[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 151 / LUGLIO 2020 (CLXXXII)


attualità

STRETTA DI ERDOĞAN SUI SOCIAL
censura alla turca
di Leila Tavi

 

L’autoritario presidente ha dichiarato, in un discorso pubblico a inizio luglio, che la Turchia non è la Repubblica delle Banane”, che non può essere lasciata in balia dei social che raccontano solo menzogne e pubblicano insulti. La denuncia di Erdoğan sui contenuti dei social media e sulle piattaforme di streaming video annuncia un inasprimento di una legge, la 5651, nota come Internet Act (IA), promulgata il 4 maggio 2007, già draconiana di per sé, che regolamenta le pubblicazioni online. La Turchia presenta il maggior numero di richieste legali a livello internazionale per la rimozione di contenuti dalle piattaforme di social media e recentemente Netflix ha dovuto rimuovere un episodio di una serie per gli spettatori turchi.

L’argomento della localizzazione dei dati è stato più volte all’ordine del giorno del Parlamento turco dall’inizio dell’anno e, nell’aprile scorso, il Partito del Movimento Nazionalista, alleato del partito di governo, aveva già proposto che gli utenti fossero registrati sui social media mediante un numero univoco identificativo della persona.

Il primo dei kolossal di internet ad avere problemi legali in Turchia è stato Google, che nell’autunno del 2019 è stato sanzionato dal governo per 1,5 milioni di lire turche al giorno per aver violato la normativa sulla concorrenza. La risposta di Google è stata una dura reazione, con l’annuncio, alla fine dello scorso anno, che non sarebbero state rilasciate licenze per dispositivi Android in Turchia, danneggiando non solo i singoli utenti e milioni di smartphone venduti in Turchia, ma anche i servizi bancari e finanziari che si affidano in larga parte al supporto del sistema operativo Android. Il braccio di ferro tra Google e il governo turco è durato solo pochi giorni ed è terminato con una trattativa tra le due parti: Google ha accettato di installare dei server in Turchia per memorizzare ed elaborare i dati degli utenti. Già entro la fine di questo anno è previsto il 50% della copertura dell’intero territorio turco, come riportato dai giornalisti Necdet Çalışkan e Gurkan Ozturan. Anche Facebook, Instagram e Whatsapp starebbero adeguando i loro server in Turchia per venire incontro alle richieste del governo. La nuova normativa dovrebbe prevedere, inoltre, l’obbligo di aprire sedi in Turchia e il pagamento delle tasse per la gestione del traffico internet locale.

La stretta sulla libera circolazione dei dati attraverso i social rientra in un più generale inasprimento della legge sulle imprese digitali, che se non rispetteranno la rigida normativa si vedranno ridurre la larghezza della banda del 50% come primo avvertimento e successivamente, al persistere del comportamento “fuori legge”, saranno bloccate su internet. Le aziende digitali globali che aprono uffici locali in Turchia saranno tenute anche a localizzare tutti i dati che hanno origine in Turchia, sia sotto forma di post sui social media o e-mail, che di dati personali. Nel caso in cui tale richiesta non sia soddisfatta, sono previste sanzioni pecuniarie che vanno dal milione ai cinque milioni di lire turche al giorno. Inoltre, se le aziende non rimuovere i contenuti in 72 ore, su richiesta del governo, dovranno pagare una multa compresa tra 100.000 un milione di lire turche.

Come scusa da parte del governo per la stretta su internet è stata addotta quella delle misure per la sicurezza digitale per contenere gli innumerevoli attacchi di hacker, ma il consigliere municipale di Istanbul, che appartiene al partito di opposizione IYI, Taylan Yıldız, esperto in materia, ha dichiarato che la normativa proposta dal governo non servirà a proteggersi dagli attacchi informatici o dai malware. Come conseguenza ci sarà soltanto una forte pressione sulla privacy e sulla libera espressione dei cittadini turchi, soprattutto sui commenti e sulle dichiarazioni politiche.

Il governo sostiene, inoltre, che la nuova normativa servirà a dare una spinta all’economia turca, in realtà il giudizio del mondo della finanza locale, che dipende de facto dalle tecnologie digitali, prevede un peggioramento dell’economia, una volta che la legge sul “protezionismo digitale” entrerà in vigore. Inoltre l’online banking, le transazioni bancarie, le operazioni finanziarie e le attività delle imprese digitali dovranno fare affidamento ai server nazionali, ciò presuppone ulteriori misure per quanto riguarda il rispetto del diritto di proprietà da parte dello Stato turco in termini di blocco digitale delle transazioni finanziarie, nel caso in cui qualcuno dovesse essere accusato di un crimine.

