N. 54 - Giugno 2012
(LXXXV)
Tutela del paesaggio
dai singoli stati italiani alla legge croce
sul
patrimonio
artistico
e
paesaggistico
di Virginia
Stampete
"Il
paesaggio,
sorgente
sovrana
di
ogni
ispirazione,
attende
ancora
la
difesa
delle
sue
bellezze".
Nicola
Falcone
Nel
1912
lo
storico
e
filosofo
italiano
Benedetto
Croce
si
esprime
a
favore
del
paesaggio,dicendo
che
questo
non
è
solo
natura
ma
storia,
e
quindi
come
ogni
monumento
o
bene
di
interesse
storico
artistico
deve
essere
tutelato.
Come
scrisse
infatti
Ovidio,
nell'opera
Simulaverat
Artem
ingenio
natura
suo,
la
natura
si
ingegna
ad
imitare
l'arte.
In
quell'inizio
di
secolo
i
pensatori
e
gli
intellettuali
di
mezza
Europa
iniziavano
ad
interrogarsi
sulla
conservazione
del
paesaggio,
appunto
come
se
fosse
una
vera
e
propria
opera
d'arte.
Benedetto
Croce
nelle
sue
riflessioni
era
infatti
vicino
all'intellettuale
francese
Charles
Lalo
e a
Georg
Simmel
in
Germania.
A
differenza
dei
suoi
colleghi
però
Benedetto
Croce
riusci
a
trasformare
il
suo
pensiero
in
realtà
nel
breve
periodo
che
ha
ricoperto
il
ruolo
di
Ministro
della
Pubblica
Istruzione
durante
il
governo
Nitti.
La
sua
fu
infatti
la
prima
legge
per
la
tutela
del
paesaggio.
L'Italia
detiene
anche
il
primato
di
primo
stato
al
mondo
che
ha
inserito
nella
sua
costituzione
il
rispetto
del
paesaggio.
L'articolo
9
della
costituzione
della
Repubblica
Italiana,
al
comma
2
recita:
La
Repubblica
tutela
il
paesaggio
e il
patrimonio
storico
artistico
della
Nazione.
Va
evidenziato
il
fatto
che
nella
tradizione
giuridica
italiana
paesaggio
e
opera
artistica
viaggiano
sempre
insieme,
come
si
nota
anche
dall'articolo
9
della
costituzione.
Nell'Italia
pre-unitaria
già
si
rintracciavano
i
legami
di
questa
unione
tra
paesaggio
ed
opera
storico
artistica.
Il
decreto
del
Real
Patrimonio
di
Sicilia
del
21
agosto
1745,
simultaneamente
impose
la
conservazione
delle
antichità
di
Taormina
e
dei
boschi
del
Carpinetto
a
monte
di
Mascali
col
"castagno
dei
cento
cavalli"
(oggi
nel
Parco
dell’Etna).
Autore
del
provvedimento
fu
il
vicerè
di
Sicilia
Bartolomeo
Corsini,
nipote
di
Clemente
XII,
il
papa
a
cui
dobbiamo
importantissime
norme
di
tutela
del
paesaggio
e
dei
beni
architettonici,
nonchè
la
fondazione
del
Museo
Capitolino,
e
fratello
del
card.
Neri
Corsini,
ispiratore
del
"patto
di
famiglia"
Medici-Lorena
(1737)
che
assicurò
a
Firenze
in
perpetuo
le
collezioni
medicee.
Come
si
vede
la
conservazione
del
patrimonio
paesaggistico
e
culturale
era
una
prerogativa
italiana
anche
prima
dell'unità,
ed è
facile
constatarlo
nelle
direttive
prese
in
questa
direzione
da
questi
tre
stati
della
Penisola,
e
cioè
il
Regno
delle
Due
Sicilie,
lo
Stato
Pontifico
e il
Granducato
di
Toscana.
Secondo
un
grande
giurista,
Sabino
Cassese,
si
può
anzi
dire
che
l’art.
9
della
Costituzione
fu
di
fatto
la "costituzionalizzazione"
delle
due
leggi
Bottai,
una
sul
patrimonio
artistico
l’altra
sul
paesaggio,
approvate
entrambe
nel
giugno
1939.
Esse
furono,
di
fatto,
la
rielaborazione
delle
due
grandi
leggi
dell’Italia
liberale:
la
legge
Rava-Rosadi
del
1909
sulla
tutela
del
patrimonio
storico
e
artistico
e,
appunto,
la
legge
Croce
per
la
difesa
del
paesaggio.
Queste
due
leggi
sono,
da
allora
ad
oggi,
il
fondamento
della
cultura
italiana
della
tutela,
oggi
tradotta
nel
Codice
dei
BBCC
e
del
Paesaggio
(2004,
con
modifiche
del
2006
e
del
2008).
Prima
di
parlare
della
legge
Croce,
sarà
necessario
evocare
le
origini
della
legge
Rava-Rosadi
del
1909.
In
Italia,
come
abbiamo
già
accennato,
la
tutela
del
patrimonio
artistico
è
antica,
anzi
si
può
dire
senza
commettere
errore
che
è la
più
antica
del
mondo.
In
tutti
gli
stati
italiani,
eccezion
fatta
per
il
Regno
di
Sardegna,
che
in
misura
assai
minore
agli
altri
Stati
che
precedettero
l'unificazione,
si
adoperò
per
la
tutela
del
patrimonio
storico
artistico.
