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ANTICA


N. 59 - Novembre 2012 (XC)

L’ultimo discorso di Pericle agli Ateniesi
Apologia di un abile stratega

di Paola Scollo

 

Che Pericle abbia goduto della fama di eccellente oratore una chiara conferma giunge dalle pagine della Vita di Pericle composta da Plutarco: «Da Anassagora Pericle derivò la conoscenza dei fenomeni celesti e le speculazioni elevate, profondità di pensiero e l’altezza di eloquenza, un’eloquenza peraltro immune da qualsiasi forma di ciarlataneria banale e plebea […]» (Plut., Per. V 1).

 

Dei discorsi di Pericle abbiamo traccia nella Guerra del Peloponneso di Tucidide, laddove lo stratega per tre volte prende la parola per rivolgersi agli Ateniesi. Nel complesso i discorsi costituiscono una sezione interessante all’interno dell’opera tucididea.

 

A tal proposito, lo storico spiega che «Per quanto riguarda i discorsi che gli oratori di ciascuna città pronunciarono, sia quando stavano per entrare in guerra sia nel corso di essa, era difficile ricordare con esattezza proprio ciò che era stato detto, tanto per me ricordare le cose che io stesso avevo udito, che per coloro che le avevano sentite da qualche altra fonte: ma come mi sembrava che ciascuno avrebbe potuto dire le cose più appropriate per ogni situazione che si presentava, tenendomi il più vicino possibile al senso generale di ciò che era stato veramente detto, così sono presentati i discorsi» (I 22. 1).

 

Questa dichiarazione metodologica non deve sorprendere. Tucidide, infatti, si serve dei discorsi con un duplice intento, dimostrativo e agonale. All’interno della prima tipologia rientra ad esempio il celebre discorso tenuto da Pericle in occasione della sepoltura dei caduti del primo anno di guerra (II 35-46), laddove prevale nettamente l’intento ideologico: l’epitaffio, che nel complesso riveste una posizione marginale, è funzionale al reale scopo del discorso che è celebrativo della democrazia ateniese. Di tipo agonale sono piuttosto i discorsi pronunciati dagli ambasciatori di Corcira e di Corinto di fronte all’assemblea degli Ateniesi (I 32 - 43), che per struttura evocano le argomentazioni sofistiche basate sulla contrapposizione di tesi e antitesi. Come spiega Cole, caratteristiche dei discorsi in Tucidide sono la presenza massiccia di concetti generali adeguati alla circostanza e la brevitas necessaria per una rapida memorizzazione.

 

Dei discorsi che Tucidide attribuisce a Pericle nel II libro della Guerra del Peloponneso l’epitaffio (II 34 - 36) ha senz’altro goduto di maggiore notorietà. Ma degno di considerazione è anche il terzo e ultimo discorso (II 59-65) pronunciato dallo stratega nel corso della primavera del secondo anno di guerra. È questo il discorso che svela il volto più umano e vulnerabile di Pericle. Osserviamolo puntualmente.

 

Mentre ad Atene l’epidemia di peste continua a spargere vittime, gli Spartani invadono l’Attica, sottoponendola a ripetute devastazioni. L’esito della guerra è incerto e gli Ateniesi si interrogano sulle cause del conflitto. Di fronte alla dilagante esasperazione della popolazione, Pericle decide di convocare l’assemblea al fine di infondere speranza nei suoi concittadini ma, soprattutto, di respingere da sé ogni forma di ira e di critica poiché, pur avendo desiderato il conflitto, non può essere considerato l’unico responsabile di tanta distruzione.

 

Nell’esordio l’abile stratega illustra le ragioni del suo intervento: «Io mi aspettavo che si sarebbero dirette contro di me le manifestazioni della vostra ira (ne conosco infatti le cause), e ho convocato per questo l’assemblea, per ricordarvi alcune cose e rimproverarvi se senza un giusto motivo siete adirati con me o cedete di fronte alle sventure» (II 60. 1). Pericle considera immotivata l’avversione dei concittadini nei suoi confronti: «Sbigottiti per le disgrazie avvenute nelle vostre case, state abbandonando la salvezza dello stato e accusate me, che vi ho esortati a fare la guerra, e voi stessi, che vi siete associati nella decisione» (II 60. 4).

