attualità
TUNISIA:
COLPO DI STATO O RIMPASTO DI GOVERNO?
IL GRANDE DILEMMA
di Gian Marco Boellisi
I decenni passano, ma le conseguenze
delle primavere arabe continuano a
evolversi in una spirale d’instabilità
apparentemente senza fine. Lo si può
vedere in tutti gli stati del
Mediterraneo dove questa grande ondata
di proteste fece breccia e dove ancora
oggi, dopo 10 anni, si continua a
registrare violenza, instabilità,
disperazione.
Uno dei pochi casi che sembrava essere
esentato (parzialmente) da questo amaro
destino è sempre stata la Tunisia, la
quale ha cercato in tutti i modi di
raggiungere il tanto agognato sistema
democratico dopo 23 anni di dittatura.
Nonostante alcuni progressi sostanziali
in tale obiettivo, lo scorso luglio 2021
il presidente della Repubblica Kais
Saied ha esautorato tutti gli organi di
stato, tra i quali Parlamento, svariati
ministeri e anche la figura del premier,
a seguito di un blocco quasi completo
che la politica tunisina si era
ritrovata a vivere fino a poche
settimane fa.
Sebbene non sia ancora chiaro se l’atto
di Saied sia un cambio di governo un po’
inconsueto o un vero e proprio colpo di
stato, è molto importante cercare di
comprendere quanto sta avvenendo in
Tunisia in queste settimane e come ci si
è arrivati, in virtù soprattutto della
sua importanza oggettiva all’interno del
Mediterraneo allargato.
Partiamo da dei brevi cenni storici. La
Tunisia è stata sin dall’antichità una
delle culle della civiltà mediterranea.
Patria della più acerrima nemica di
Roma, Cartagine, la Tunisia nel corso
dei secoli è stata crocevia di
religioni, popoli, idee. Colonizzata da
parte della Francia nel 1881, ottenne
l’indipendenza da quest’ultima nel 1956
ed elesse come suo primo presidente
Habib Bourghiba, vero e proprio padre
fondatore della nazione tunisina.
Bourghiba esercitò un’ampia influenza
sul popolo tunisino all’indomani
dell’indipendenza, cercando di
incanalare la società tutta in quelle
che sarebbero state le grandi sfide del
ventesimo secolo. Contribuì attivamente
alla redazione della prima Costituzione
e ad avviare con successo la macchina
dello stato. Fu proprio in questo
periodo che la Tunisia acquisì la nomea
di paese arabo moderato. Infatti,
nonostante nella costituzione fu
affermata la validità dell’Islam come
religione dello Stato, fu vigorosamente
stabilita anche la laicità della
Repubblica Tunisina.
Negli anni successivi la Tunisia entrò
nel grande gioco della questione
israeliana, ospitando per qualche anno
la sede della Lega Araba a seguito degli
accordi di Camp David del 1978 che
avevano posto fine alla guerra dello Yom
Kippur. Nel 1987 il generale Zine
El-Abidine Ben Ali depose Bourghiba con
un colpo di stato, favorito tra l’altro
anche dai servizi segreti italiani
dell’epoca. Da allora la Tunisia ha
conosciuto un periodo di relativa
stabilità internazionale, come tutte le
dittature dell’area, da quella libica a
quella egiziana, a scapito tuttavia di
una repressione interna e di un
controllo totale dei mezzi di
comunicazione nazionali. Nonostante i
tentativi perpetrati negli anni da Ben
Ali, il movimento dei Fratelli
Musulmani, partito manifestazione
diretta delle aspirazioni dell’Islam
politico, riuscì a sopravvivere in
clandestinità.
Nel 2011 fu proprio dalla Tunisia che
partì il movimento delle Primavere
Arabe. Qui infatti il giovane ambulante
Mohamed Bouazizi si diede fuoco davanti
a un palazzo governativo di Sidi Bouzid
per protestare contro le ristrettezze
economiche a cui era costretto a far
fronte. Questo disperato gesto innescò
la miccia che avrebbe poi infiammato il
Mediterraneo tutto, cambiando la storia
per sempre.
A valle delle proteste e della caduta di
Ben Ali, la Tunisia dimostrò che nei
paesi fuoriusciti dalle Primavere fosse
possibile una strada alternativa, una
strada che non portasse necessariamente
a un ritorno in breve tempo alla
dittatura o a una guerra civile senza
fine. Infatti con l’instaurazione di un
governo pseudo-democratico, l’esperienza
di Tunisi ha costituito un faro di
speranza e un modello a cui tendere per
tutti gli altri paesi dell’area che
ancora stanno faticando per raggiungere
la stabilità.