Questo
stesso
Stato
fu
però
la
guida
italiana
all'unificazione
e fu
poi,
in
seguito,
pronto
a
recepire
quanto
di
importante
vi
era
nelle
leggi
di
tutela
stabilite
dai
singoli
Stati
che
furono
annessi.
Il
Regno
di
Sardegna
stabilì
con
il
regio
decreto
del
re
Carlo
Alberto
nel
1832
che
'i
provvedimenti
propri
a
promuovere
la
ricerca,
e ad
assicurare
la
conservazione»
degli
oggetti
di
antichità
e
d’arte
dovevano
comunque
esser
tali
da
potersi
attuare
«senza
ledere
il
diritto
di
proprietà.
Lo
Statuto
Albertino
del
1848
riaffermò
il
principio
che
"Tutte
le
proprietà,
senza
alcuna
eccezione,
sono
inviolabili"
(art.
29),
temperandolo
appena
con
l’ipotesi
di
esproprio
dietro
"giusta
indennità"
quando
lo
esigesse
"l'interesse
pubblico
legalmente
accertato".
Possiamo
ben
capire
quanto
gli
altri
Stati
italiani
fossero
all'avanguardia
se
mettiamo
le
varie
legislazioni
a
confronto.
Negli
altri
Stati
la
proprietà
privata
era
molto
meno
marcata
se
veniva
a
ledere
qualcosa
di
interessa
statale.
Nel
Regno
Sabaudo
le
cose
erano
però
molto
diverse,
e la
tutela
del
patrimonio
artistico
passava
in
secondo
piano.
Una
tal
difformità
di
cultura
giuridica,
di
prassi
amministrativa
e di
tradizione
civile
è
probabilmente
una
delle
cause
che
resero
lungo
e
penoso
il
cammino
verso
una
legge
nazionale
di
tutela,
che
coordinasse
le
norme
degli
Stati
preunitari
o
meglio
le
superasse
con
nuove
norme
coerentemente
estese
a
tutto
il
Regno
d’Italia.
Esso
adottò
come
legge
fondamentale
lo
Statuto
Albertino;
e in
sintonia
con
esso
il
Codice
Civile
del
1865
definì
la
proprietà
come
"il
diritto
di
godere
e
disporre
delle
cose
nella
maniera
più
assoluta,
purché
non
se
ne
faccia
un
uso
vietato
dalla
legge
o
dai
regolamenti"
(art.
436).
Non
solo
finché
la
capitale
fu
Torino,
ma
anche
quando
fu
spostata
a
Firenze
e
poi
a
Roma,
una
parte
significativa
dell’alta
burocrazia,
della
corte,
del
Parlamento
e
del
governo
era
di
estrazione
piemontese,
e
forse
per
questo
restia
a
piegarsi
alla
priorità
della
publica
utilitas
già
largamente
adottata
nel
resto
d’Italia.
Invece
di
conservare
le
legislazioni
vigenti
negli
antichi
Stati
italici,
nel
1909
il
Regno
d'Italia
decise
di
legiferare
in
maniera
unitaria
sulla
conservazione
del
paesaggio
e
dei
beni
storico-artistici.
Il
punto
dolente
della
norma
legislativa,
fu,
come
si
può
immaginare,
la
diatriba
tra
l'interesse
pubblico
e
quello
privato.
In
termini
pratici
i
piemontesi
combattevano
per
difendere
la
proprietà
privata
sopra
ogni
cosa,
al
contrario
la
tradizione
romana,
toscana
e
napoletana,
anteponevano
la
conservazione
dei
beni
artistici
e
ambientali
al
di
sopra
dei
singoli
privati.
Dopo
l'unificazione
della
Penisola,
il
Primo
Ministro,
Camillo
Benso,
conte
di
Cavour,
con
il
ministro
Mamiani,
cercarono
di
unificare
la
legislazione
paesaggistica
che
si
dibatteva
fra
le
istanze
locali
e il
parlamento
nazionale.
Mamiani
non
riuscì
però
ad
elaborare
un
testo
che
fosse
approvato
in
parlamento,
dove
i
particolarismi
nel
neonato
Stato
erano
troppo
grandi
e il
potere
centrale
ancora
troppo
debole
e
desideroso
di
farsi
ben
volere
ed
integrare
nel
resto
della
Penisola.
Nel
1868
il
Consiglio
di
Stato
tentò
di
disciplinare
il
paesaggio,
ma
senza
effetto.
Il
13
marzo
1871
il
Senato
del
Regno
abolì
i
vincoli
fide-commissari,
che
nella
Roma
dei
Papi
avevano
garantito
per
secoli
la
“tenuta”
delle
collezioni
delle
grandi
famiglie,
vietandone
la
frammentazione
anche
se
di
piena
proprietà
privata,
fu
grazie
a
questi
vincoli
si
conservano
fino
ad
oggi
grandi
collezioni
come
quelle
dei
principi
Colonna
e
dei
principi
Doria
Pamphili.
Fortunatamente
la
Camera
pose
un
argine
allo
smantellamento
di
questo
istituto
giuridico
voluto
dal
Senato.
La
Camera
essendo
elettiva
era
formata
da
persone
legate
al
territorio
e
che
quindi
avevano
a
cuore
il
benessere
del
luogo
dal
quale
provenivano.
I
senatori,
che
erano
di
nomina
regia,
non
avevano
invece
nessun
problema
a
far
smantellare
collezioni
ed
opere
artistiche
o
architettoniche
di
cui
non
si
sentivano
partecipi
ne
coinvolti.
