da
un
momento
all’altro
vedo
scatenarsi
la
guerra”.
CIC.
Att.
XVI,
9
Cicerone,
nonostante
gli
iniziali
dubbi
su
quanto
le
intenzioni
di
Gaio
Ottavio
fossero
fededegne,
decide
di
accettare
l’offerta
dando
il
via
all’alleanza
che
lo
stesso
Principe
si
guarderà
bene
di
ricordare
nelle
sue
future
memorie.
Cicerone
e il
Senato
decisero
di
legarsi
all’esercito
di
Evocati
Ottavianeo
perché
vedevano
in
questo
un
forte
contributo
al
già
forte
esercito
di
Decimo
Bruto,
l’altro
loro
alleato.
Con
la
guerra
porte
era
necessario
prepararsi
a
combattere
l’esperienza
e la
forza
militari
di
Marco
Antonio
e di
Marco
Emilio
Lepido.
Ma
se
Cicerone
fu
lungimirante
nel
prevedere
la
guerra,
non
lo
fu
altrettanto
nel
valutare
le
posizioni
di
Ottaviano.
Durante
le
sue
Filippiche,
oltre
a
pronunciarsi
aspramente
contro
Antonio,
Cicerone
descrisse
con
molta
enfasi
l’abnegazione
del
giovane
Cesare.
Queste
parole
però
non
gli
furono
sufficienti
per
salvarsi
dalle
Liste
di
Proscrizione
che
seguirono
gli
accordi
Triumvirali
tra
Ottaviano,
Antonio
e
Lepido:
“Caesar,
singulari
pietate
adulescens,
poterit
se
tenere,
quin
D.Bruti,
sanguine
poenas
patrias
persequatur?
[…]
Quo
maior
adulescens
Caesar
maioreque
deorum
immortalium
beneficio
rei
publicae
natus
est,
qui
nulla
specie
paterni
nominis
nec
pietate
abductus
umquam
est
et
intellegit
maximam
pietatem
conservatione
patriae
contineri”.
“Cesare,
questo
giovane
dotato
di
così
straordinaria
pietà
filiale,
come
potrà
trattenersi
dal
cercare
nel
sangue
di
decimo
bruto
la
vendetta
per
l’uccisione
di
suo
Padre?
[…]
Tanto
più
grande
si è
dimostrato
il
giovane
Cesare!
Tanto
più
è
apparso
predestinato,
per
la
volontà
degli
Dei,
al
bene
della
Repubblica!
Senza
lasciarsi
deviare
da
falso
pretesto
del
nome
paterno,
da
senso
di
pietà
filiale,
egli
ha
compreso
che
il
più
alto
senso
di
pietà
è
quello
che
vuole
salvia
la
patria”.
CIC.
Phil.
XIII,
46
Il
Tempio
a
Marte
Ultore
Come
abbiamo
visto
in
precedenza
tramite
il
passaggio
dei
Fasti
di
Ovidio,
all’incombenza
della
decisiva
battaglia
di
Filippi,
Ottaviano
pronunciò
un
solenne
voto
a
Marte
offrendo
alla
divinità
un
tempio
che
avrebbe
celebrato,
oltre
che
il
compimento
della
Ultio,
le
vittorie
e le
guerre
trionfali:
“Aedem
Martis
bello
Philippensi
pro
ultione
paterna
suscepto
voverat;
sanxit
ergo,
ut
de
bellis
triumphisque
hic
consuleretur
senatus,
provincias
cum
imperio
petituri
hinc
deducerentur,
quique
victores
redissent,
huc
insignia
triumphorum
conferrent”
“Riguardo
al
tempio
di
Marte,
Augusto
fece
voto
di
costruirlo
quando,
con
la
battaglia
di
Filippi,
si
era
vendicato
della
morte
di
Cesare;
stabilì
che
il
Senato
deliberasse
in
questo
tempio
quello
che
riguardava
le
guerre
e i
trionfi,
che
da
qui
partissero
tutti
quelli
che
dovevano
partire
per
le
province
con
incarichi
di
comando
e
che
coloro
che
tornavano
vincitori
portassero
qui
le
insegne
dei
loro
trionfi”.
SUET.
Aug.29
Sebbene
la
vittoria
contro
i
cesaricidi
avvenne
già
nel
42
a.C.,
la
costruzione
di
un’opera
di
tale
mole
venne
avviata
soltanto
dopo
la
resa
dei
conti
di
Azio,
probabilmente
tra
il
30 e
il
27
a.C.
Augusto
in
effetti,
soprattutto
nell’area
occidentale
dell’Impero,
fu
sempre
molto
accorto
e
cauto
nella
promozione
di
opere
autocelebrative,
ben
conscio
di
come
certe
iniziative
fossero
state
fino
ad
allora
accolte
dalla
popolazione
di
Roma.
Tuttavia
non
rinunciò
alla
consueta
strumentalizzazione
propagandistica
dei
messaggi
intriseci
alle
immagini
della
mitologia
e
della
storia
della
città,
mediando
attraverso
di
essi
un
continuo
riferimento
alla
sua
gloria
e ai
suoi
successi
personali.
Esempio
lampante
di
questo
meccanismo
è la
strumentalizzazione
di
una
seconda
vendetta
di
cui
Ottaviano
si
fa
artefice:
la
restituzione
all’Urbe
delle
insegne
legionarie
sottratte
dai
Parti
a
Crasso
nella
Disfatta
di
Carre.