Nonostante questo importante risultato,
la strada verso la normalizzazione dello
stato tunisino ha dovuto affrontare non
pochi rallentamenti e ostacoli. Nel
corso degli anni vi sono stati vari
blocchi del processo politico, dovuti
prevalentemente a disaccordi tra le
formazioni politiche createsi dalla
caduta della dittatura in poi.
Tra le più influenti vi è sicuramente
Ennahda (Movimento della Rinascita),
partito islamista di orientamento
moderato guidato attualmente da Rāshid
Ghannūshī e con il maggior consenso
relativo al giorno d’oggi nel paese.
Questo partito si è mostrato sicuramente
il più strutturato tra tutti i vari
schieramenti politici presenti oggi in
Tunisia, forte anche di un largo
consenso ottenuto tra gli strati più
poveri della società. Per quanto Ennahda
sia vicina ai Fratelli Musulmani, ha
mostrato la volontà di andare oltre le
classiche visioni associate all’Islam
politico. Appartiene infatti a Ennahda
Souad Abderrahim, donna che dal 2018 è
sindaco di Tunisi. Per inciso, è la
prima donna a ricoprire questo incarico
tra i paesi islamici.
Ritornando alla situazione odierna, dal
gennaio 2021 a questa parte la Tunisia è
stata paralizzzata dalla cosiddetta
“guerra delle 3 presidenze”, ovvero uno
stallo politico tra le 3 più alte
cariche dello stato: il presidente della
Repubblica Kais Saied, il presidente del
parlamento Rāshid Ghannūshī e il premier
Hichem Mechichi, terzo premier in carica
nell’arco di un anno.
Questo in primis perché nessun partito,
a seguito delle ultime elezioni, ha
ottenuto più del 25% delle preferenze.
Il presidente Saied si è quindi
rifiutato da allora di accettare il
rimpasto di governo proposto da Mechichi
e approvato da Ghannūshī, accusando
quattro dei nuovi ministri di conflitto
di interesse. Secondo alcuni analisti
questo blocco è stato compiuto anche per
evitare di perdere i propri uomini di
fiducia all’interno dell’esecutivo.
Questo ritardo è stato in parte permesso
per questi mesi a Saied poiché egli è un
professore di diritto costituzionale non
legato ad alcun partito tunisino, quindi
virtualmente una figura super partes.
Il risultato di questo blocco tuttavia è
stato una completa paralisi della
macchina statale tunisina. Non avendo un
esecutivo centrale a seguire le
dinamiche interne, si è avuto un aumento
della disoccupazione fino al livello
record del 18% e una diffusione
incontrollata di Covid-19, la quale ha
causato letteralmente il collasso del
sistema sanitario tunisino. Per quanto
il premier Mechichi abbia cercato di
scaricare la responsabilità sul ministro
della Salute licenziandolo, ciò non è
servito a nulla a risolvere il problema.
La situazione è arrivata a livelli tanto
intollerabili che lo scorso 25 luglio
2021, nel giorno del sessantaquattresimo
anniversario dell’Indipendenza Tunisina,
migliaia di persone sono scese in piazza
per protestare nelle strade di Tunisi,
Susa, Monastir e altre città del paese.
Cogliendo quest’opportunità, Saied ha
applicato l’Articolo 80 della
Costituzione, il quale consente al
presidente della Repubblica di assumere
il comando dello stato nel caso in cui
vi sia un “pericolo imminente che
minacci le istituzioni della nazione, la
sicurezza o l’indipendenza del Paese, e
che ostacoli il normale funzionamento
dello Stato”. Con l’aiuto dell’esercito,
Saied ha forzato la mano sugli alti
vertici del governo, estromettendo il
premier Mechichi, il presidente del
parlamento Ghannūshī, il ministro della
Giustizia, il ministro della Difesa,
svariati funzionari nei relativi
ministeri e ha anche sospeso il
parlamento per una durata di 30 giorni.
Oltre a queste cariche, sono state
colpiti anche vari funzionari nominati
dal premier Mechichi, tra cui il capo
dei Servizi Segreti e diverse cariche
del ministero dell’Interno. Infine è
stata chiusa anche la sede tunisina del
canale al-Jazeera nonché è stata
disposta una massiccia presenza delle
forze armate per le strade.
Per cercare di giustificare la sua
manovra, Saied ha affermato che “la
Costituzione non permette lo
scioglimento del Parlamento” ma che, in
caso di pericolo per lo stato, è
possibile sospenderne i lavori e proprio
per questo motivo è stata revocata
l’immunità ai deputati.