La
diatriba
tra
le
due
camere
favorì
la
conservazione
di
questi
tesori.
Purtroppo
però,
la
Camera
poteva
solo
limitarsi
a
richiamare
le
antiche
leggi
dei
singoli
Stati,
in
modo
da
non
far
disperdere
il
patrimonio
artistico,
ma
se
una
singola
opera
si
spostava
da
Roma
a
Torino,
la
singola
legge
cadeva
e
quindi
il
Regno
poteva
farne
l'uso
che
voleva
e
trasportare
l'opera
ovunque.
Il
Ministro
della
Pubblica
Istruzione,
Cesare
Correnti,
esponente
di
spicco
della
destra
storica,
propose
un
disegno
di
legge
volte
alla
conservazione
dei
beni
artistici.
La
volontà
del
Ministro
era
infatti
volta
a
tutelare
la
conservazione
delle
collezioni
d'arte,
in
modo
che
l'interesse
nazionale
sia
tutelato
rispetto
ai
privati.
E'
infatti
importante
che
la
storia
della
Nazione
fosse
conservata
per
i
posteri.
L'azione
fu
però
osteggiata
dal
Senato
Regio,
che
si
erse
energicamente
bloccando
la
legge.
Non
ebbero
miglior
sorte
gli
analoghi
progetti
presentati
dai
successori
di
Correnti
nel
Ministero
della
Pubblica
Istruzione:
Ruggero
Bonghi
(1875-76),
Michele
Coppino
(1878,
1886),
Francesco
De
Sanctis
(1878),
Pasquale
Villari,
Ferdinando
Martini
(entrambi
nel
1892).
Anche
l’ultimo
di
questi
disegni
di
legge
richiese,
dal
1898
al
1902,
due
ministri
(Niccolò
Gallo
e
Nunzio
Nasi)
attraverso
tre
governi,
prima
di
potersi
materializzare
nella
L.
185
(12
giugno
1902)
sulla
"Conservazione
dei
monumenti
e
degli
oggetti
di
antichità
e
d’arte".
I
disegni
di
legge
si
infrangevano
continuamente
contro
i
diritti
dei
privati
sul
pubblico,
cosa
molto
cara
ai
piemontesi,
e
che
non
volevano
assolutamente
ledere.
Le
cose
non
cambiarono
con
l'avvento
della
sinistra
storica,
in
quanto,
come
abbiamo
visto,
i
ministri
di
questa
corrente
non
ebbero
migliore
fortuna,
perché
il
vero
ostacolo
non
era
rappresentato
dai
partiti
politici
ma
dal
Senato,
formato
dall'elìte
vicina
al
sovrano,
di
estrazione
piemontese
e
molto
legata
alle
tradizioni
del
vecchio
Stato.
Il
Ministro
Niccolò
Gallo
riuscì
a
far
approvare
il
suo
disegno
di
legge
cercando
però
di
mitigarlo
e
renderlo
accettabile
per
il
Senato
Regio.
Privilegiò
i
diritti
dei
privati
proprietari
di
monumenti
e
oggetti
d’arte,
limitò
il
progetto
di
catalogo
dei
beni
in
mano
privata
alle
cose
"di
sommo
interesse
storico
ed
artistico"
vietandone
l’esportazione,
e
allo
Stato
lasciò
solo
il
diritto
di
prelazione
su
immobili
o
cose
d’arte
messi
in
vendita,
e in
casi
eccezionali
il
diritto
di
esproprio
per
pubblica
utilità.
Purtroppo
il
fondo
di
Stato
destinato
a
tali
acquisti
era
formato
con
un
unico
provento,
quello
derivante
dalle
tasse
di
esportazione
all’estero
di
opere
d’arte,
in
altri
termini,
per
salvare
poche
cose
se
ne
dovevano
esportare
moltissime.
L’emorragia
di
opere
d’arte
dall’Italia
verso
le
collezioni
di
tutto
il
mondo,
favorita
dalle
incertezze
normative
dopo
l’Unità,
rischiava
dunque
di
accentuarsi
con
la
nuova
legge.
Come
ha
scritto
Roberto
Balzani
nel
suo
ottimo
libro
Per
le
antichità
e le
Belle
Arti.
La
legge
n.
364
del
10
giugno
1909
e
l’Italia
giolittiana
(Bologna,
Il
Mulino,
2003),
quella
del
1902
era
una
"legge
ad
orologeria":
il
Ministero
avrebbe
dovuto
compilare
entro
un
anno
i
cataloghi
delle
opere
di
“sommo
pregio”,
e
nel
frattempo
restavano
ancora
in
vigore
le
norme
degli
antichi
Stati
italiani,
secondo
una
geografia
politica
spazzata
via
da
quarant’anni.
Come
si
poteva
immaginare,
mentre
si
avvicinava
la
scadenza,
nemmeno
uno
dei
promessi
cataloghi
era
pronto
e
alla
Camera
Felice
Barnabei
(già
Direttore
Generale
alle
Antichità
e
Belle
Arti)
ottenne
dopo
una
dura
battaglia
il
blocco
per
due
anni
di
tutti
i
permessi
di
esportazione
di
antichità
e
d’arte,
e
impegnò
il
governo
a
redigere
i
cataloghi
e a
reperire
risorse
per
l’acquisto
delle
opere
più
importanti
messe
in
vendita
dai
privati
(L.
