contemporanea
Ulrike Meinhof e la tragedia della mente
Una vita all’insegna delle separazioni
di Alessio Guglielmini
Silenziosa ma eloquente, riflessiva, isolata,
inevitabilmente enigmatica. La personalità di Ulrike
Meinhof è stata spesso dipinta attraverso questi
aggettivi, come se la sigla “Baader-Meinhof”, oltre
a identificare il nucleo portante della Rote Armee
Fraktion, potesse restituire una coppia perfetta di
opposti, con Andreas Baader a inquadrare il risoluto
uomo d’azione e la Meinhof intrappolata per sempre
nel ruolo della “mente”, dell’arma cerebrale.
È sintomatico che proprio quel cervello militante
avesse tradito Ulrike, fin dal 1962, mentre
aspettava le sue gemelle. Le violenti emicranie e i
disturbi della vista, inizialmente attribuiti a un
tumore, furono ricondotti a un ematoma che non fu
rimosso, bensì stretto in una graffa d’argento, come
scrive il giornalista Stefan Aust, principale
biografo della Raf, nel suo minuzioso
Rote
ArmeeFraktion. Il Caso Baader-Meinhof.
Erika Runge, attiva insieme a Ulrike nei fermenti
studenteschi antinucleari degli anni Cinquanta e
ascoltata da Shane O’Sullivan nel documentario
Children of the Revolution
(2010), ha ipotizzato che proprio quella placca di
metallo, e la persistente irritazione al cervello,
abbia potuto influire sui comportamenti di Ulrike. A
conclusioni analoghe giunse il professore Jürgen
Pfeiffer, anch’esso apparso nel documentario di O’Sullivan,
che esaminò il cervello della Meinhof dopo il suo
decesso, segnalando la presenza di danni che
sarebbero stati alla base delle sue alterazioni
psicologiche. Il trauma del 1962 aprì il varco a un
destino tragico.
La transizione dalla militanza concettuale al
terrorismo viene esemplificata da un altro bivio, da
un salto fisico che assume tutti i connotati del
salto simbolico. Il 14 maggio 1970 Ulrike venne
coinvolta nella liberazione di Baader, che due anni
prima era stato arrestato, insieme a Gudrun Ensslin,
in seguito all’incendio dei grandi magazzini di
Francoforte. Non era previsto che la Meinhof
scappasse insieme a Baader, mentre doveva fungere da
esca. Con il pretesto di scrivere un libro a quattro
mani sugli adolescenti disadattati, Baader era stato
condotto all’Istituto per le problematiche sociali a
Dahlem: la Meinhof aveva fornito l’occasione, ma
dopo la sparatoria che si era scatenata sul posto si
era unita ai fuggiaschi, saltando dalla finestra.
Quella finestra rappresenta la cesura più eclatante
tra la carriera, militante ma legale, e il passaggio
alla clandestinità criminale della Meinhof. Segnali
di questa rottura sono tuttavia rinvenibili nelle
scelte precedenti. Già nel 1968 era avvenuta la
separazione da Klaus Rainer Rohl, editore di
Konkret
presso cui Ulrike era caporedattrice.La separazione
non era solo sentimentale, ma anche ideologica. Il 5
maggio 1969 Ulrike appoggiò un’azione di sabotaggio
verso la rivista, ormai troppo distante dalle
posizioni della sinistra radicale, in seguito
all’impronta commerciale che Rohl aveva impresso al
progetto per garantirne la sopravvivenza dopo che la
DDR aveva smesso di finanziarlo.
Ulrike portò con sé le bambine da Amburgo a Berlino.
La casa di Schoneberg divenne la sede di un fermento
vitale difficile da contenere. A quella porta
bussarono anche la Ensslin e Baader, che si erano
dati alla clandestinità dopo che la Corte federale
aveva respinto l’istanza di revisione della sentenza
che pendeva su di loro per l’incendio di
Francoforte. Come segnalato da Aust, Andreas e
Gudrun venivano considerati da Ulrike modelli di
coerenza, che avevano accettato le estreme
conseguenze della lotta armata, mentre lei permaneva
nella comodità borghese.
Gudrun confidò a Ulrike di aver abbandonato il
figlio, per bruciare ogni contatto con un tipo di
esistenza regolare, incompatibile con la missione
rivoluzionaria. La confessione era avvenuta durante
un trip di LSD, a cui Ulrike aveva acconsentito,
dopo parecchie esitazioni, considerate le delicate
esperienze a cui il suo cervello era già stato
sottoposto. Qualcosa evidentemente si mosse nella
sua testa, dal momento che poco dopo si ritrovò lei
stessa ad abbandonare le figlie.
Proprio le due figlie, “gemelle diverse”, sono come
lo specchio dell’ambivalenza che attraversava Ulrike
in quella stagione della sua vita. Le piccole Regine
e Bettina sono state interpretate da Jutta
Lack-Strecker, un’altra testimone intercettata da O’Sullivan,
come figure complementari: Regine era molto gentile
e affettuosa, mentre Bettina poteva essere molto
combattiva, quasi furiosa in certe manifestazioni.
Ciò che avveniva, distintamente, nelle gemelle si
verificava indistintamente nella madre.
Bettina Rohl,
una delle due “Children of the Revolution” a cui fa
riferimento il titolo del documentario di O’Sullivan
(2010) (l’altra è Mei Shigenobu, figlia della
rivoluzionaria Fusako), ha rievocato il febbrile
periodo berlinese. Ulrike, affermata giornalista per
la TV, viveva di fatto una doppia esistenza,
foraggiata da un sistema borghese che le garantiva
un ampio appartamento a Berlino ma sedotta al
contempo da uno stile di vita da outsider,
ossessivamente dedicato alla produzione, tra
centinaia di sigarette e caffè, notti insonni e
incontri con persone proibite che la esponevano
irrimediabilmente sull’altra sponda della barricata.