 

Gli Ateniesi sono colpevoli di essersi scagliati contro un uomo «amante della città e superiore al denaro» (II 60. 5). Ma c’è di più. Essi hanno mutato il loro atteggiamento, mentre Pericle è rimasto lo stesso. Dapprima sicuri e protetti si sono lasciati persuadere per poi pentirsi quando hanno iniziato a subire i danni della guerra: «E i miei ragionamenti, nello stato di debolezza della vostra mente, non vi sembrano corretti, perché ognuno ha ora la percezione del dolore, mentre a tutti manca ancora la rivelazione del vantaggio; ed essendo avvenuto un grande mutamento delle vostre condizioni, e per giunta improvvisamente, il vostro animo è troppo depresso per perseverare in ciò che avete deciso» (II 61. 2). Infatti -continua Pericle- «ciò che è improvviso, inaspettato, e che accade in modo maggiormente contrario ai calcoli rende schiavo lo spirito fiducioso: è quello che è successo a noi, oltre che nelle vicende, soprattutto nel caso della peste» (II 61. 3). Occorre dunque essere preparati a sopportare anche le sventure più grandi: «dovete cessare di affliggervi per le sventure personali, e prendervi cura della salvezza della comunità» (II 61. 4).

 

Pericle incita poi gli Ateniesi a incrementare la loro potenza navale: «Voi credete di aver il dominio solo sui vostri alleati, ma io vi rivelo che delle due parti del mondo aperte allo sfruttamento dell’uomo, la terra e il mare, voi siete signori assoluti di tutta la seconda, sia nell’estensione del mare che ora controllate, sia nelle zone che vorrete aggiungere al vostro dominio. E non esiste nessuno, né il re né alcun popolo tra quelli dei nostri tempi, che vi impedirà di navigare con le forze navali di cui attualmente disponete» (II 62. 2).

 

Di qui l’esortazione: «[…] E dovete mostrarvi non inferiori ai vostri padri sotto entrambi gli aspetti: essi infatti con le loro fatiche, e senza averli ricevuti da altri, conquistarono questi possedimenti e, inoltre, conservandoli li consegnarono a voi (ed è più vergognoso lasciarsi togliere ciò che uno ha già che fallire nel tentativo di impadronirsi di qualcosa). Dovete andare ad affrontare il nemico non solo con senso di fiducia, ma con senso di superiorità» (II 62. 3).

 

Si tratta di un evidente richiamo al conflitto nella certezza della propria potenza: «Infatti la baldanza boriosa può anche nascere da un’ignoranza basata sulla fortuna, e anche in un vigliacco, ma il disprezzo nasce in chi è sicuro in base alla ragione di esser superiore sugli avversari, cosa che si verifica in noi. E quando la fortuna è eguale a quella del nemico, l’intelligenza basata su un senso di superiorità rende l’ardimento più sicuro e pone minor fiducia nella speranza, la cui forza si manifesta nei momenti difficili; si fonda invece sul giudizio circa i mezzi che sono a disposizione, giudizio che permette previsioni più sicure» (II 62. 4-5). In sintesi, occorre far risorgere il proprio onore tenendo presente che non si combatte soltanto per la libertà o per la schiavitù, ma anche per evitare la perdita dell’impero (II 63. 1).