27
giugno
1903,
n.
242).
Il
primo
catalogo
di
opere
"di
sommo
pregio",
perciò
invendibili
in
virtù
della
legge,
uscì
sulla
Gazzetta
Ufficiale
del
31
dicembre
1903.
Erano
solo
nove
pagine,
e il
documento
era
palesemente
da
completarsi.
Un
catalogo
del
genere
non
arrivava
mai
alla
fine,
e la
legge
del
1903
dovette
esser
prorogata
di
anno
in
anno
per
ben
sei
volte,
finché
non
si
arrivò
a
una
nuova
e
più
organica
legge:
la
legge
n.
364
del
20
giugno
1909
"Per
l’antichità
e le
belle
arti",
che
segna
il
vero
atto
di
nascita
della
disciplina
nazionale
italiana
della
tutela,
dalla
quale
venne
poi
ogni
altra
disposizione,
fino
ad
oggi.
Già
nel
1909
Benedetto
Croce
ebbe
un
ruolo
significativo
nell’approvazione
della
legge.
Nel
1907,
la
legge
386,
aveva
creato
il
sistema
delle
Soprintendenze
con
speciali
ripartizioni
(archeologia,
monumenti,
gallerie
e
oggetti
d’arte),
che
ebbero
competenza
territoriale
ma
furono
sottoposte
al
Ministero
della
Pubblica
Istruzione.
Camera
e
Senato
erano
come
sempre
presi
nella
stretta
di
una
contraddizione
violenta
fra
l'utile
pubblico
e
l'interesse
privato,
ma
finirono
per
riconoscere
una
visione
pervicacemente
pubblica
e
poi
sociale
del
problema.
La
legge
del
1909
porterà
la
firma
del
ministro
Luigi
Rava,
ravennate,
ma
deve
almeno
altrettanto
a un
altro
ravennate,
Corrado
Ricci,
che
Rava
nominò
Direttore
Generale
alle
Antichità
e
Belle
Arti,
al
deputato
toscano
Giovanni
Rosadi
e
all’abruzzese
Felice
Barnabei,
che
prima
di
essere
deputato
era
stato
anch’egli
Direttore
Generale
alle
Antichità
e
Belle
Arti.
Il
primo
disegno
di
legge,
presentato
da
Rava
nel
dicembre
1906
e
poi
modificato
alla
Camera
da
una
commissione
presieduta
da
Barnabei,
fu
accompagnato
da
un’appassionata
relazione
di
Rosadi,
che
rifletteva
le
opinioni
degli
intellettuali
e
degli
ambienti
più
fortemente
impegnati
sul
fronte
della
protezione
del
patrimonio.
Fra
questi
la
rivista
Il
Marzocco
e
l’Associazione
per
la
difesa
di
Firenze
antica,
fondata
nel
1898
per
reagire
agli
sventramenti
e
trasformazioni
del
centro
storico
della
città
che
ne
sfigurarono
il
volto
a
partire
dagli
anni
(1865-1871)
in
cui
fu
capitale
del
Regno
d’Italia.
L’Associazione
fiorentina
fu
promossa
e
presieduta
dal
principe
Tommaso
Corsini,
membro
della
stessa
famiglia
di
Clemente
XII,
del
Viceré
di
Sicilia
Bartolomeo
Corsini
e
del
card.
Neri
Corsini,
personaggi
a
cui
si
devono
importanti
iniziative
a
Firenze,
in
Sicilia
e a
Roma
nel
Settecento.
Corsini,
esponente
della
Destra
storica
e
membro
del
Senato,
rappresentava
un’aristocrazia
di
segno
opposto
a
quello
dei
senatori
Odescalchi
e
Colonna
che
rivendicavano
la
priorità
della
proprietà
privata
a
scapito
del
pubblico
interesse,
e
riuscì
a
creare
un
vasto
movimento
di
opinione,
che
culminò
in
una
pubblica
assemblea
a
Firenze,
il 6
dicembre
1908,
e
nel
lancio
di
una
petizione,
che
ebbe
360
firme.
All’assemblea
partecipò
anche
Benedetto
Croce,
che
aveva
42
anni
e
andò
in
qualità
di
delegato
della
Società
Napoletana
di
Storia
Patria.
Fu
proprio
Croce
a
proporre
una
mozione,
che
corrispondeva
alla
petizione
al
Senato,
e
che
venne
votata
per
acclamazione.
La
legge
fece
più
volte
la
spola
fra
Camera
e
Senato,
ma
la
mozione
fiorentina,
unendosi
all’emozione
per
il
terremoto
di
Messina
(28
dicembre
1908),
determinò
la
finale
approvazione:
fu
la
legge
nr.
364
del
30.6.1909.
Alcuni
principi
della
legge
originale
non
riuscirono
comunque
a
passare
al
Senato.
Uno
di
questi
era
esposto
all'art.
1
che
recitava:
"giardini,
foreste,
paesaggi,
acque,
e
tutti
quei
luoghi
ed
oggetti
naturali
che
abbiano
l’interesse
sovraccennato".
Era
stato
il
ministro
Rava
a
volere
a
causa
delle
devastazioni
romane,
che
avevano
portato
allo
smantellamento
di
Villa
Ludovisi
e
minacciavano
anche
Villa
Borghese.
