L’ULIVO NEL SALENTO
BREVE STORIA DI UNA FORZA ECONOMICA
di
Raffaele Nuzzo
Così come l’olio di gomito che mai
deve mancare per facilitare un
lavoro, così l’olio d’oliva
non deve mancare mai in ogni
minestra. Oggi spesso denominato e
indicato come “EVO”, acronimo
che ne attesta la bassa acidità,
quest’olio si ottiene dalla
spremitura delle olive, drupe che
crescono sull’albero di olivo,
altrimenti detto ulivo.
Pianta sempreverde,
foglie a pagine argentate di
sotto e verdi sopra, sopporta climi
torridi e siccità, l’olivo non
richiede particolari attenzioni e
cresce prevalentemente nel “Lauretum”,
cioè sulle fasce costiere italiane e
comunque a basse altitudini dove il
clima è meno rigido.
Questa pianta è celebre nel
Salento che ne ospita circa
dieci milioni di esemplari, un
quarto del totale in Puglia,
la regione d’Italia in cui cresce un
terzo della superficie coltivata a
olivo di tutto il Paese e detentrice
del titolo di maggior produttrice
d’olio d’oliva.
La pianta d’olivo ha un passato
antichissimo e deriva dal selvatico
“Olivastro” poi nel tempo
addomesticato per gli attuali usi
comuni. Questa specie arborea è
nativa del Medio Oriente e
Asia Minore e sono
diverse le teorie sul suo ingresso
in terra salentina. La prima
vedrebbe un trapianto di olivi da
parte dei Fenici, popolo
contraddistintosi per spiccate doti
marinaresche e quindi spesso in
navigazione per il bacino del
Mediterraneo. Ma la tesi storica
più avvalorata rimane quella secondo
cui sarebbero stati i Greci a
popolare di ulivi quel Salento, loro
colonia inclusa in quella macro
regione ellenofona chiamata “Magna
Grecia”. A testimonianza di
ciò, i “pythos”, dal greco
contenitori in ceramica utilizzati
per conservare l’olio e ritrovati
nell’area salentina.
Ovviamente, oltre le piante d’olivo,
qui i Greci avrebbero poi esportato
anche gli usi dell’olio ricavato
dalle olive e che non si limitavano
strettamente a quelli alimentari.
Infatti veniva adoperato anche per
massaggi agli sportivi e nel rito
della sepoltura, un ramoscello
veniva posto accanto alle spoglie.
Terminata l’era greca, il Salento fu
poi conquistato dai Romani
che erano molto interessati al
commercio d’olio d’oliva, già
fiorente in quelle epoche e pregiata
merce di scambio. Per questo,
intensificarono le colture d’ulivo
col metodo dei vivai. In
sostanza, allevavano le piantine di
olivo all’interno di vere e proprie
serre per poi selezionare
quelle migliori e metterle a dimora
nei terreni.
Caduto l’Impero Romano, in Puglia
come d’altronde nel resto del Paese,
iniziarono a susseguirsi una serie
di dominazioni straniere. In questo
periodo, poco prima dell’anno
Mille, sbarcarono sulla
penisola salentina i Basiliani,
un ordine monastico di provenienza
anatolica dedito al culto di icone e
immagini sacre e per questo
perseguitato dall’iconoclasta
Imperatore bizantino Leone III
Isaurico.
Una volta trovato rifugio, i
Basiliani si insediarono
proficuamente in quella terra che li
accolse, mettendo a disposizione le
loro importanti conoscenze in ambito
agronomico. Questi monaci erano
infatti esperti agricoltori ed erano
molto competenti nell’olivicoltura.
La novità assoluta che introdussero
in Salento e che sarà poi
rivoluzionaria per i secoli a
venire, fu la tecnica dei “trappeti”
o “frantoi ipogei”.
Praticamente, erano delle cavità o
grotte opportunamente scavate sotto
gli oliveti, che permettevano di
stipare a condizioni climatiche
ottimali le olive raccolte e di
lavorarle. Le olive, come anche
l’olio, hanno bisogno di essere
conservate ad una temperatura che
sia compresa tra i 6° e i 16°
centigradi. In questa maniera, il
prodotto e il raccolto conservano le
loro proprietà organolettiche.
Un’innovazione che darà ulteriore
slancio e legherà fortemente nei
secoli a venire l’oliva e l’olio
all’economia di questo territorio.
Ancora, nel Basso Medioevo,
ai tempi della dominazione
normanna e bizantina, il
mondo conobbe un rilevante cambio
climatico con innalzamento delle
temperature medie. Per questo
motivo, in Salento fu possibile
allargare le varietà di coltura e
naturalmente anche le superfici
coltivabili. Ne conseguì un aumento
del bisogno di forza lavoro e
pertanto, di pari passo,
dell’urbanizzazione dei dintorni e
l’estensione di città e paesi. Fu in
quel periodo che nacquero le “masserie”,
le aziende agricole del tempo che
ancora oggi conservano questa
definizione, pugliese per
antonomasia.
