[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

188 / AGOSTO 2023 (CCXIX)


contemporanea

Ulrike Meinhof e la tragedia della mente
Una vita all’insegna delle separazioni

di Alessio Guglielmini

 

Silenziosa ma eloquente, riflessiva, isolata, inevitabilmente enigmatica. La personalità di Ulrike Meinhof è stata spesso dipinta attraverso questi aggettivi, come se la sigla “Baader-Meinhof”, oltre a identificare il nucleo portante della Rote Armee Fraktion, potesse restituire una coppia perfetta di opposti, con Andreas Baader a inquadrare il risoluto uomo d’azione e la Meinhof intrappolata per sempre nel ruolo della “mente”, dell’arma cerebrale.

 

È sintomatico che proprio quel cervello militante avesse tradito Ulrike, fin dal 1962, mentre aspettava le sue gemelle. Le violenti emicranie e i disturbi della vista, inizialmente attribuiti a un tumore, furono ricondotti a un ematoma che non fu rimosso, bensì stretto in una graffa d’argento, come scrive il giornalista Stefan Aust, principale biografo della Raf, nel suo minuzioso Rote ArmeeFraktion. Il Caso Baader-Meinhof.

 

Erika Runge, attiva insieme a Ulrike nei fermenti studenteschi antinucleari degli anni Cinquanta e ascoltata da Shane O’Sullivan nel documentario Children of the Revolution (2010), ha ipotizzato che proprio quella placca di metallo, e la persistente irritazione al cervello, abbia potuto influire sui comportamenti di Ulrike. A conclusioni analoghe giunse il professore Jürgen Pfeiffer, anch’esso apparso nel documentario di O’Sullivan, che esaminò il cervello della Meinhof dopo il suo decesso, segnalando la presenza di danni che sarebbero stati alla base delle sue alterazioni psicologiche. Il trauma del 1962 aprì il varco a un destino tragico.

 

La transizione dalla militanza concettuale al terrorismo viene esemplificata da un altro bivio, da un salto fisico che assume tutti i connotati del salto simbolico. Il 14 maggio 1970 Ulrike venne coinvolta nella liberazione di Baader, che due anni prima era stato arrestato, insieme a Gudrun Ensslin, in seguito all’incendio dei grandi magazzini di Francoforte. Non era previsto che la Meinhof scappasse insieme a Baader, mentre doveva fungere da esca. Con il pretesto di scrivere un libro a quattro mani sugli adolescenti disadattati, Baader era stato condotto all’Istituto per le problematiche sociali a Dahlem: la Meinhof aveva fornito l’occasione, ma dopo la sparatoria che si era scatenata sul posto si era unita ai fuggiaschi, saltando dalla finestra.

 

Quella finestra rappresenta la cesura più eclatante tra la carriera, militante ma legale, e il passaggio alla clandestinità criminale della Meinhof. Segnali di questa rottura sono tuttavia rinvenibili nelle scelte precedenti. Già nel 1968 era avvenuta la separazione da Klaus Rainer Rohl, editore di Konkret presso cui Ulrike era caporedattrice.La separazione non era solo sentimentale, ma anche ideologica. Il 5 maggio 1969 Ulrike appoggiò un’azione di sabotaggio verso la rivista, ormai troppo distante dalle posizioni della sinistra radicale, in seguito all’impronta commerciale che Rohl aveva impresso al progetto per garantirne la sopravvivenza dopo che la DDR aveva smesso di finanziarlo.

 

Ulrike portò con sé le bambine da Amburgo a Berlino. La casa di Schoneberg divenne la sede di un fermento vitale difficile da contenere. A quella porta bussarono anche la Ensslin e Baader, che si erano dati alla clandestinità dopo che la Corte federale aveva respinto l’istanza di revisione della sentenza che pendeva su di loro per l’incendio di Francoforte. Come segnalato da Aust, Andreas e Gudrun venivano considerati da Ulrike modelli di coerenza, che avevano accettato le estreme conseguenze della lotta armata, mentre lei permaneva nella comodità borghese.

 

Gudrun confidò a Ulrike di aver abbandonato il figlio, per bruciare ogni contatto con un tipo di esistenza regolare, incompatibile con la missione rivoluzionaria. La confessione era avvenuta durante un trip di LSD, a cui Ulrike aveva acconsentito, dopo parecchie esitazioni, considerate le delicate esperienze a cui il suo cervello era già stato sottoposto. Qualcosa evidentemente si mosse nella sua testa, dal momento che poco dopo si ritrovò lei stessa ad abbandonare le figlie.

 

Proprio le due figlie, “gemelle diverse”, sono come lo specchio dell’ambivalenza che attraversava Ulrike in quella stagione della sua vita. Le piccole Regine e Bettina sono state interpretate da Jutta Lack-Strecker, un’altra testimone intercettata da O’Sullivan, come figure complementari: Regine era molto gentile e affettuosa, mentre Bettina poteva essere molto combattiva, quasi furiosa in certe manifestazioni. Ciò che avveniva, distintamente, nelle gemelle si verificava indistintamente nella madre.

 

Bettina Rohl, una delle due “Children of the Revolution” a cui fa riferimento il titolo del documentario di O’Sullivan (2010) (l’altra è Mei Shigenobu, figlia della rivoluzionaria Fusako), ha rievocato il febbrile periodo berlinese. Ulrike, affermata giornalista per la TV, viveva di fatto una doppia esistenza, foraggiata da un sistema borghese che le garantiva un ampio appartamento a Berlino ma sedotta al contempo da uno stile di vita da outsider, ossessivamente dedicato alla produzione, tra centinaia di sigarette e caffè, notti insonni e incontri con persone proibite che la esponevano irrimediabilmente sull’altra sponda della barricata.