Questo
primo
tentativo
di
tutela
del
paesaggio
e
dell’ambiente
naturale
avrebbe
avuto
esito
più
tardi
con
leggi
ad
hoc
: ma
è
importante
rilevare
che
già
nel
1909
era
ben
presente
lo
stretto
legame
fra
tutela
del
patrimonio
culturale
e
tutela
del
paesaggio,
che
sarà
caratteristica
peculiare
del
sistema
italiano,
e
culminerà
nell’art.
9
della
Costituzione
vigente.
Un
secondo
principio
caratterizzante,
che
si
infranse
contro
l’opposizione
del
Senato:
era
espresso
nell’art.
37,
soppresso
nella
versione
finale:
"Ogni
cittadino
che
gode
dei
diritti
civili
e
ogni
ente
legalmente
riconosciuto
potrà
agire
in
giudizio
nell’interesse
del
patrimonio
archeologico,
artistico
e
storico
della
Nazione
contro
i
violatori
della
presente
legge".
Questa
norma
era
tipica
nel
diritto
romano,
dove
l’actio
popularis
era
fondata
sulla
piena
identità
fra
il
populus
nel
suo
insieme
e i
cittadini
(cives):
perciò
il
singolo
cittadino
poteva
agire
giuridicamente
in
nome
del
popolo,
promuoverendo
un’actio
popularis
in
difesa
di
interessi
pubblici,
e in
particolare
dei
beni
comuni
(res
communes
omnium)
come
l’aria,
le
acque,
il
mare,
i
litorali.
Rosadi,
dopo
aver
argomentato
in
favore
della
publica
utilitas,
raccomandava
di
introdurre
nella
nuova
legge
questo
principio,
che
"conferisce
ai
cittadini
la
facoltà
di
far
valere
i
diritti
che
spettano
allo
Stato".
Si
trattava,
insomma,
di
una
diretta
investitura
del
singolo
cittadino
ad
agire
in
nome
del
pubblico
interesse.
Lo
scopo
era
quello
di
avere
la
opinione
pubblica
forte,
ben
costituita
e
ben
diretta
ausiliatrice
dello
Stato
nella
conservazione
del
patrimonio
artistico.
di
partire
dalla
coscienza
di
forti
identità
locali
per
la
rappresentazione
di
uno
spazio
nazionale
intessuto
di
simboli,
di
immagini,
di
luoghi
comuni
culturali.
Chi
combattesse
questa
proposta,
argomentava
Rosadi,
"mostrerebbe
di
non
aver
visti
mai
occupati
i
territori
pubblici,
mai
chiuse
le
strade
di
campagna,
mai
contaminate
le
bellezze
e le
tradizioni
della
città,
mai
sperperati
i
patrimonii
pii,
mai
negletti
o
disonorati
gli
uffici
pubblici,
mai
asserviti
o
trascurati
i
doveri
della
rappresentanza
e
dell’autorità".
Il
tema
della
tutela
del
paesaggio,
anche
se
non
riuscì
ad
essere
istituzionalizzato
nella
legge
del
1909,
era
da
tempo
all’ordine
del
giorno,
anche
per
influenza
di
altre
esperienze
europee.
In
Francia
la
legge
Beauquier
del
1906
sulla
protezione
del
paesaggio
e
dei
siti
storici,
pittoreschi
e
leggendari,
che
prevedeva
un
classement
dei
paesaggi
a
seconda
del
livello
di
interesse,
e
forme
di
protezione
negoziata
fra
le
amministrazioni
pubbliche
e i
proprietari
privati,
aveva
suscitato
un
forte
dibattito
negli
ambienti
politici
e
culturali,
che
ebbe
risonanza
nell'intero
vecchio
continente.
Sulla
rivista
Emporium
del
1905,
il
parlamentare
Corrado
Ricci,
metteva
insieme
tre
vicende
di
quegli
anni:
il
tentativo
di
aprire
una
nuova
porta
nelle
mura
di
Lucca,
e le
minacciate
distruzioni
della
cascata
delle
Marmore
e
della
pineta
di
Ravenna.
Da
quella
congiuntura
nacque
la
legge
411
del
1905
"per
la
conservazione
della
Pineta
di
Ravenna",
prima
legge
paesaggistica
d’Italia,
che
fondava
la
necessità
della
tutela
sulla
storia
del
sito
e
sulle
sue
memorie,
da
Odoacre
e
Teodorico
alla
"divina
foresta
spessa
e
viva"
di
Dante,
a
Dryden,
a
Byron,
a
Garibaldi.
Quando
il
Senato
soppresse
la
tutela
del
paesaggio
dalla
legge
Rava
del
1909,
si
ricorse
all’artifizio
parlamentare
di
approvare
un
ordine
del
giorno,
senza
la
minima
conseguenza
pratica,
che
impegnava
il
governo
a
presentare
un
disegno
di
legge
"per
la
tutela
e la
conservazione
delle
ville,
dei
giardini
e
delle
altre
proprietà
fondiarie
che
si
connettono
alla
storia
o
alla
letteratura
o
che
importano
una
ragione
di
pubblico
interesse
a
causa
della
loro
singolare
bellezza".
In
questo
testo
brevissimo,
il
termine
"paesaggio"
è
evitato,
e la
dizione
"altre
proprietà
fondiarie"
indica
di
dove
venissero
le
resistenze
a
includere
il
paesaggio
fra
i
beni
da
tutelare.
