attualità
I MILLE GIORNI
DI CARCERE DI OSMAN KAVALA
L’ACCANIMENTO DEL
REGIME
di Leila Tavi
Lunedì 27 luglio ha segnato il millesimo
giorno della prigionia di Osman Kavala.
Il filantropo e fondatore dell’Anadolu
Kültür, conosciuto per aver promosso
in Turchia la tolleranza per la
diversità culturale, è stato arrestato
il 18 ottobre 2017 e incarcerato il 1
novembre successivo, con l’accusa di
essere uno degli ideatori della protesta
di Gezi del 2013.
Le forti pressioni delle istituzioni
internazionali hanno portato alla
sentenza della Corte Europea dei Diritti
dell’uomo nel dicembre 2019 con l’ordine
di immediato rilascio per Kavala,
recepito dalla Corte di Istanbul il 18
febbraio 2020, per cui Kavala è stato
assolto per mancanza di prove.
L’attivista è stato arrestato, però,
dopo poche ore con una nuova accusa di
coinvolgimento nel tentativo di colpo di
stato del 2016 e i giudici che avevano
ordinato il suo rilascio sono stati
posti sotto inchiesta.
Oltre alla mancanza di prove solide nel
capo d’imputazione a Kavala è stato
negato anche un giusto processo.
L’intero processo è stato irregolare
dall’inizio alla fine, a partire dalla
sua detenzione all’aeroporto Atatür di
Istanbul nell’ottobre 2017. Selina
Özuzun Doğan, deputata del principale
partito popolare repubblicano di
opposizione (CHP - Cumhuriyet Halk
Partisi), ha chiesto al Parlamento
chiarimenti sul perché a Kavala non
fosse stata emessa una normale richiesta
di comparizione in tribunale, come
sarebbe dovuto essere, se ci fosse stata
un’indagine regolare.
La polizia ha impiegato tredici giorni
per l’interrogatorio dopo il fermo.
Quando il procuratore ha finalmente
ordinato l’arresto ufficiale di Kavala,
lo ha fatto senza acquisire le
dichiarazioni di Kavala. Durante tutta
la fase iniziale della vicenda, i legali
di Kavala non hanno avuto accesso agli
atti ufficiali relativi al caso del loro
assistito, considerato che è stata
dichiarata da parte delle autorità
giudiziarie la riservatezza sul caso.
Ci sono voluti sedici mesi per emettere
un atto d’accusa contro Kavala, che alla
fine è arrivato solo nel febbraio 2019.
Nel frattempo il tribunale ha rigettato
le richieste istruttorie da parte dei
legali di Kavala per opporsi alla
detenzione preventiva del loro
assistito. Anche quando, il 27 aprile
2018, la difesa ha sostenuto che la
detenzione costituiva una violazione
della libertà personale (citando una
recente sentenza della Corte
Costituzionale su un caso simile di
detenzione preventiva), la corte ha
respinto le richieste di udienza e ha
deciso, senza consultare Kavala o i suoi
avvocati, di continuare la detenzione.
La corte ha anche tenuto un’udienza di
riesame il 3 agosto dello stesso anno,
con un avvocato nominato dall’Ordine
degli Avvocati di Istanbul, senza
notificare ai difensori di Kavala,
ignorando in un secondo momento
un’obiezione presentata dal team di
Kavala. Il tribunale ha concesso a
Kavala un’udienza di detenzione solo il
30 aprile 2019, un anno e mezzo dopo il
suo arresto, e sei settimane prima
dell’inizio del processo.
Osman Kavala è stato recentemente
intervistato nel carcere di Silivri,
dove sta scontando la sua pena, dal
quotidiano greco Ethnos.
Nell’intervista l’ex uomo di affari ha
sottolineato come sia necessario un
processo di democratizzazione nel suo
Paese, per permettere che ci sia un
clima politico in cui i diritti umani e
le libertà fondamentali siano tutelati
da norme di legge universalmente
applicabili. Per raggiungere questo
obiettivo, secondo Kavala, sono
necessari concreti passi avanti verso la
democratizzazione da parte di tutti
coloro che credono nei valori di
giustizia, libertà ed eguaglianza,
indipendentemente dal loro orientamento
politico.
Il processo di democratizzazione in
Turchia è stato rallentato ulteriormente
dall’emergenza sanitaria, che ha inciso
su una crisi economica già in atto. La
situazione è apparentemente così grave
che il presidente Erdoğan si è sentito
obbligato a lanciare una campagna di
raccolta fondi su larga scala per i più
bisognosi.