 

L’arresto di Baader, dopo il soggiorno in casa della Meinhof, e la sua successiva liberazione a Dahlem portarono alle estreme conseguenze le profonde ferite che si erano aperte nell’esperienza psicologica e ideologica di Ulrike. La nuova carriera terroristica non consentì tuttavia alla Meinhof di individuare un’aperta collocazione.

 

Poco dopo quel salto dalla finestra Ulrike si ritrovò in un campo di addestramento di al-Fatah in Giordania. Un episodio registrato da Aust (Aust 2009, p. 98) è sintomatico dell’inadeguatezza rispetto a quel genere di avventure: «Un giorno Ulrike Meinhof ricevette una Stielhandgranate russa, la cosiddetta “schiacciapatate”. L’istruttore le mostrò come svitare la capsula per tirare l’anello sottostante. Ulrike tirò e la granata iniziò piano piano a sibilare, emettendo un fumo denso. Invece di lanciarla, la donna la fissò e chiese: “E ora che devo fare?”».

 

Baader non mancò di rimproverarle, con parole offensive,la distanza dall’azione propriamente tale, relegando Ulrike in quell’angolo borghese e intellettuale da cui aveva provato a prendere le distanze con il provvidenziale balzo di Dahlem. Qualche anno più tardi, durante la tribolata detenzione a Stammheime dopo che il gruppo era stato assicurato alla giustizia, l’ambiguità della posizione di Ulrike continuava a presentarsi come irrisolta.

 

Dalle pagine di Aust emerge che la Esslin la incitava a perseverare nel progetto di “Bassa”, ossia in gergo l’opera fondamentale sulla Raf a cui la Meinhof stava lavorando: «Tutti sanno (a parte te, naturalmente) che la voce della Raf sei stata, sei e sarai tu». La voce teorica del movimento era tuttavia in preda a un cortocircuito.

 

Sempre Aust ha registrato l’amara confessione di Ulrike in quello stesso periodo (Aust 2009, p. 252): «La cosa essenziale, e cioè che il mio rapporto disturbato con voi e, soprattutto, con Andreas dipenderebbe dal fatto che non sono pervasa dalla violenza rivoluzionaria, era semplicemente un luogo comune buttato lì senza vergogna rispetto a quel che conta per me: il mio relazionarmi con l’individuo fascista attraverso il sadismo e la religione mi ha raggiunto fin qua, perché non ho mai troncato, non ho mai soffocato completamente dentro di me la relazione con la classe dominante, l’idea che, un tempo, ne ero la beniamina […] Ma nel mio delirio la cosa peggiore […] è che mi sono rapportata con la Raf, esattamente come con la classe dominante: da leccaculo; trattarvi cioè da sbirri significa semplicemente che sono io – e da un bel pezzo – uno sbirro, all’interno del meccanismo psicologico dell’imposizione e della sottomissione, della paura e dell’aggrapparsi alle regole».

 

Baader sottoscrisse questa autocritica che riassumeva l’eterna separazione/scissione che esiliava Ulrike in una posizione equidistante dal regime borghese, da una parte, e dai suoi compagni d’armi, dall’altra. Eppure, la Meinhof aveva sacrificato molto di più sull’altare della causa anarchica: la sicurezza economica, una carriera avviata, case confortevoli, l’amore per le due figlie. Benché, in seguito al suo abbandono, Bettina e Regine fossero finite in Sicilia, in un villaggio di hippy, con il rischio di essere trasferite loro stesse in Giordania, nel 1972 l’ex marito Klaus Rohl accompagnò le due gemelle a visitare la madre in carcere. Per qualche tempo i rapporti tornarono a essere più aperti e confidenziali. Si trattò di una parentesi, come ha ricordato Bettina in Children of the Revolution. Nel giro di poco, e a maggior ragione dopo il trasferimento a Stammheim, Ulrike tornò a scegliere l’isolamento affettivo.

 

Dopo l’arresto del 1972, mentre era reclusa nel “braccio morto” del penitenziario di Ossendorf, aveva scritto queste parole riportate da Aust (Aust 2009, p. 224): «La sensazione che ti scoppi la testa. La sensazione che la calotta cranica debba spaccarsi sul serio, saltar via. La sensazione che ti stiano spingendo il midollo spinale nel cervello…».

 

Il suo cervello era stato sempre l’ambasciatore di un destino. Aveva reso Ulrike un’intellettuale acuta, una giornalista di successo; l’aveva tradita, con l’ematoma curato malamente nel 1962; ne aveva infine suggellato l’incarcerazione: la radiografia alla testa confermò che la donna fermata il 15 giugno 1972, nei pressi di Hannover, aveva un fermaglio d’argento installato nel cervello. Era la prova inequivocabile che si trattava di Ulrike Meinhof.

 

Quel cervello ferito, come raccontato da Bettina in Children of the Revolution, sarebbe stato trafugato dopo la morte di Ulrike e restituito alla famiglia solo nel 2002, dopo anni di ispezioni non autorizzate atte a stabilire clinicamente le lesioni e i traumi che avrebbero determinato le scelte estreme di Ulrike. L’ulteriore calvario di una mente che, già durante la sua vita, aveva faticato a trovare il suo posto nel mondo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

S. Aust, Rote Armee Fraktion. Il caso Baader-Meinhof, il Saggiatore, Milano 2009.  

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]