N. 137 - Maggio 2019
(CLXVIII)
L'ULTIMA SFIDA DEI BALCANI
LA (im)possibilità di un accordo
di Fadlon
Mesimi
Dopo
la
soddisfacente
conclusione
dell’accordo
di
Prespa
nel
giugno
2018
tra
la
Macedonia
del
Nord
(FYROM)
e la
Grecia
riguardo
alla
lunga
disputa
sull’utilizzo
ufficiale
del
nome
“Macedonia”,
nei
Balcani
si
delinea
un
contenzioso
di
più
difficile
risoluzione
tra
la
Serbia
e il
Kosovo.
I
due
Stati
non
si
riconoscono
reciprocamente,
ma
la
Serbia
considera
il
Kosovo
non
come
uno
Stato
indipendente,
ma
ancora
come
una
regione
appartenente
al
territorio
serbo,
nonostante
dal
2008
centoundici
Stati
membri
dell'ONU
riconoscano
formalmente
il
Kosovo
come
uno
Stato
sovrano.
Entrambi
gli
Stati
aspirano
a
diventare
membri
dell’Unione
Europea.
Nel
2011
furono
avviati
una
serie
di
negoziati
tecnici
a
Bruxelles,
che
hanno
portato
nell’aprile
del
2013
alla
stipula
di
un
accordo
con
la
mediazione
dell’UE,
coordinata
da
Catherine
Ashton,
l’allora
Alto
rappresentante
dell'Unione
per
gli
affari
esteri
e la
politica
di
sicurezza.
In
quell’occasione
il
Kosovo
partecipò
ai
negoziati
con
l’intento
di
ottenere
il
riconoscimento
da
parte
della
Serbia,
che
non
arrivò.
Furono
invece
firmati
una
serie
di
accordi,
tra
cui
l’accordo
centroeuropeo
di
libero
scambio,
conosciuto
con
l’acronimo
inglese
CEFTA,
che
per
il
Kosovo
fu
firmato
dall’UNMIK,
l’amministrazione
ad
interim
dell’ONU.
In
quell’occasione
la
Serbia
promise
di
impegnarsi,
almeno
a
parole,
a
non
ostacolare
la
strada
del
Kosovo
per
l’ingresso
nelle
organizzazioni
internazionali.
A
quel
momento
di
distensione
tra
Serbia
e
Kosovo
seguì,
però,
il
primo
fallimentare
tentativo
del
Kosovo
di
entrare
a
far
parte
dell’Interpol
nel
2015.
Divenire
membro
a
pieno
titolo
dell’Interpol
avrebbe
permesso
al
Kosovo
di
utilizzare
delle
“red
notice”,
o
avvisi
rossi,
ai
danni
dei
funzionari
e
dei
militari
serbi,
considerati
in
Kosovo
come
criminali
di
guerra
per
le
azioni
compiute
durante
la
guerra
del
1998-1999.
Questi
“cartellini
rossi”,
diversi
dai
mandati
d’arresto
internazionali,
sono
inviati
dall’Interpol,
su
richiesta
di
uno
Stato
membro
e in
conformità
dello
Statuto
e
del
Regolamento
interni,
alle
forze
dell'ordine
in
tutto
il
mondo
per
localizzare
e
arrestare
provvisoriamente
una
persona
in
attesa
di
estradizione,
consegna
o
azione
legale
simile.
Il
rigetto
da
parte
dell’Organizzazione
internazionale
della
polizia
criminale
della
candidatura
del
Kosovo
fu
accolto
con
giubilo
da
parte
della
diplomazia
serba,
che
si
era
chiaramente
adoperata
per
ostacolare
il
successo
dell’impresa.
La
normalizzazione
delle
relazioni
tra
le
due
parti
subì,
così,
di
nuovo
una
battuta
d’arresto.
La
candidatura
del
Kosovo
per
l’Interpol
fu
bocciata
ancora
nel
2016
e,
più
di
recente,
nel
novembre
del
2018.
Come
immediata
conseguenza
del
terzo
rifiuto
da
parte
dell’Interpol
alla
candidatura
di
Pristina,
il
governo
kosovaro
ha
imposto
dei
dazi
doganali
sulle
merci
importate
dalla
Serbia.
Inizialmente
fissati
al
25%,
i
dazi
sono
stati
fatti
poi
lievitare
al
100%
alla
fine
del
2018.