Almeno
in
Senato,
ogni
limitazione
della
piena
proprietà
privata
era
ancora
impraticabile
sul
piano
legislativo,
e
non
per
una
contrapposizione
tra
Destra
e
Sinistra,
bensì
per
le
spaccature
all’interno
del
mondo
liberale,
dove
anche
l’alta
aristocrazia
presente
sui
banchi
del
Senato
si
divise
fra
i
difensori
a
oltranza
dei
diritti
di
edificazione
(i
principi
Colonna
e
Odescalchi)
e i
fautori
della
tutela
(il
principe
Corsini).
A
causa
di
Corrado
Ricci,
si
sviluppò
un
dibattito
sui
giornali,
specialmente
Il
Giornale
d’Italia
e Il
Corriere
della
sera
,
con
duratura
influenza
sull’opinione
pubblica.
Sul
fronte
opposto,
proseguivano
le
resistenze
in
nome
dell’assoluto
ius
utendi
et
abutendi
del
privato
proprietario.
Si
negava,
per
esempio,
che
fra
"le
cose
immobili
che
abbiano
interesse
storico
o
artistico"
protette
dalla
legge
del
1909
vi
fossero
anche
ville
e
giardini:
a
chiarirlo
fu
necessaria
un’apposita
legge
(688/1912),
voluta
da
Corrado
Ricci,
che,
integrando
l’art.
1
della
legge
del
1909,
estese
espressamente
l’ambito
della
tutela
anche
"alle
ville,
ai
parchi
e ai
giardini
che
abbiano
interesse
storico
o
artistico".
Nel
1910,
meno
di
un
anno
dopo
l’approvazione
della
legge
da
cui
il
Senato
aveva
cancellato
l’articolo
relativo
al
paesaggio,
Giovanni
Rosadi
presentò
una
nuova
proposta
di
legge
tesa
a
tutelare
"i
paesaggi,
le
foreste,
i
parchi,
i
giardini,
le
acque,
le
ville
e
tutti
quei
luoghi
che
hanno
un
notevole
interesse
pubblico
a
causa
della
loro
bellezza
naturale
o
della
loro
particolare
relazione
con
la
storia
e
con
la
letteratura",
e
che
perciò
"non
possono
essere
distrutti
né
alterati
senza
autorizzazione
del
Ministero
della
Pubblica
Istruzione";
per
garantirlo,
erano
previsti
vincoli
del
tutto
analoghi
a
quelli
previsti
dalla
legge
del
1909
per
i
monumenti
e
gli
oggetti
d’arte.
Nella
sua
relazione,
Rosadi
prendeva
come
esempio
il
parco
nazionale
di
Yellowstone,
e il
modo
in
cui
il
Governo
degli
Stati
Uniti
si
era
pronunciato
per
la
tutela
del
paesaggio.
Rosadi
cercava
di
connettere
paesaggio
e
ambiente:
"come
si
eccitano
e
diffondono
precetti
di
igiene,
di
decenza,
di
quiete
e di
riposo,
così
non
è
forse
eccesso
di
persecuzione
legislativa
imporre
obblighi
di
rispetto
alla
bellezza
che
non
si
crea
[cioè
ai
paesaggi
naturali],
particolarmente
in
Italia!".
Rosadi
aveva
innescato,
sull’onda
lunga
della
legge
del
1909,
un
vasto
movimento
d’opinione,
che
portò
nel
1913
alla
nascita
del
Comitato
Nazionale
per
la
Difesa
del
Paesaggio
e
dei
Monumenti,
una
sorta
di
"cartello
di
associazioni".
Questo
comitato
si
muoveva
congiuntamente
fra
tutela
dei
monumenti
e
tutela
del
paesaggio.
Negli
stessi
anni
si
cominciava,
intanto,
a
discutere
la
possibile
istituzione
di
parchi
nazionali,
sul
modello
americano
e di
alcuni
Paesi
europei,
come
la
Svezia
e la
Svizzera.
Giuseppe
Lustig,
giurista
e
magistrato
che
era
procuratore
del
Re a
Napoli.
In
un
lungo
articolo
del
1918,
pubblicato
sulla
rivista
napoletana
Il Filangieri,
rintracciava
tutta
una
storia
della
Tutela
del
paesaggio
in
Roma
dalle
leggi
repubblicane
al
codice
di
Giustiniano.
Lustig
richiama
il
decor
urbis,
la
publica
utilitas
e la
dicatio
ad
patriam
dei
testi
giuridici
antichi,
e
insiste
sull’intima
unione
del
paesaggio
naturale
con
quello
urbano.
Questo
per
cercare
nelle
fonti
cardini
del
diritto
europeo,
cavilli
legali
che
tutelassero
il
paesaggio
come
le
opere
d'arte.
Dal
1910
al
1919,
la
camera
dibatte
non
meno
di
cinque
diverse
versioni
della
proposta
Rosadi:
esse
riflettono
anche
in
minuti
dettagli
lo
scontro
fra
le
ragioni
della
tutela
e
quelle
della
proprietà
privata,
che
di
fatto
vinsero
a
lungo
impedendo
a
ogni
formulazione
di
arrivare
in
porto.
In
mezzo
a
questo
dibattito
iniziava
a
delinearsi
quella
che
sarebbe
stata
la
legge
Croce.
Fra
i
più
vigili
assertori
di
una
nuova
legge
specifica
a
tutela
del
paesaggio,
oltre
a
Rosadi,
fu
sempre
Corrado
Ricci,
che
era
stato
fra
gli
artefici
della
legge
sulla
pineta
di
Ravenna
(1905)
e
poi
della
L.