Per
ottenerle
Ottaviano
si
reca
personalmente
in
Oriente
dove,
più
con
intenzioni
diplomatiche
che
bellicose,
riuscì
ad
accordarsi
con
Re
Fraate
IV
che,
in
cambio
dell’abbandono
del
suo
territorio
da
parte
delle
legioni,
restituì
i
vessilli
e i
prigionieri
a
Tiberio.
Ottaviano
ricorda
nelle
Res
Gestae
questa
vicenda,
frutto
appunto
di
un
accordo
diplomatico,
come
un
grande
trionfo
degno
della
gloria
di
Roma:
“Parthos
trium
exercitum
Romanorum
spolia
et
signa
reddere
mihi
supplicesque
amicitiam
populi
Romani
petere
coegi.
Ea
autem
signa
in
penetrali
quod
est
in
templo
Martis
Ultoris
reposui”
“Ho
costretto
i
parti
a
restituirmi
le
spoglie
e le
insegne
di
tre
eserciti
romani
e a
chiedere
supplice
le
amicizie
del
popolo
romano.
Ho
poi
deposto
quelle
insegne
nel
penetrale
che
è
all’interno
del
tempio
di
Marte
Ultore”.
AUG.
Res
Gestae,
XXIX,
2
Inaugurato
nel
2
a.C.
il
Tempio
andava
a
completare
la
scenografia
monumentale
dell’intero
Foro
Augusteo,
assieme
al
quale
costituiva
una
sorta
di
museo
a
cielo
aperto
dei
trionfi
e
della
storia
di
Roma.
Chi
entrava
nella
piazza
veniva
letteralmente
immerso
in
una
enorme
celebrazione
della
civiltà
romana,
circondato
dalle
statue
dei
Summi
Viri
dell’Urbe,
inseriti
nelle
nicchie
e
nelle
esedre
del
porticato
perimetrale,
tutti
legati
in
un
modo
o
nell’altro
alla
figura
del
Principe.
Tra
questi
spiccavano
Enea,
fondatore
di
Roma
e
padre
della
Gens
Iulia,
nella
consueta
plasticità
della
fuga
da
Troia
con
Anchise
sulle
spalle,
e
Romolo
con
le
celebri
spolia
opima.
Dall’alto
del
podio
su
cui
si
ergeva,
il
Tempio
si
inseriva
come
elemento
prominente
dell’intero
complesso.
La
sua
imponente
facciata
ottastila
culminava
nell’elaborato
frontone
che,
come
segnala
Paul
Zanker,
probabilmente
“produceva
nell’animo
del
visitatore
l’effetto
più
forte”:
la
decorazione,
riportata
in
un
rilievo
dell’Ara
Pietatis
Augustae,
rappresentava
al
centro
un
Marte
barbuto
(in
richiamo
al
suo
ruolo
di
Ultor),
alla
sua
destra
sedeva
Venere
(da
cui
la
gens
Iulia
vantava
divine
discendenze)
e
alla
sua
sinistra
era
riconoscibile
la
Dea
Fortuna.
Accanto
a
Venere
era
presente
Romolo,
rappresentato
durante
l’ottenimento
dell’augurium
augustum.
Il
frontone
si
chiudeva
ai
suoi
estremi
con
la
personificazione
del
Palatino
a
sinistra
e la
rappresentazioni
della
Dea
Roma
e
del
fiume
Tevere
a
destra.
Fondamentalmente
la
costruzione
del
Tempio
a
Marte
Ultore
e
del
Foro,
offriva
a
Roma
una
grandiosa
celebrazione
della
sua
storia
e
della
gloria
del
Principe
che
in
questo
modo
annunciava
la
vendetta
compiuta
ma,
soprattutto,
la
conquista
del
mondo
intero
e
poteva
così
concretizzare
nella
pietra,
le
parole
e le
promesse
con
cui
si
era
presentato
al
popolo
romano,
all’alba
della
sua
ascesa
al
potere.
Riferimenti
bibliografici
G.
Cresci
Marrone,
Pietas
di
Ottaviano
e
pietas
di
Sesto
Pompeo
in
Temi
augustei:
Atti
dell’incontro
di
studio,
Venezia
5
giugno
1996,
a
cura
di
G.Cresci
Marrone,
Hakkert,
Amsterdam
1998
R.
Mangiameli,
Tra
Duces
e
Milites:
Forme
di
comunicazione
politica
al
tramonto
della
Repubblica,
Eut
Edizioni,
Trieste
2012
C.
Perassi,
Monete
romane
dell’età
repubblicana,
Milano
1998
C.
Perez,
Monnaie
du
pouvoir,
pouvoir
de
la
monnaie.
Une
pratique
discursive
originale:
le
discours
figuratif
monétaire
(1er
s.
av.J.C.
- 14
ap.
J.C.),
Paris
1986.
La
monnaie
a
Rome
a la
fin
de
la
Republique.
Un
discours
en
images,
Paris
1989.
L.Ungaro,
Il
Foro
di
Augusto,
in
Il
museo
dei
Fori
imperiali
nei
Mercati
di
Traiano,
a
cura
di
M.P.
Del
Moro,
Electa,
Milano
2007
P.Wallmann,
Münzpropaganda
in
den
Anfängen
des
Zweiten
Triumvirats
(43/42
v.
Chr.),
Bochum
1977
P.
Zanker,
Il
Foro
di
Augusto,
Fratelli
Palombi
Editori,
Roma
1984