In età rinascimentale, negli
anni a cavallo tra il 1550 e il
1700, il commercio d’olio d’oliva
vive il suo momento di massimo
splendore. I porti più importanti in
Puglia erano Taranto,
Brindisi e Gallipoli. Ma
è proprio quello della “Città
Bella” ad essere il più attivo,
soprattutto perché da qui partono
botti su botti d’olio d’oliva
destinate ai maggiori centri e
capitali d’Europa. Documenti
storici raccontano di lunghe fila di
navi alla fonda in attesa di entrare
nel porto di Gallipoli e caricarsi
di olio “lampante”.
Sì, quell’olio grezzo e acido di cui
il Salento vantava il primato
europeo di produzione, serviva per
accendere i lampioni e
illuminare le città. A tale scopo,
le banchine del porto di Gallipoli
erano dotate di idonee cavità dove
depositare e tenere alla giusta
temperatura l’olio e tanta era
l’importanza di questo commercio che
il Vicerè spagnolo
(dell’allora Regno di Napoli
di cui questi territori facevano
parte) ordinò la costruzione di un
collegamento diretto tra la Puglia e
la capitale Napoli con diramazioni
verso Calabria e Abruzzo.
Ma l’età d’oro dell’olio salentino
non durerà a lungo ed i primi segni
di cedimento giungeranno con
l’Unità d’Italia. Al “colone”,
questo era diventato il contadino,
si assegnava terra che, però, spesso
era improduttiva e non gli
permetteva di sostentarsi e pagare e
le nuove tasse sul macinato e
l’imposta fondiaria. In un
circolo vizioso, alla fine, quella
terra veniva comprata dai più ricchi
proprietari terrieri.
Non andrà assolutamente meglio nei
primi del Novecento, quando
produzione e commercio dell’olio
d’oliva sprofonderanno in una grave
crisi tanto che molti oliveti
saranno espiantati e riqualificati
vigne, per adeguarsi al più
redditizio nascente business del
vino. A complicare ulteriormente
un quadro già penoso, fu la “mosca
olearia”, insetto che mandò a
rovina ettari ed ettari di raccolto.
Non furono d’aiuto neanche i
governi in carica che fecero
chiudere i frantoi, così in Salento
le olive venivano solo raccolte e,
non avendo posto idoneo dove
conservarle, l’agricoltore era
costretto a piazzarle immediatamente
sul mercato prima che marcissero e
non fossero più vendibili. Qui
entrava in gioco la figura del “sensale”,
spesso venuto da fuori, che
approfittando dell’urgenza di
vendere degli olivicoltori salentini,
acquistava i raccolti a prezzi
irrisori e li trasferiva al Nord,
dove invece c’erano i frantoi pronti
a lavorarli.
Oltre alla scure della “mosca
olearia” e della crisi dell’olio,
sulle piante d’ulivo si abbatté
quella vera dei taglialegna.
La resa del settore oleario era
arrivata sconvenienza tale che,
intorno agli anni venti del secolo
scorso, fece mandò letteralmente in
fumo gli oliveti trasformandoli in
legna da ardere o carboni.
Una vera catastrofe, pensando a
quante figure professionali
ruotavano intorno all’olio d’oliva:
bottai che costruivano le
botti con legni derivati dai boschi
calabresi, esperti potatori e
soprattutto frantoiani.
Questi ultimi, addetti alla
macinatura delle olive,
lavoravano nei frantoi o trappeti
ininterrottamente per sei mesi circa
a turni di 6-12 ore. C’era il “nachiro”
o “nostromo” che coordinava
le operazioni e la ciurma,
proprio come nella tradizione
marinaresca. Questi nomi non erano
dati a caso, poiché spesso questi
lavoratori provenivano dall’ambito
marinaresco e si reinventavano
frantoiani nei mesi invernali quando
era difficile andar per mare.
La riforma agraria
messa in atto da Mussolini
nel Ventennio ampliò la
superficie coltivabile grazie
all’opera di bonifica di
alcune paludi salentine, ma
non riuscì a colmare le siderali
distanze tra proprietari terrieri e
braccianti agricoli. Le condizioni
di lavoro di questi ultimi
rimanevano durissime ed al limite
dello schiavismo con le donne
applicate per pochi spicci a
curvarsi per ore e raccogliere a
mano le olive cadute in terra per
poi riporle nel “cappuccio”,
un sacchetto in stoffa che più era
pesante e più sollecitava le loro
schiene.
Passato il Ventennio, durante il
quale la classe borghese aveva
potuto godere di una certa immunità
poiché principale bacino di voti del
regime, prese avvio la stagione
degli scioperi,
manifestazioni e occupazione
delle terre. A volte represse
nel sangue, comunque portarono ad
una nuova riforma
agraria che assegnava la “quota”
ai contadini. Tuttavia, neanche
stavolta bastò a sconfiggere il ben
radicato latifondismo e le
classi meno abbienti furono
obbligate all’emigrazione, di
cui tuttora soffre questo pezzo
d’Italia.
La decrescita del mercato oleario ha
poi continuato la sua colata a picco
fino ad una decina d’anni fa, quando
la “xylella” ha assestato il
colpo di grazia finale distruggendo
raccolti e alberi d’ulivo.
Si tornerà alla genesi quando si
trapiantarono qui nuove piantine
d’ulivo? Forse è questa l’unica
strada possibile.