364/1909,
e
ancora
ricopriva
la
carica
di
Direttore
Generale
alle
Antichità
e
Belle
Arti;
ma
l’impulso
decisivo
fu
dato
da
Francesco
Saverio
Nitti,
quando
nel
suo
primo
governo
istituì
per
regio
decreto
(n.
1792/1919)
un
Sottosegretariato
alle
Antichità
e
Belle
Arti,
quasi
un
preannuncio
del
Ministero
dei
Beni
Culturali
creato
quasi
sessant’anni
dopo.
Primo
sottosegretario
fu
il
veneziano
Pompeo
Molmenti,
che
aveva
partecipato
alle
battaglie
per
la
tutela
d’inizio
secolo.
Dopo
pochi
mesi
Molmenti
si
dimise
per
protesta
contro
la
mancanza
di
risorse
economiche
e fu
sostituito
da
Giovanni
Rosadi,
che
assunse
l’ufficio
in
continuità
con
il
suo
predecessore,
definendolo
"esempio
e
stimolo
della
dignità
del
fare
e
del
pensare",
e lo
tenne
anche
nei
successivi
governi
Giolitti
e
Bonomi.
Ma
il
veneziano
Molmenti
aveva
fatto
in
tempo
a
nominare
la
commissione
"incaricata
a
preparare
uno
schema
di
iniziativa
legislativa
per
la
difesa
e il
rispetto
delle
bellezze
naturali
d’Italia"
(dicembre
1919).
Facevano
parte
della
commissione:
Rosadi,
che
ne
era
il
presidente,
Aristide
Sartorio,
presto
sostituito
da
un
altro
pittore,
Camillo
Innocenti,
Luigi
Parpagliolo,
il
nuovo
Direttore
Generale
Arduino
Colasanti,
il
deputato
socialista
Matteo
Marangoni,
critico
d’arte
e
più
tardi
fondatore
della
rivista
La
casa
bella,
l’archeologo
Vittorio
Spinazzola,
il
giurista
Luigi
Biamonti
dell’Avvocatura
Erariale.
I
tempi
erano
maturi,
e
tre
mesi
di
lavoro
bastarono
a
redigere
il
disegno
di
legge
(marzo
1920),
che
riprese
le
linee
generali
della
proposta
Rosadi
di
dieci
anni
prima.
Toccò
a
Benedetto
Croce,
senatore
dal
1910
e
ministro
della
Pubblica
Istruzione
nell’ultimo
governo
Giolitti
dal
giugno
1920
al
luglio
1921,
portare
a
compimento
l'opera
di
Rosadi.
Il
progetto,
a
causa
della
brevità
dei
governi
che
si
succedettero
dopo
il
Primo
Dopo
Guerra
si
trascinò
lungo
il
governo
Bonomi
(otto
mesi)
e il
primo
governo
Facta
(cinque
mesi),
prima
di
essere
approvato
l’11
giugno
1922.
Dopo
il
secondo
governo
Facta
(tre
mesi),
comincia
la
lunga
stagione
del
Fascismo.
Egli
presentò
la
legge
in
Senato
il
25
settembre
1920,
e ne
ottenne
l’approvazione
il
31
gennaio
1921.
Alla
Camera
fu
approvata
il
17
febbraio
1921.
A
causa
delle
elezioni
anticipate
del
maggio
1921,
il
disegno
di
legge
dovette
essere
ripresentato
perchè
non
promulgato.
Il
disegno
di
legge
fu
di
nuovo
approvato
dal
Senato
il 5
agosto
1921,
la
discussione
alla
Camera
si
aprì
il
16
dicembre
e si
chiuse
con
l’approvazione
l’11
maggio
1922.
Firmata
dal
Re
l’11
giugno,
la
legge
(nr.
778)
fu
pubblicata
sulla
Gazzetta
Ufficiale
del
21
giugno.
Croce
non
era
più
ministro,
ma
fu
grazie
lui
che
si
deve
l’approvazione
della
legge,
ed è
giusto
che
essa
venga
ancora
ricordata
come
Legge
Croce.
La
relazione
introduttiva
Per
la
tutela
delle
bellezze
naturali
e
degli
immobili
di
particolare
interesse
storico
presentata
da
Croce
al
Senato
il
25
settembre
1920
può
essere
considerata
il
testo-chiave
di
una
svolta
politica
significativa,
il
culmine
di
un
lungo
processo
che
aveva
mobilitato
associazioni
e
politici,
giornali
e
opinione
pubblica,
attraversando
non
meno
di
cinque
legislature,
e
che
nella
ferma
volontà
di
Croce
trovò
il
suo
apice.
Nella
sua
relazione
Benedetto
Croce
esordisce
dicendo:
"Che
una
legge
in
difesa
delle
bellezze
naturali
d’Italia
sia
invocata
da
più
tempo
e da
quanti
uomini
colti
e
uomini
di
studio
vivono
nel
nostro
Paese,
è
cosa
ormai
fuori
da
ogni
dubbio".
Vengono
poi
ricordati
i
voti
della
Camera
nel
1905
e
del
Senato
nel
1909,
la
legge
relativa
alla
tutela
della
pineta
di
Ravenna
e
quella
sui
parchi
e i
giardini
del
1912.
Viene
citata
anche
la
proposta
di
Rosadi
del
1910.