La campagna “Siamo noi la nostra
Turchia” (Biz
Bize Yeteriz Türkiyem) ha
messo insieme 2.105.007.780 lire turche
entro la fine di luglio 2020. I
contributi sono arrivati soprattutto da
parte di istituzioni para-governative e
società affiliate allo Stato, ciò ha
suscitato critiche pungenti da parte
delle opposizioni politiche. È
improbabile che tale cifra, unita al il
pacchetto di aiuti stanziati dal governo
di 14 miliardi di euro, sia sufficiente
a risanare la già compromessa economia
turca, come riportato dal dossier
Corona Papers
di Yavuz Köse, professore di
studi turchi all’Università di Vienna.
Il Presidente Erdoğan si è mostrato
durante l’emergenza sanitaria come un
“buon padre di famiglia”, preoccupato e
premuroso per il suo popolo. Mascherine
e disinfettanti sono stati distribuiti
gratuitamente in tutto il territorio da
parte di agenti di polizia e di altri
funzionari statali come “doni” del
presidente.
La pandemia ha inferto un duro colpo al
regime autoritario turco. Nonostante
tutto, la specifica combinazione di
autoritarismo e costruzione del consenso
dell’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi),
basato sulla teoria gramsciana, è stata
cruciale per comprendere la resilienza
del suo potere egemonico.
In
aggiunta a una serie di politiche
populiste attuate con successo, la
ricerca dello sviluppo si è rivelata un
ingrediente vitale per la costruzione
del consenso di Erdoğan. Lo sviluppismo
attuato da Erdoğan ha utilizzato lo
strumento del potere statale per dare
priorità all’obiettivo di raggiungere e
sostenere una crescita economica
continua, considerata per lungo tempo
l’ingrediente principale in termini di
prosperità economica e, quindi, di
successo politico, indipendentemente dai
costi sociali e ambientali, come
illustrato da Fikret Adaman e Akbulut
Bengi nel loro paper
Erdoğan’s three-pillared neoliberalism:
Authoritarianism, populism and
developmentalism.
Il caso Kavala dimostra come il
presidente Erdoğan abbia ormai quasi
completamente eroso i principi
fondamentali dello Stato di diritto in
Turchia. Oggi la magistratura altamente
politicizzata funziona come una potente
arma contro dissidenti e oppositori
politici ed è la longa manus di
Erdoğan, il leader che con i suoi lunghi
diciassette anni al potere, ha superato
anche il padre della Patria, Kemal
Atatürk, in carica come presidente dal
1923 al 1938.
Come obiettivo e arma del potere
politico, il sistema giudiziario turco è
stato al centro degli sforzi di Erdoğan
per smantellare le istituzioni
democratiche chiave e stabilire un
sistema presidenziale onnipotente, come
ha sottolineato Merve Tahiroglu nel suo
recente saggio
How Turkey’s Leaders Dismantled the Rule
of Law.
In considerazione del malcontento
popolare e del calo di popolarità nei
sondaggi, Erdoğan, in vista delle
elezioni parlamentari e presidenziali
del 2023, ha inasprito le misure per
contrastare gli oppositori politici.
Una delle armi più efficaci adottate dal
governo turco per reprimere la libertà
di manifestazione del pensiero è la
recente legge sui social media, noto
anche come “legge sulla censura”,
approvata dal Parlamento mercoledì 29
luglio 2020 con i voti dell’AKP e del
MHP (Milliyetçi Hareket Partisi). La
legge impone ai siti di social media
stranieri di nominare rappresentanti con
sede in Turchia per rispondere alle
preoccupazioni delle autorità in merito
ai contenuti e prevede scadenze serrate
per la rimozione dei contenuti online.
Mahir Ünal,
direttore di AKP Promotions & Media,
organizzazione vicina al governo, ha
così commentato la nuova normativa sui
social media: “Continuiamo la nostra
lotta per la Cyber Patria. Il nostro
scopo è quello di tutelare i diritti
degli utilizzatori della rete. Abbiamo
basato la nostra legge sul regolamento
tedesco”.
In base alle nuove normative, le aziende
potrebbero essere soggette a multe, al
blocco della pubblicità o alla riduzione
della larghezza di banda fino al 90%,
fino ad arrivare all’oscuramento dei
siti.
L’ondata à rebours di
democratizzazione continua in Turchia,
con una società civile indebolita e
ancora impreparata a far fronte a un
regime autoritario che comprime le
libertà individuali all’interno del
Paese, per espandere la sua influenza
all’estero attraverso il
Neo-ottomanesimo. |