N. 103 - Luglio 2016
(CXXXIV)
Un
golpe
di
chi?
considerazioni
sulla
turchia
e
sul
tentato
colpo
di
stato
di
Filippo
Petrocelli
L’esercito
turco,
il
secondo
della
Nato
con
oltre
500.000
effettivi,
questa
volta
ha
fatto
la
figura
dell’armata
Brancaleone.
L’erede
diretto
degli
insegnamenti
di
Mustafa
Kemal
–
conosciuto
dai
più
con
il
nome
di
Ataturk
“padre
dei
turchi”,
fondatore
della
Turchia
moderna
– ma
soprattutto
il
garante
della
laicità
del
paese,
uno
dei
maggiori
centri
di
potere
dello
“stato
profondo”
e
attore
protagonista
della
scena
politica
turca,
non
è
riuscito
a
realizzare
quello
che
si
era
prefissato,
spodestare
il
sultano
Erdogan
con
un
classico
coup
d’etat.
Poche
migliaia
di
golpisti,
circa
duemila
quindi
una
parte
minoritaria
dell’esercito
–
minato
già
da
parecchio
tempo
dalle
riforme
autoritarie
di
Erdogan
che
non
ha
esitato
a
piazzare
anche
in
mimetica
molti
suoi
fedelissimi
–
apparsi
poco
risoluti
e
incapaci
di
piazzare
una
“spallata”
al
regime.
Insomma
il
“tintinnio
di
sciabole”
non
ha
intimorito
il
Sultano
Erdogan
che
esce
notevolmente
rafforzato
da
questo
inciampo,
con
sempre
meno
oppositori
al
suo
progetto
di
riforma
della
costituzione
e
dello
stato
in
senso
presidenzialista.
Fin
dagli
esordi
del
tentativo
di
colpo
di
stato
però
i
militari
ribelli
sono
apparsi
meno
decisi
dei
loro
avversari
– i
sostenitori
di
Erdogan
–
più
divisi
e
soprattutto
incapaci
di
tirarsi
dietro
il
malcontento
popolare
e
tutti
i
settori
delle
forze
armate
turche.
Così
con
la
prima
armata
di
terra,
tutta
la
polizia,
la
gendarmeria
e la
marina
fedeli
al
presidente,
in
poche
ore
si
sono
spente
le
mire
dell’esercito
sulla
politica
di
Ankara.
E
poco
importa
se
fra
gli
arrestati
compaiono
nomi
eccellenti
delle
gerarchie
militari
come
l’attendente
militare
del
presidente
il
colonnello
Ali
Yazici
e il
comandante
della
terza
armata
Erdal
Ozturk,
o la
mente
del
golpe
Akin
Öztürk,
già
capo
di
Stato
maggiore
dell’aviazione.
Quello
che
è
ormai
di
dominio
pubblico
è
che
più
che
un
golpe
forse
si è
trattato
di
un
ammutinamento
o di
un
tentativo
disperato
di
coinvolgere
la
popolazione
in
un’insurrezione.
Sicuramente
l’esiguo
numero
di
effettivi
e
l’opposizione
di
tutti
i
partiti
in
parlamento
–
kemalisti
del
Chp,
nazionalisti
del
Mhp
e
sinistra
e
minoranza
curda
del
Hdp
– ha
contribuito
al
fallimento
di
questo
tentativo,
che
rimane
però
avvolto
in
una
serie
di
ambiguità
non
di
poco
conto:
i
golpisti
sono
entrati
in
azione
solo
ad
Ankara
e
Istanbul
non
in
piena
notte
come
nei
classici
colpi
di
Stato,
ma
intorno
alle
22,00
scoprendo
il
fianco
alla
reazione
popolare
e
nessun
politico
di
primo
piano
è
stato
arrestato.
Senza
scadere
in
visioni
complottiste
semplificanti,
l’impressione
generalizzata
è
quella
di
un
golpe
fantoccio,
per
certi
versi
eterodiretto
dallo
stesso
presidente
o
quantomeno
controllato
da
corta
distanza
dagli
uomini
dei
servizi
segreti
a
lui
fedeli.
Perché
è
ormai
certezza
che
in
pochi
conoscessero
il
reale
obiettivo
delle
operazioni
militari,
che
sembra
addirittura
sia
stato
mascherato
da
esercitazione,
travolgendo
inconsapevoli
reclute
che
non
si
sono
rese
conto
della
reale
posta
in
gioco.
