[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

199 / LUGLIO 2024 (CCXXX)


ambiente

L’ULIVO NEL SALENTO
BREVE STORIA DI UNA FORZA ECONOMICA

di
Raffaele Nuzzo
 

Così come l’olio di gomito che mai deve mancare per facilitare un lavoro, così l’olio d’oliva non deve mancare mai in ogni minestra. Oggi spesso denominato e indicato come “EVO”, acronimo che ne attesta la bassa acidità, quest’olio si ottiene dalla spremitura delle olive, drupe che crescono sull’albero di olivo, altrimenti detto ulivo.

 

Pianta sempreverde, foglie a pagine argentate di sotto e verdi sopra, sopporta climi torridi e siccità, l’olivo non richiede particolari attenzioni e cresce prevalentemente nel “Lauretum”, cioè sulle fasce costiere italiane e comunque a basse altitudini dove il clima è meno rigido.

Questa pianta è celebre nel Salento che ne ospita circa dieci milioni di esemplari, un quarto del totale in Puglia, la regione d’Italia in cui cresce un terzo della superficie coltivata a olivo di tutto il Paese e detentrice del titolo di maggior produttrice d’olio d’oliva.

 

La pianta d’olivo ha un passato antichissimo e deriva dal selvatico “Olivastro” poi nel tempo addomesticato per gli attuali usi comuni. Questa specie arborea è nativa del Medio Oriente e Asia Minore e sono diverse le teorie sul suo ingresso in terra salentina. La prima vedrebbe un trapianto di olivi da parte dei Fenici, popolo contraddistintosi per spiccate doti marinaresche e quindi spesso in navigazione per il bacino del Mediterraneo. Ma la tesi storica più avvalorata rimane quella secondo cui sarebbero stati i Greci a popolare di ulivi quel Salento, loro colonia inclusa in quella macro regione ellenofona chiamata “Magna Grecia”.  A testimonianza di ciò, i “pythos”, dal greco contenitori in ceramica utilizzati per conservare l’olio e ritrovati nell’area salentina.

 

Ovviamente, oltre le piante d’olivo, qui i Greci avrebbero poi esportato anche gli usi dell’olio ricavato dalle olive e che non si limitavano strettamente a quelli alimentari. Infatti veniva adoperato anche per massaggi agli sportivi e nel rito della sepoltura, un ramoscello veniva posto accanto alle spoglie.

 

Terminata l’era greca, il Salento fu poi conquistato dai Romani che erano molto interessati al commercio d’olio d’oliva, già fiorente in quelle epoche e pregiata merce di scambio. Per questo, intensificarono le colture d’ulivo col metodo dei vivai. In sostanza, allevavano le piantine di olivo all’interno di vere e proprie serre per poi selezionare quelle migliori e metterle a dimora nei terreni.

 

Caduto l’Impero Romano, in Puglia come d’altronde nel resto del Paese, iniziarono a susseguirsi una serie di dominazioni straniere. In questo periodo, poco prima dell’anno Mille, sbarcarono sulla penisola salentina i Basiliani, un ordine monastico di provenienza anatolica dedito al culto di icone e immagini sacre e per questo perseguitato dall’iconoclasta Imperatore bizantino Leone III Isaurico.

 

Una volta trovato rifugio, i Basiliani si insediarono proficuamente in quella terra che li accolse, mettendo a disposizione le loro importanti conoscenze in ambito agronomico. Questi monaci erano infatti esperti agricoltori ed erano molto competenti nell’olivicoltura. La novità assoluta che introdussero in Salento e che sarà poi rivoluzionaria per i secoli a venire, fu la tecnica dei “trappeti” o “frantoi ipogei”.

 

Praticamente, erano delle cavità o grotte opportunamente scavate sotto gli oliveti, che permettevano di stipare a condizioni climatiche ottimali le olive raccolte e di lavorarle. Le olive, come anche l’olio, hanno bisogno di essere conservate ad una temperatura che sia compresa tra i 6° e i 16° centigradi. In questa maniera, il prodotto e il raccolto conservano le loro proprietà organolettiche. Un’innovazione che darà ulteriore slancio e legherà fortemente nei secoli a venire l’oliva e l’olio all’economia di questo territorio.

 

Ancora, nel Basso Medioevo, ai tempi della dominazione normanna e bizantina, il mondo conobbe un rilevante cambio climatico con innalzamento delle temperature medie. Per questo motivo, in Salento fu possibile allargare le varietà di coltura e naturalmente anche le superfici coltivabili. Ne conseguì un aumento del bisogno di forza lavoro e pertanto, di pari passo, dell’urbanizzazione dei dintorni e l’estensione di città e paesi. Fu in quel periodo che nacquero le “masserie”, le aziende agricole del tempo che ancora oggi conservano questa definizione, pugliese per antonomasia.