L’arresto di Baader, dopo il soggiorno in casa della
Meinhof, e la sua successiva liberazione a Dahlem
portarono alle estreme conseguenze le profonde
ferite che si erano aperte nell’esperienza
psicologica e ideologica di Ulrike. La nuova
carriera terroristica non consentì tuttavia alla
Meinhof di individuare un’aperta collocazione.
Poco dopo quel salto dalla finestra Ulrike si
ritrovò in un campo di addestramento di al-Fatah in
Giordania. Un episodio registrato da Aust (Aust
2009, p. 98) è sintomatico dell’inadeguatezza
rispetto a quel genere di avventure: «Un giorno
Ulrike Meinhof ricevette una Stielhandgranate russa,
la cosiddetta “schiacciapatate”. L’istruttore le
mostrò come svitare la capsula per tirare l’anello
sottostante. Ulrike tirò e la granata iniziò piano
piano a sibilare, emettendo un fumo denso. Invece di
lanciarla, la donna la fissò e chiese: “E ora che
devo fare?”».
Baader non mancò di rimproverarle, con parole
offensive,la distanza dall’azione propriamente tale,
relegando Ulrike in quell’angolo borghese e
intellettuale da cui aveva provato a prendere le
distanze con il provvidenziale balzo di Dahlem.
Qualche anno più tardi, durante la tribolata
detenzione a Stammheime dopo che il gruppo era stato
assicurato alla giustizia, l’ambiguità della
posizione di Ulrike continuava a presentarsi come
irrisolta.
Dalle pagine di Aust emerge che la Esslin la
incitava a perseverare nel progetto di “Bassa”,
ossia in gergo l’opera fondamentale sulla Raf a cui
la Meinhof stava lavorando: «Tutti sanno (a parte
te, naturalmente) che la voce della Raf sei stata,
sei e sarai tu». La voce teorica del movimento
era tuttavia in preda a un cortocircuito.
Sempre Aust ha registrato l’amara confessione di
Ulrike in quello stesso periodo (Aust
2009, p. 252): «La cosa essenziale, e cioè che il
mio rapporto disturbato con voi e, soprattutto, con
Andreas dipenderebbe dal fatto che non sono pervasa
dalla violenza rivoluzionaria, era semplicemente un
luogo comune buttato lì senza vergogna rispetto a
quel che conta per me: il mio relazionarmi con
l’individuo fascista attraverso il sadismo e la
religione mi ha raggiunto fin qua, perché non ho mai
troncato, non ho mai soffocato completamente dentro
di me la relazione con la classe dominante, l’idea
che, un tempo, ne ero la beniamina […] Ma nel mio
delirio la cosa peggiore […] è che mi sono
rapportata con la Raf, esattamente come con la
classe dominante: da leccaculo; trattarvi cioè da
sbirri significa semplicemente che sono io – e da un
bel pezzo – uno sbirro, all’interno del meccanismo
psicologico dell’imposizione e della sottomissione,
della paura e dell’aggrapparsi alle regole».
Baader sottoscrisse questa autocritica che
riassumeva l’eterna separazione/scissione che
esiliava Ulrike in una posizione equidistante dal
regime borghese, da una parte, e dai suoi compagni
d’armi, dall’altra. Eppure, la Meinhof aveva
sacrificato molto di più sull’altare della causa
anarchica: la sicurezza economica, una carriera
avviata, case confortevoli, l’amore per le due
figlie. Benché, in seguito al suo abbandono, Bettina
e Regine fossero finite in Sicilia, in un villaggio
di hippy, con il rischio di essere trasferite loro
stesse in Giordania, nel 1972 l’ex marito Klaus Rohl
accompagnò le due gemelle a visitare la madre in
carcere. Per qualche tempo i rapporti tornarono a
essere più aperti e confidenziali. Si trattò di una
parentesi, come ha ricordato Bettina in
Children of the Revolution.
Nel giro di poco, e a maggior ragione dopo il
trasferimento a Stammheim, Ulrike tornò a scegliere
l’isolamento affettivo.
Dopo l’arresto del 1972, mentre era reclusa nel
“braccio morto” del penitenziario di Ossendorf,
aveva scritto queste parole riportate da Aust (Aust
2009, p. 224): «La sensazione che ti scoppi la
testa. La sensazione che la calotta cranica debba
spaccarsi sul serio, saltar via. La sensazione che
ti stiano spingendo il midollo spinale nel cervello…».
Il suo cervello era stato sempre l’ambasciatore di
un destino. Aveva reso Ulrike un’intellettuale
acuta, una giornalista di successo; l’aveva tradita,
con l’ematoma curato malamente nel 1962; ne aveva
infine suggellato l’incarcerazione: la radiografia
alla testa confermò che la donna fermata il 15
giugno 1972, nei pressi di Hannover, aveva un
fermaglio d’argento installato nel cervello. Era la
prova inequivocabile che si trattava di Ulrike
Meinhof.
Quel cervello ferito, come raccontato da Bettina in
Children of the Revolution,
sarebbe stato trafugato dopo la morte di Ulrike e
restituito alla famiglia solo nel 2002, dopo anni di
ispezioni non autorizzate atte a stabilire
clinicamente le lesioni e i traumi che avrebbero
determinato le scelte estreme di Ulrike. L’ulteriore
calvario di una mente che, già durante la sua vita,
aveva faticato a trovare il suo posto nel mondo.
Riferimenti bibliografici:
S. Aust, Rote Armee Fraktion. Il caso
Baader-Meinhof, il Saggiatore, Milano 2009.
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