N. 115 - Luglio 2017
(CXLVI)
Il nonno e il nipote
gli ultimi anni di Trotsky
di Gaetano Cellura
“Ha
dedicato
la
vita
alle
sue
idee
e a
metterle
in
pratica”
afferma
Esteban
Volkov,
nipote
ottantaseienne
di
Trotsky,
che
ci
racconta
i
fatti
tragici
del
20
agosto
1940.
Aveva
quattordici
anni,
tornò
a
casa
dalla
scuola
e
trovò
il
nonno
Leone
Trotsky
ferito
a
morte.
L’assassino,
costretto
in
un
angolo
e
picchiato
dalla
polizia,
l’aveva
ammazzato
a
colpi
di
piccozza
alla
testa
mentre
gli
dava
le
spalle,
intento
a
leggere
il
giornale.
Il
fondatore
dell’Armata
Rossa
si
trovava
da
tre
anni
a
Città
del
Messico
dopo
un
decennio
di
peregrinazioni
per
l’Europa,
sempre
inseguito
dai
sicari
di
Stalin.
Vi
era
giunto
da
sconfitto
e si
apprestava
a
vivere
il
capitolo
conclusivo
della
sua
vita,
aveva
perso
sul
piano
politico
–
infatti
non
lui,
ma
Stalin
dirigeva
il
corso
del
socialismo
in
Urss
– e
aveva
perso
pure
i
suoi
quattro
figli. Trotsky
era
un
uomo
solo.
Aveva
trovato
asilo
nel
grande
paese
centramericano
perché
vi
era
in
carica
il
governo
post-rivoluzionario
di
Lázaro
Cárdenas.
Poteva
godere
di
una
casa
con
un
bel
giardino,
ma
vi
viveva
nel
modo
più
semplice:
alzandosi
presto
la
mattina
e
dando
da
mangiare
a
galline
e
conigli,
giocando
a
scacchi
con
Esteban.
Il
resto
del
tempo
libero
lo
passava
al
cinema
o a
raccogliere
cactus
in
campagna.
Lavorava
dietro
cospicuo
compenso
a
una
biografia
di
Stalin,
che
lo
considerava
come
il
peggior
nemico.
A
Città
del
Messico
divideva
la
casa
con
la
seconda
moglie
Natalia
Sedova,
con
il
nipote
appunto
e
con
quella
che
chiamava
“una
grande
famiglia”:
sette
segretari
e
numerose
guardie.
Tre
mesi
prima
di
essere
ucciso,
Trotsky
era
scampato
a un
altro
attentato
ad
opera
dello
stalinista
messicano
Davide
Alfaro
Siqueiros,
uno
dei
pittori
di
quel
Messico
fiorito
e
spinoso
di
cui
parla
Pablo
Neruda
nella
sua
autobiografia,
come
José
Clemente
Orozco
e
Diego
Rivera.
Volkov
fu
testimone
di
quell’attentato.
Si
rannicchiò
dietro
il
suo
letto
e
vide
i
proiettili
volare
“da
tre
lati”
nella
stanza,
mentre
il
nonno
in
un
angolo
della
camera
accanto
veniva
protetto
dalla
moglie
che
gli
faceva
scudo
con
il
proprio
corpo.
Trotsky,
secondo
il
racconto
del
nipote,
rimase
di
buon
umore
e
pieno
d’energia,
sempre
piena
la
sua
fiducia
nell’inevitabilità
del
socialismo,
nonostante
fosse
certo
di
un
prossimo
attacco.
Ma
non
poteva
immaginare
che
sarebbe
venuto
da
uno
del
“cerchio
interno”
dei
suoi
uomini
di
fiducia.
Ramón
Mercader,
il
suo
assassino,
l’uomo
che
Volkov
al
ritorno
dalla
scuola
vede
picchiato
dalla
polizia
messicana,
si
era
spacciato
per
un
trotskista
canadese
sotto
il
nome
di
Frank
Jackson.
In
realtà
era
un
agente
segreto
spagnolo
naturalizzato
sovietico
cui
Trotsky
dava
piena
fiducia.