Le
stime
per
l’import
dalla
Serbia
per
il
2019
sono
state
previste
in
circa
500
milioni
di
euro,
pertanto
la
decisione
di
imporre
i
dazi
doganali
da
parte
del
governo
kosovaro
ha
avuto
come
ripercussione
sui
rapporti
diplomatici
tra
i
due
Paesi
il
totale
congelamento
dei
negoziati.
Ciononostante,
dietro
le
quinte,
si
muove
qualcos’altro,
un
motivo
più
complesso,
che
ha
spinto
il
governo
guidato
da
Ramush
Haradinaj
all’imposizione
di
dazi,
introdotti
intenzionalmente
per
bloccare
dei
negoziati
considerati
dal
premier
kosovaro
pericolosi.
Il
premier
kosovaro
non
ritiene,
infatti,
la
mediazione
di
Federica
Mogherini
“equilibrata”,
in
quanto
a
Bruxelles
è
stata
considerata
in
modo
positivo
la
proposta
avanzata
da
Aleksandar
Vučić,
il
presidente
della
Serbia,
denominata
“demarcazione
dei
confini”.
La
proposta
serba
è
causa,
inoltre,
di
dissidi
interni
in
Kosovo,
perché
è
stata
accolta
con
favore
dal
presidente
Hashim
Thaçi,
che
la
considera
una
soluzione
“innovativa”
per
risolvere
la
disputa,
ma è
stata
criticata
in
modo
aspro
dal
premier
Haradinaj,
che
la
ritiene,
al
contrario,
inaccettabile.
Haradinaj
avrebbe
intravisto
nella
proposta
di
Vučić
un
mero
scambio
di
territori:
il
Nord
del
Kosovo,
abitato
a
maggioranza
serba,
dovrebbe
passare
alla
Serbia
in
cambio
della
Valle
di
Preševo,
zona
a
maggioranza
albanese.
Il
vertice
di
Berlino,
che
si è
tenuto
ad
aprile
scorso,
ha
rappresentato
un
importante
appuntamento
e
un’opportunità
per
entrambe
le
parti,
al
fine
di
rilanciare
i
negoziati,
ma
tutt’ora
la
situazione
risulta
in
stallo,
o
almeno
resterà
invariata
fino
al
prossimo
vertice
di
Parigi,
dove
i
leader
si
avranno
l’opportunità
di
incontrarsi
di
nuovo.
Nel
caso
di
un
scambio
di
territori,
in
cui
i
nuovi
confini
sarebbero
tracciati
secondo
un
principio
etnico,
per
la
Serbia
si
tratterebbe
di
una
rivincita,
poiché
otterrebbe
così
le
miniere
di
Trepça,
situate
nell’odierno
Kosovo
settentrionale,
e
risolverebbe
il
problema
chiamato
Kosovo,
ostacolo
per
i
negoziati
avviati
con
l’UE
per
diventare
cosi
membro.
Per
il
Kosovo,
invece,
con
uno
Stato
formato
su
base
multietnica,
anche
per
via
della
minoranza
serba,
non
ci
sarebbero
più
alibi
per
una
possibile
unificazione
con
l’Albania,
unificazione
che
Edi
Rama,
il
premier
albanese,
aveva
già
accennato
in
precedenza
come
possibile
percorso
in
mancanza
di
una
prospettiva
certa
per
l’ingresso
nell’UE
dei
Paesi
balcanici.
Con
questa
“soluzione”,
il
Kosovo
rinuncerebbe,
però,
a
diventare
membro
delle
Nazioni
Unite,
dove
la
sua
candidatura
probabilmente
si
scontrerebbe
di
nuovo
con
il
veto
russo-cinese,
considerato
che
Cina
e
Russia
non
accetterebbero
uno
Stato
membro
delle
Nazioni
Unite
in
totale
assenso
con
gli
USA.
Una
soluzione
certamente
interessante,
se
non
fosse
pericolosa,
per
il
fatto
che
ogni
volta
che
in
passato
si è
provato
a
modificare
confini
nei
Balcani,
c’è
sempre
stato
uno
spargimento
di
sangue,
come
ha
ribadito
in
differenti
occasioni
il
premier
kosovaro,
ex
membro
dell’UÇK,
Haradinaj.