attualità
STRETTA DI ERDOĞAN SUI SOCIAL
censura alla turca
di Leila Tavi
L’autoritario presidente ha dichiarato,
in un discorso pubblico a inizio luglio,
che la Turchia non è la Repubblica delle
Banane”, che non può essere lasciata in
balia dei social che raccontano solo
menzogne e pubblicano insulti. La
denuncia di Erdoğan sui contenuti dei
social media e sulle piattaforme di
streaming video annuncia un inasprimento
di una legge, la 5651, nota come
Internet Act (IA), promulgata il 4
maggio 2007, già draconiana di per sé,
che regolamenta le pubblicazioni online.
La Turchia presenta il maggior numero di
richieste legali a livello
internazionale per la rimozione di
contenuti dalle piattaforme di social
media e recentemente Netflix ha dovuto
rimuovere un episodio di una serie per
gli spettatori turchi.
L’argomento della localizzazione dei
dati è stato più volte all’ordine del
giorno del Parlamento turco dall’inizio
dell’anno e, nell’aprile scorso, il
Partito del Movimento Nazionalista,
alleato del partito di governo, aveva
già proposto che gli utenti fossero
registrati sui social media mediante un
numero univoco identificativo della
persona.
Il primo dei kolossal di internet ad
avere problemi legali in Turchia è stato
Google, che nell’autunno del 2019 è
stato sanzionato dal governo per 1,5
milioni di lire turche al giorno per
aver violato la normativa sulla
concorrenza. La risposta di Google è
stata una dura reazione, con l’annuncio,
alla fine dello scorso anno, che non
sarebbero state rilasciate licenze per
dispositivi Android in Turchia,
danneggiando non solo i singoli utenti e
milioni di smartphone venduti in
Turchia, ma anche i servizi bancari e
finanziari che si affidano in larga
parte al supporto del sistema operativo
Android. Il braccio di ferro tra Google
e il governo turco è durato solo pochi
giorni ed è terminato con una trattativa
tra le due parti: Google ha accettato di
installare dei server in Turchia per
memorizzare ed elaborare i dati degli
utenti. Già entro la fine di questo anno
è previsto il 50% della copertura
dell’intero territorio turco, come
riportato dai giornalisti Necdet
Çalışkan e Gurkan Ozturan. Anche
Facebook, Instagram e Whatsapp
starebbero adeguando i loro server in
Turchia per venire incontro alle
richieste del governo. La nuova
normativa dovrebbe prevedere, inoltre,
l’obbligo di aprire sedi in Turchia e il
pagamento delle tasse per la gestione
del traffico internet locale.
La stretta sulla libera circolazione dei
dati attraverso i social rientra in un
più generale inasprimento della legge
sulle imprese digitali, che se non
rispetteranno la rigida normativa si
vedranno ridurre la larghezza della
banda del 50% come primo avvertimento e
successivamente, al persistere del
comportamento “fuori legge”, saranno
bloccate su internet. Le aziende
digitali globali che aprono uffici
locali in Turchia saranno tenute anche a
localizzare tutti i dati che hanno
origine in Turchia, sia sotto forma di
post sui social media o e-mail, che di
dati personali. Nel caso in cui tale
richiesta non sia soddisfatta, sono
previste sanzioni pecuniarie che vanno
dal milione ai cinque milioni di lire
turche al giorno. Inoltre, se le aziende
non rimuovere i contenuti in 72 ore, su
richiesta del governo, dovranno pagare
una multa compresa tra 100.000 un
milione di lire turche.
Come scusa da parte del governo per la
stretta su internet è stata addotta
quella delle misure per la sicurezza
digitale per contenere gli innumerevoli
attacchi di hacker, ma il consigliere
municipale di Istanbul, che appartiene
al partito di opposizione IYI, Taylan
Yıldız, esperto in materia, ha
dichiarato che la normativa proposta dal
governo non servirà a proteggersi dagli
attacchi informatici o dai malware. Come
conseguenza ci sarà soltanto una forte
pressione sulla privacy e sulla libera
espressione dei cittadini turchi,
soprattutto sui commenti e sulle
dichiarazioni politiche.
Il governo sostiene, inoltre, che la
nuova normativa servirà a dare una
spinta all’economia turca, in realtà il
giudizio del mondo della finanza locale,
che dipende de facto dalle tecnologie
digitali, prevede un peggioramento
dell’economia, una volta che la legge
sul “protezionismo digitale” entrerà in
vigore. Inoltre l’online banking, le
transazioni bancarie, le operazioni
finanziarie e le attività delle imprese
digitali dovranno fare affidamento ai
server nazionali, ciò presuppone
ulteriori misure per quanto riguarda il
rispetto del diritto di proprietà da
parte dello Stato turco in termini di
blocco digitale delle transazioni
finanziarie, nel caso in cui qualcuno
dovesse essere accusato di un crimine.