Continuando
la
sua
relazione
Benedetto
Croce
spiega
che
occorre
dunque
una
legge
che
"ponga,
finalmente,
un
argine
alle
ingiustificate
devastazioni
che
si
van
consumando
contro
le
caratteristiche
più
note
e
più
amate
del
nostro
suolo".
Questa
esigenza
era
stata
percepita
anche
dal
precedente
Governo,
formato
dall'Onorevole
Nitti,
che
spiegò
come
sia
doverosamente
importante
la
tutela
del
patrimonio
paesaggistico
ed
artistico
della
nostra
Penisola.
Il
Governo
Nitti
non
trascurò
di
elencare
anche
l'importanza
economica
di
tale
tutela,
poiché
il
nostro
Paese
veniva
visitato
da
turisti,
intellettuali,
professori
e
critici
d'arte
di
ogni
nazione.
La
tutela
del
paesaggio
veniva
così
congiunta
"antichità
e
belle
arti",
senza
trascurare
il
lato
economico
che
la
valorizzazione
del
patrimonio
culturale
poteva
rendere
al
nostro
Paese.
La
tutela
del
paesaggio
legittima
lo
Stato
ad
agire,
l'interesse
per
Croce
diventa
morale,
e
non
può
essere
assolutamente
trascurabile,
anzi
è
doveroso
agire
per
la
conservazione
di
questi
tesori
inestimabili.
Il
paesaggio,
secondo
le
parole
di
Croce,
non
è
altro
che
"la
rappresentazione
materiale
e
visibile
della
patria,
con
i
suoi
caratteri
fisici
particolari,
con
gli
aspetti
molteplici
e
vari
del
suo
suolo,
quali
sono
formati
e
son
pervenuti
a
noi
attraverso
la
lenta
successione
dei
secoli".
Il
paesaggio,
in
pratica,
è il
volto
amato
della
patria
("Pour
la
personnalité
de
Ruskin,
s'il
est
un
caractère
qui
la
définisse,
... la violence
et
parfois
l'amertume
de
sa
religion
native,
toute
l'âpreté
sarcastique
...
lèvent
du
sol
protestant
de
sa
patrie
pour
entreprendre
sur
les
âmes
quelque
...
grands,
par
l'orgueil
du
savoir
et
l'amour
de
la
beauté
pour
la
beauté").
La
frase,
veniva
in
quegli
anni
molto
usata
ed
era
stata
attribuita
a
Ruskin,
e
racchiude
il
suo
pensiero,
ma
non
è
possibile
rintracciarla
nei
suoi
scritti,
in
quanto
non
è
qualcosa
che
viene
estrapolata
ma
che
non
è
mai
stata
detta
dall'autore.
Il
pensiero
di
Ruskin
era
conosciuto
in
Italia
grazie
al
testo
Ruskin
et
la
religion
de
la
beauté
di
Robert
de
la
Sizeranne
(1897).
Anche
se
Croce
non
attribuisce
la
frase
direttamente
a
Ruskin,
cita
l'autore
come
iniziatore
del
movimento
europeo
per
la
difesa
della
natura
e
del
paesaggio,
a
partire
da
quando
nel
1862
scrisse
in
difesa
delle
valli
inglesi
minacciate
dal
fuoco
delle
locomotive
e
dal
carbone
delle
officine.
Il
paesaggio
diventa
espressione
dell'"anima
nazionale",
prendendo
ad
esempio
l’Heimatschutz
tedesco
e ad
altre
esperienze
europee,
citando
la
legge
francese
del
1906
(Legge
21-24
dell'aprile
1906
la
Loi
organisant
la
...
de
France
e la
Societe
pour
la
protection
des
paysages).
I
proprietari
privati
vengono
così
obbligati
a
rivolgersi
alla
Soprintendenze
per
i
lavori
sia
sugli
immobili
storici
che
per
i
luoghi
caratterizzati
da
bellezze
naturali
e
panoramiche.
Questi
immobili,
ritenuti
di
importante
interesse,
sono
sottoposti
a
speciali
limitazioni
per
contemperare
le
ragioni
superiori
della
bellezza
coi
legittimi
diritti
dei
privati.
Pochi
mesi
prima
dell’avvento
del
Fascismo,
si
concludeva
così
la
vicenda
delle
leggi
di
tutela
dell’Italia
unita,
cominciata
intorno
al
1870
e
culminata,
a
gran
distanza,
nelle
leggi
364
del
1909
e
778
del
1922.
I
difensori
della
proprietà
privata
che
desideravano
vendere
collezioni,
distruggere
parchi
di
importanza
storico-artistica,
e
modificare
il
paesaggio
nazionale
per
fini
di
lucro
vengono
così
sconfitti
dall'interesse
pubblico,
la
memoria
storica
della
tradizione
di
tutela
che
in
ogni
Stato
d’Italia
aveva
per
secoli
prevalso.
A
Croce
spetta
anche
il
merito
di
aver
richiamato
non
solo
il
precedente
della
legge
francese
del
1906
ma
la
ricca
tradizione
germanica,
che
tra
Otto
e
primo
Novecento
aveva
raggiunto
un
punto
assai
alto.
Riferimenti
bibliografici:
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le
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di
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decreti,
e
disposizioni,
relativa
ai
monumenti,
antichità
e
scavi
dal
diritto
romano
ad
oggi,
corredata
dalla
legislazione
complementare
e
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LA
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21
marzo
2012,
pagina
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