Infine le imprese turche che operano in rete si troveranno isolate e senza possibilità di confronto con l’estero per quanto riguarda innovazione e sviluppo tecnologico, con una conseguente fuga di cervelli e un aumento dei prezzi dei servizi e dei prodotti offerti sul solo mercato turco, rispetto a quelli che il mercato globale può offrire.

Nel frattempo il governo turco utilizza la rete per la propaganda e per screditare gli oppositori politici, come Osman Kavala, ormai in carcere da quasi mille giorni senza un giusto processo. Martedì 14 luglio, gli avvocati di Kavala hanno pubblicato un comunicato per denunciare le false notizie che l’agenzia di stampa Anadolu, vicina alle posizioni governative, ha diffuso in internet sul conto del loro assistito, il cui nominativo è stato incluso tra i sostenitori dell’organizzazione FETÖ, la denominazione che il governo turco usa per il Movimento di Gülen (Gülen Hareketi), che considera un gruppo terrorista. Diretto dall’imam Fethullah Gülen, un esule negli Stati Uniti perché considerato l’ideatore del golpe del 15 luglio 2016, il gruppo di di matrice islamica attivo dagli anni Settanta del secolo scorso, è formato da una rete di associazioni locali, di giornalisti, uomini d’affari. Alleato di Erdoğan fino al 2002, Gülen lo ha appoggiato nella sostituzione dei vertici kemalisti in settori strategici, come la polizia e la magistratura, ma anche l’esercito, anche con l’utilizzo di processi farsa e di concorsi truccati. Alla fine del 2013, Erdoğan, resosi conto del peso politico che Gülen aveva acquisito, riabilitò i generali kemalisti e mise al bando il Movimento di Gülen, accusando i seguaci del suo ex alleato di aver tramato alle sue spalle, nel dicembre 2013, con un “colpo di Stato giudiziario” che aveva portato davanti al giudice dei parenti del presidente per un’appropriazione indebita di fondi pubblici.

Certo è che nella complicata vicenda e nei precari equilibri politici tra Erdoğan e Gülen Osman Kavala non ha avuto mai nessun ruolo, impegnato nella sua strenua lotta a trasformare il suo Paese in una democrazia sviluppata, in continuo dialogo con l’Occidente.

Un Occidente da cui invece Erdoğan sembra volersi allontanare, adesso che ha annunciato di voler trasformazione di nuovo il museo di Hagia Sophia in moschea. La cattedrale fu originariamente costruita nel IV secolo, ma la struttura attuale risale al VI secolo. Così, nei suoi quasi 1700 anni di storia, l’Hagia Sophia ha avuto tre funzioni: ha rappresentato per 1.100 anni un luogo di culto cristiano, per 500 anni un luogo di culto musulmano, da quando il sultano Mehmed II, che regnava sull’Impero Ottomano, catturò Costantinopoli. Nel 1935 il primo presidente turco, Mustafa Kemal Ataturk, l’ha trasformata in un museo.

I vertici della Chiesa cristiana, sia cattolica che ortodossa, hanno criticato la decisione di Erdoğan, mostrandosi uniti, nonostante i dissidi interni tra il Patriarca ecumenico di Costantinopoli e il Patriarca di Mosca, a seguito dello scisma della Chiesa ortodossa ucraina del 2018. Il Patriarca Bartolomeo I di Costantinopoli, il Patriarca Kirill di Mosca e il Patriarca Teofilo III di Gerusalemme, tre dei cinque vescovi più anziani dell’Ortodossia orientale, hanno tutti chiesto il mantenimento dello status di museo di Hagia Sophia. Anche Papa Francesco ha espresso il suo rammarico, perché per quasi un secolo l’edificio ha rappresentato un luogo neutrale di inclusione per cristiani e musulmani e la decisione di trasformarlo in un luogo di esclusione da parte di Erdoğan non fa che inasprire le tensioni religiose e isolare ancora di più la Turchia nello scacchiere internazionale.

RUBRICHE


attualità

ambiente

arte

filosofia & religione

storia & sport

turismo storico

 

PERIODI


contemporanea

moderna

medievale

antica

 

ARCHIVIO

 

COLLABORA


scrivi per instoria

 

 

 

 

PUBBLICA CON GBE


Archeologia e Storia

Architettura

Edizioni d’Arte

Libri fotografici

Poesia

Ristampe Anastatiche

Saggi inediti

.

catalogo

pubblica con noi

 

 

 

CERCA NEL SITO


cerca e premi tasto "invio"

 


by FreeFind

 

 

 

 

 


 

 

 

[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]