 

Pericle considera l’epidemia di peste un evento voluto dagli dèi: «Ma voi non lasciatevi ingannare da cittadini come questi, né siate adirati con me, a cui voi stessi vi siete associati nella decisione di entrare in guerra -anche se gli avversari, invadendo la vostra terra, hanno fatto ciò che era naturale che facessero, dal momento che voi non eravate disposti a obbedire alle loro richieste, e anche se si è aggiunta, al di là delle nostre previsioni, questa epidemia, che di tutto ciò che è avvenuto è proprio l’unica cosa maggiore di quel che ci aspettavamo. So che a causa di essa sono odiato ben più che per gli altri motivi, ma ingiustamente, a meno che non attribuiate a me anche i casi in cui avrete successo contro i vostri calcoli. Ma bisogna sopportare come necessarie le cose che provengono dagli dèi e con coraggio quelle che vengono dai nemici: tale era l’abitudine di questa città nel passato, e ora bisogna che voi impediate che essa continui» (II 64. 1-2). Si tratta di un evento determinato dal destino, non prevedibile, e di cui pertanto non può essere considerato responsabile.

 

Segue un ulteriore richiamo alla potenza di Atene che si configura quale strumento di esortazione: «Sappiate che la città gode della più grande fama tra tutti gli uomini per il fatto che non cede alle sventure, e per aver offerto nel corso delle guerre il maggior numero di vite e di fatiche; che essa ha conseguito la più grande potenza conquistata fino ad ora, di cui sarà lasciata per sempre la memoria ai posteri, anche se ora dovessimo eventualmente cedere un po’ (tutte le cose hanno per natura la tendenza al declino); si ricorderà che tra i Greci noi siamo quelli che abbiamo avuto il dominio sul maggior numero di Greci, che abbiamo combattuto nelle guerre più grandi, abbiamo resistito ai Greci tutti insieme e alle forze delle singole città, e che abbiamo abitato la città più abbondantemente fornita di tutti i beni e più grande» (II 64. 3).

 

Pericle parla di fronte a una popolazione stremata dall’epidemia e dalle devastazioni. E di questo è ben consapevole. Con l’abilità che è propria dei grandi leaders ripercorre il proprio operato politico al fine di giustificare le scelte operate. Dopo aver tentato di squarciare le ombre sul suo governo, esorta gli Ateniesi a non vanificare l’impegno profuso nei primi anni del conflitto. Giunge quindi a individuare nella guerra, nelle devastazioni e nella peste l’origine della crisi che si è abbattuta su Atene. Tale analisi risulta necessaria per allontanare da sé ogni responsabilità. D’altra parte, come afferma lo stratega, la scelta di intraprendere la guerra contro gli Spartani era stata approvata e sostenuta da tutti gli Ateniesi.

 

Da ultimo, cerca di motivare i suoi concittadini evocando la magnitudo di Atene, il suo ineguagliabile dominio sui mari, non affatto scalfito dalle devastazioni. Nel complesso si tratta di un discorso sapientemente costruito, efficace e vincente. Come spiega Tucidide, gli Ateniesi, pur imponendo una considerevole multa, si lasciarono persuadere dalle parole del loro primo cittadino, che l’anno seguente venne rieletto stratega. Essi infatti lo reputavano «l’uomo più prezioso per quelli che erano i bisogni della città nel suo insieme» (II 65. 4). Era questo l’estremo tentativo di affidarsi all’uomo che grazie a lungimiranza, intelligenza, integrità, prestigio sociale, abilità oratoria e fascino era riuscito a trattenere il potere per trent’anni.

 

Un’epoca, nell’immagine di Tucidide, irripetibile e perfetta. Un estremo tentativo vanificato tuttavia dalla prematura scomparsa di Pericle pochi mesi dopo la rielezione a stratega: «Sopravvisse due anni e sei mesi all’inizio della guerra; e dopo che morì, la sua capacità di previsione riguardo alla guerra fu riconosciuta molto di più. Aveva detto infatti che se gli Ateniesi fossero rimasti tranquilli e si fossero curati della flotta, se non avessero accresciuto l’impero nel corso della guerra e non avessero fatto correre rischi alla città, avrebbero avuto la meglio. Ma essi fecero il contrario di tutte queste cose […]» (II 65. 6-7).

 

Sul filo di questa direttrice, è lecito interrogarsi su quale sarebbe stato l’esito della guerra del Peloponneso se Pericle fosse rimasto in vita.

Un esito che, con ogni probabilità, sarebbe stato differente.



 

 

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