 

In età rinascimentale, negli anni a cavallo tra il 1550 e il 1700, il commercio d’olio d’oliva vive il suo momento di massimo splendore. I porti più importanti in Puglia erano Taranto, Brindisi e Gallipoli. Ma è proprio quello della “Città Bella” ad essere il più attivo, soprattutto perché da qui partono botti su botti d’olio d’oliva destinate ai maggiori centri e capitali d’Europa. Documenti storici raccontano di lunghe fila di navi alla fonda in attesa di entrare nel porto di Gallipoli e caricarsi di oliolampante”.

 

Sì, quell’olio grezzo e acido di cui il Salento vantava il primato europeo di produzione, serviva per accendere i lampioni e illuminare le città. A tale scopo, le banchine del porto di Gallipoli erano dotate di idonee cavità dove depositare e tenere alla giusta temperatura l’olio e tanta era l’importanza di questo commercio che il Vicerè spagnolo (dell’allora Regno di Napoli di cui questi territori facevano parte) ordinò la costruzione di un collegamento diretto tra la Puglia e la capitale Napoli con diramazioni verso Calabria e Abruzzo.

 

Ma l’età d’oro dell’olio salentino non durerà a lungo ed i primi segni di cedimento giungeranno con l’Unità d’Italia. Al “colone”, questo era diventato il contadino, si assegnava terra che, però, spesso era improduttiva e non gli permetteva di sostentarsi e pagare e le nuove tasse sul macinato e l’imposta fondiaria. In un circolo vizioso, alla fine, quella terra veniva comprata dai più ricchi proprietari terrieri.

 

Non andrà assolutamente meglio nei primi del Novecento, quando produzione e commercio dell’olio d’oliva sprofonderanno in una grave crisi tanto che molti oliveti saranno espiantati e riqualificati vigne, per adeguarsi al più redditizio nascente business del vino. A complicare ulteriormente un quadro già penoso, fu la “mosca olearia”, insetto che mandò a rovina ettari ed ettari di raccolto.

 

Non furono d’aiuto neanche i governi in carica che fecero chiudere i frantoi, così in Salento le olive venivano solo raccolte e, non avendo posto idoneo dove conservarle, l’agricoltore era costretto a piazzarle immediatamente sul mercato prima che marcissero e non fossero più vendibili. Qui entrava in gioco la figura del “sensale”, spesso venuto da fuori, che approfittando dell’urgenza di vendere degli olivicoltori salentini, acquistava i raccolti a prezzi irrisori e li trasferiva al Nord, dove invece c’erano i frantoi pronti a lavorarli.

 

Oltre alla scure della “mosca olearia” e della crisi dell’olio, sulle piante d’ulivo si abbatté quella vera dei taglialegna. La resa del settore oleario era arrivata sconvenienza tale che, intorno agli anni venti del secolo scorso, fece mandò letteralmente in fumo gli oliveti trasformandoli in legna da ardere o carboni.

 

Una vera catastrofe, pensando a quante figure professionali ruotavano intorno all’olio d’oliva: bottai che costruivano le botti con legni derivati dai boschi calabresi, esperti potatori e soprattutto frantoiani. Questi ultimi, addetti alla macinatura delle olive, lavoravano nei frantoi o trappeti ininterrottamente per sei mesi circa a turni di 6-12 ore. C’era il “nachiro” o “nostromo” che coordinava le operazioni e la ciurma, proprio come nella tradizione marinaresca. Questi nomi non erano dati a caso, poiché spesso questi lavoratori provenivano dall’ambito marinaresco e si reinventavano frantoiani nei mesi invernali quando era difficile andar per mare.

 

La riforma agraria messa in atto da Mussolini nel Ventennio ampliò la superficie coltivabile grazie all’opera di bonifica di alcune paludi salentine, ma non riuscì a colmare le siderali distanze tra proprietari terrieri e braccianti agricoli. Le condizioni di lavoro di questi ultimi rimanevano durissime ed al limite dello schiavismo con le donne applicate per pochi spicci a curvarsi per ore e raccogliere a mano le olive cadute in terra per poi riporle nel “cappuccio”, un sacchetto in stoffa che più era pesante e più sollecitava le loro schiene.

 

Passato il Ventennio, durante il quale la classe borghese aveva potuto godere di una certa immunità poiché principale bacino di voti del regime, prese avvio la stagione degli scioperi, manifestazioni e occupazione delle terre. A volte represse nel sangue, comunque portarono ad una nuova riforma agraria che assegnava la “quota” ai contadini. Tuttavia, neanche stavolta bastò a sconfiggere il ben radicato latifondismo e le classi meno abbienti furono obbligate all’emigrazione, di cui tuttora soffre questo pezzo d’Italia.

 

La decrescita del mercato oleario ha poi continuato la sua colata a picco fino ad una decina d’anni fa, quando la “xylella” ha assestato il colpo di grazia finale distruggendo raccolti e alberi d’ulivo.

 

Si tornerà alla genesi quando si trapiantarono qui nuove piantine d’ulivo? Forse è questa l’unica strada possibile.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]