Infine le imprese turche che operano in
rete si troveranno isolate e senza
possibilità di confronto con l’estero
per quanto riguarda innovazione e
sviluppo tecnologico, con una
conseguente fuga di cervelli e un
aumento dei prezzi dei servizi e dei
prodotti offerti sul solo mercato turco,
rispetto a quelli che il mercato globale
può offrire.
Nel frattempo il governo turco utilizza
la rete per la propaganda e per
screditare gli oppositori politici, come
Osman Kavala, ormai in carcere da quasi
mille giorni senza un giusto processo.
Martedì 14 luglio, gli avvocati di
Kavala hanno pubblicato un comunicato
per denunciare le false notizie che
l’agenzia di stampa Anadolu, vicina alle
posizioni governative, ha diffuso in
internet sul conto del loro assistito,
il cui nominativo è stato incluso tra i
sostenitori dell’organizzazione FETÖ, la
denominazione che il governo turco usa
per il Movimento di Gülen (Gülen
Hareketi), che considera un gruppo
terrorista. Diretto dall’imam Fethullah
Gülen, un esule negli Stati Uniti perché
considerato l’ideatore del golpe del 15
luglio 2016, il gruppo di di matrice
islamica attivo dagli anni Settanta del
secolo scorso, è formato da una rete di
associazioni locali, di giornalisti,
uomini d’affari. Alleato di Erdoğan fino
al 2002, Gülen lo ha appoggiato nella
sostituzione dei vertici kemalisti in
settori strategici, come la polizia e la
magistratura, ma anche l’esercito, anche
con l’utilizzo di processi farsa e di
concorsi truccati. Alla fine del 2013,
Erdoğan, resosi conto del peso politico
che Gülen aveva acquisito, riabilitò i
generali kemalisti e mise al bando il
Movimento di Gülen, accusando i seguaci
del suo ex alleato di aver tramato alle
sue spalle, nel dicembre 2013, con un
“colpo di Stato giudiziario” che aveva
portato davanti al giudice dei parenti
del presidente per un’appropriazione
indebita di fondi pubblici.
Certo è che nella complicata vicenda e
nei precari equilibri politici tra
Erdoğan e Gülen Osman Kavala non ha
avuto mai nessun ruolo, impegnato nella
sua strenua lotta a trasformare il suo
Paese in una democrazia sviluppata, in
continuo dialogo con l’Occidente.
Un Occidente da cui invece Erdoğan
sembra volersi allontanare, adesso che
ha annunciato di voler trasformazione di
nuovo il museo di Hagia Sophia in
moschea. La cattedrale fu
originariamente costruita nel IV secolo,
ma la struttura attuale risale al VI
secolo. Così, nei suoi quasi 1700 anni
di storia, l’Hagia Sophia ha avuto tre
funzioni: ha rappresentato per 1.100
anni un luogo di culto cristiano, per
500 anni un luogo di culto musulmano, da
quando il sultano Mehmed II, che regnava
sull’Impero Ottomano, catturò
Costantinopoli. Nel 1935 il primo
presidente turco, Mustafa Kemal Ataturk,
l’ha trasformata in un museo.
I vertici della Chiesa cristiana, sia
cattolica che ortodossa, hanno criticato
la decisione di Erdoğan, mostrandosi
uniti, nonostante i dissidi interni tra
il Patriarca ecumenico di Costantinopoli
e il Patriarca di Mosca, a seguito dello
scisma della Chiesa ortodossa ucraina
del 2018. Il Patriarca Bartolomeo I di
Costantinopoli, il Patriarca Kirill di
Mosca e il Patriarca Teofilo III di
Gerusalemme, tre dei cinque vescovi più
anziani dell’Ortodossia orientale, hanno
tutti chiesto il mantenimento dello
status di museo di Hagia Sophia. Anche
Papa Francesco ha espresso il suo
rammarico, perché per quasi un secolo
l’edificio ha rappresentato un luogo
neutrale di inclusione per cristiani e
musulmani e la decisione di trasformarlo
in un luogo di esclusione da parte di
Erdoğan non fa che inasprire le tensioni
religiose e isolare ancora di più la
Turchia nello scacchiere internazionale. |