Tutta
la
debolezza
dell’esercito
turco
è
apparsa
maestosa
nelle
foto
post-golpe
riguardanti
il
centro
di
detenzione
–
una
palestra
poco
fuori
Ankara
nel
complesso
dove
ha
sede
la
scuola
di
polizia
– in
cui
appaiono
svestiti
e
legati
quasi
tutti
i
militari
ribelli,
spesso
giovani
reclute
o
uomini
avvizziti
di
mezz’età,
decisamente
lontani
dai
campi
di
battaglia,
salvo
rare
eccezioni.
Nella
sostanza
è
Erdogan
a
sfruttare
al
meglio
gli
eventi.
Oltre
diecimila
gli
arresti:
non
solo
militari,
ma
soprattutto
giudici,
rettori
delle
università
e
dipendenti
pubblici.
Nient’altro
che
una
sorta
di
pogrom
di
massa
contro
quei
settori
dell’appartato
statale
non
ancora
allineati
ai
voleri
di
Erdogan
e
del
suo
Partito,
l’Akp.
Insomma
quello
che
appare,
sembra
contraddire
la
narrazione
dei
fatti
e da
più
parti
si
sono
sollevate
le
accuse
e i
sospetti
di
false
flag,
di
un
colpo
di
stato
quantomeno
facilitato
da
Erdogan
che
ha
deciso
di
capitalizzare
in
senso
politico
quest’evento,
ponendo
fine
ai
mesi
in
cui
la
sua
popolarità
crollava
sotto
gli
scandali
del
governo,
dagli
errori
della
guerra
siriana
alle
tensioni
con
la
Russia
di
Putin.
Ma
non
è la
prima
volta
come
ricordato
all’inizio
di
questa
breve
analisi
che
la
Turchia
subisce
un
colpo
di
Stato
manu
militari.
Diverse
volte
gli
uomini
in
divisa
hanno
condizionato
la
politica
del
paese,
al
punto
da
diventarne
quasi
una
condizione
strutturale.
In
pochi
lo
ricordano
ma
lo
stesso
Mustafa
Kemal,
padre
dell’odierna
Repubblica
turca,
salì
al
potere
all’inizio
degli
Anni
Venti
con
un
golpe.
Un
golpe
che
maturò
e si
strutturò
in
seguito
ai
fallimenti
dell’Impero
Ottomano,
uscito
malconcio
dalla
Prima
guerra
mondiale,
ma
soprattutto
minato
al
suo
interno
da
una
serie
di
movimenti
“nazionali”
che
aspiravano
alla
libertà.
Sui
libri
di
storia
su
cui
siamo
cresciuti,
proprio
l’Impero
Ottomano
viene
ricordato
come
il
“grande
malato
dell’Ottocento”.
È a
causa
della
sua
“decadenza”
che
un
gruppo
di
giovani
della
classe
dirigente
comincia
a
desiderare
per
la
Sublime
porta,
una
svolta
netta.
E
così
se
la
Turchia
moderna
vede
la
luce
in
seguito
a un
colpo
di
stato,
per
tutta
la
sua
storia
la
Repubblica
è
costantemente
influenzata
da
forze
interessate
a
garantire
una
certa
stabilità.
Nel
1960
i
militari
impiccarono
il
primo
ministro
Menderes,
colpevole
con
il
suo
Partito
democratico
(liberale
in
economia
ma
di
orientamento
conservatore)
di
aver
favorito
un
certo
risveglio
islamico,
contrario
al
disegno
kemalista.
A
guidarli
fu
Alparslan
Türkeş,
un
colonnello
dell’esercito.
Undici
anni
più
tardi
andò
in
scena
senza
spargimenti
di
sangue
la
rimozione
del
governo
di
Demirel.
Il
12
marzo
1971
un
memorandum
dell’esercito
caldeggiò
l’instaurazione
di
un
governo
forte,
capace
di
riportare
a
“dritta”
la
barra
della
politica.
La
cui
conseguenza
diretta
furono
le
dimissioni
dell’esecutivo.
Ancora
all’inizio
degli
anni
Ottanta
in
conseguenza
dell’instabilità
politica
e
della
guerra
civile
a
bassa
intensità
fra
nazionalisti
e
comunisti,
il
generale
Kenan
Evran
esautorò
il
governo
e il
parlamento
il
12
settembre
1980.
E
ancora
nel
1997
quando
sul
premier
Erbakan,
piovve
la
sfiducia
delle
forze
armate,
al
punto
da
convincere
il
leader
del
partito
islamista
alle
dimissioni.
Insomma
il
peso
dell’esercito
nella
vita
della
Turchia
moderna
sembra
iscritto
nel
suo
Dna
e
forse
solo
il
nuovo
Sultano
Erdogan
è
riuscito
a
limitarlo,
oppure
a
sfruttarlo
a
suo
vantaggio.
Almeno
per
il
momento.