Il
teorico
della
rivoluzione
permanente,
l’uomo
designato
da
Lenin
come
uno
dei
suoi
possibili
successori,
la
penna
più
brillante
della
rivoluzione
e
dell’opposizione
a
Stalin,
muore
in
ospedale
il
giorno
dopo
e
centomila
persone
rendono
omaggio
al
suo
funerale
organizzato
dal
governo
messicano.
Condannato
a
venti
anni,
Mercader
dice
durante
il
processo:
“Con
la
piccozza
nascosta
nella
tasca
del
mio
impermeabile,
decisi
di
non
mancare
la
meravigliosa
opportunità
che
si
presentava”.
Trotsky
tenne
sempre
fuori
il
nipote
dalle
discussioni
politiche:
costretto
all’esilio
anche
lui
aveva
già
pagato
troppo
per
colpe
non
sue.
Esteban
Volkov
era
figlio
di
Zinaida,
la
sua
primogenita,
morta
suicida
a
Berlino
nel
1933
a
trentadue
anni
perché
malata
ed
esiliata
dall’Urss.
Quello
stesso
anno
Georges
Simenon
viene
inviato
dal
Paris-Soir
a
Prinkipo,
l’isola
turca
dove
allora
Trotsky
si
trova
esiliato.
Esteban
vive
con
lui
sino
alla
fine
del
1932,
quando
prova
disperatamente
a
raggiungere
la
madre
a
Berlino.
Ha
solo
sei
anni
e
vive
l’impatto
con
un’Europa
che,
giunto
Hitler
al
potere,
si
appresta
a
chiudere
tutte
le
sue
porte.
Come
scrive
Maria
Agostinelli
(ne
La
penna
e la
dialettica),
recandosi
a
Prinkipo,
Simenon
ha
“l’opportunità
di
firmare
un
incontro
con
la
Storia”.
Lì,
per
un
momento,
dimentica
il
suo
ruolo
di
cronista,
frastornato
dal
sole,
dal
mare
blu
della
bella
Turchia
dove
“una
riva
si
chiama
Europa
e
l’altra
Asia”.
Poi,
inevitabilmente,
lo
scrittore
passa
alle
domande.
Tre
in
tutto.
Entrambi,
l’intervistatore
e
l’intervistato,
hanno
la
percezione
di
qualcosa
di
tremendo
che
sta
per
abbattersi
sull’Europa.
Alla
prima
domanda
sulla
durata
delle
dittature,
Trotsky
risponde:
“Non
posso
far
mio
un
pronostico
ottimista
sul
loro
carattere
episodico
o
temporaneo.
Il
fascismo
è
provocato
da
una
profonda
crisi
economica
che
impietosamente
corrode
più
d’ogni
altra
il
corpo
sociale
dell’Europa”.
“E
la
democrazia
nulla
può”?
“Non
può
nulla,
perché
la
nostra
epoca
è
così
satura
di
antagonismi
nella
lotta
nazionale
e
sociale,
satura
come
mai
nella
storia,
che
ha
mandato
in
fumo
i
commutatori
e
gli
isolanti
del
sistema
della
democrazia,
che
sotto
i
conflitti
di
classe
nazionali
fondono,
vanno
in
escandescenza”.
“Ci
sarà
una
guerra”?
“La
considero
inevitabile
ad
opera
della
Germania
fascista
–
risponde
Trotsky.
– E
sarà
decisiva
per
le
sorti
dell’Europa.
Ma
non
ho
dubbi
che
alla
fine
l’umanità
troverà
la
propria
strada.
Tutto
il
passato
ne è
garanzia”.
Poco
dopo,
Paris-Soir
avrà
il
suo
scoop:
l’intervista
al
rivoluzionario
marxista
più
amato
e
odiato
in
quel
momento.
Lasciata
la
Turchia,
l’ex
Commissario
del
popolo
prova
a
stabilirsi
in
Francia,
in
Norvegia
e
persino
negli
Stati
Uniti,
ma
Roosevelt
gli
nega
il
visto
d’ingresso.
Che
ottiene
invece
per
il
Messico,
grazie
all’intercessione
di
Diego
Rivera.
E in
Messico
nel
1938
lo
raggiunge
di
nuovo
il
nipote
Esteban
Volkov.
Due
anni
dopo
–
l’Europa
già
in
guerra,
come
aveva
anticipato
a
Simenon
– lo
raggiunge
anche
il
sicario
di
Stalin.