A quanto affermato dal presidente della
Repubblica, attualmente è prevista la
formazione di un nuovo governo, il quale
verrà guidato da lui e da un nuovo
premier di sua nomina. Da quanto letto
finora, quello perpetrato da Saied ha
tutte le fattezze per essere considerato
un colpo di stato. L’unica cosa che
separa Saied dal baratro che una simile
decisione potrebbe portare per la
Tunisia è il suo agire secondo la
Costituzione e da quel che avverrà nelle
prossime settimane. Alcuni analisti lo
hanno già ribattezzato “colpo di stato
costituzionale”, giusto per
sottolinearne le modalità completamente
anomale.
Una considerazione importante riguarda
la personalità del presidente della
Repubblica. Saied infatti ha fama di
essere una persona onesta, integerrima e
indipendente, motivo per il quale anche
le cancellerie estere hanno fatto
passare per il momento le sue manovre
politiche. A riprova di ciò, proprio la
popolazione tunisina che era scesa in
piazza ha acclamato le azioni di Saied
come uomo d’azione per il bene della
Tunisia.
A suscitare il favore del popolo vi è
stata anche una serie di arresti che ha
riguardato oltre 400 uomini d’affari
accusati di corruzione e finanziamenti
illeciti a partiti politici. Per quanto
il presidente del parlamento e leader di
Ennahda, Rāshid Ghannūshī, abbia
chiamato la protesta contro questo
golpe, il popolo non ha risposto alla
chiamata. Dall’altro lato Saied ha
promesso “grandinate di pallottole”
contro chiunque avesse sparato o colpito
le forze armate che stanno gestendo
l’ordine pubblico in questa fase,
facendo capire chi fosse l’autorità
ultima oggi in Tunisia.
Per la stragrande maggioranza delle
formazioni politiche tunisine la manovre
di Saied altro non sono che un colpo di
stato. Così la pensa Ennahda, così come
anche il blocco “Cuore della Tunisia”,
il partito “Corrente Democratica” e
tutte le altre formazioni in parlamento.
Tuttavia così non sono d’accordo le
grandi associazioni della società
civile, come la Confederazione
dell’Industria e del Commercio, l’Ordine
degli Avvocati e l’Ugtt, il più
importante sindacato dei lavoratori.
Queste formazioni vedono in Saied una
personalità garante dell’ordine dello
stato, lontano dagli interessi faziosi e
particolari dei singoli partiti, motivo
per il quale una buona parte parte
dell’elite tunisina così come dei
normali lavoratori sta supportando in
questo momento le azioni del presidente
della Repubblica.
Un fattore che risulta interessante è
che anche all’interno del partito
Ennahda vi siano varie correnti a favore
di Saied, mostrando quanto sia in realtà
frammentato il panorama politico
tunisino. Il partito risulta essere
finanziato sia da Turchia che dal Qatar
nell’ottica del sostegno multilaterale
alle formazioni vicine ai Fratelli
Musulmani. Tuttavia, nonostante
l’aumento oggettivo di consensi in
Tunisia, dal 2014 a oggi sono stati
eletti solo presidenti apertamente
laici, come Mohammed Essebsi, o
moderati, come Kais Saied. Questo a
testimonianza della vicinanza dei
tunisini alla laicità come valore
portante del proprio paese.
È infatti inevitabile che formazioni più
o meno radicali si affaccino sul
panorama politico in una così delicata
fase di transizione, ma finora la
Tunisia è stata l’unica che è riuscita a
tenerle a bada e a cercare di progredire
nonostante tutto. Infatti risulta
importante un sondaggio fatto pochi
giorni dopo il giro di vite compiuto da
Saied tra i cittadini tunisini, dove una
percentuale maggiore di due tunisini su
tre si trova favorevole a consegnare a
Saied pieni poteri in questa fase di
transizione. Alcuni analisti ritengono
che ciò sia anche in funzione di
bloccare ulteriori guadagni politici di
Ennahda, ma questo è veramente difficile
dirlo.
Da alcuni giornalisti presenti in loco
nei giorni immediatamente successivi al
passaggio di potere è emerso che per
rendere il proprio operato più popolare
tra la popolazione Saied avrebbe sospeso
per 30 giorni i pagamenti di
elettricità, acqua, telefono, internet e
tasse e inoltre il prezzo dei beni
primari sarebbe stato tagliato del 20%.
Al di là del populismo che rappresenta
la manovra in sé, è molto probabile che
Saied abbia deciso di muoversi in questa
maniera per concedersi il tempo per
formare il governo da lui promesso senza
avere fastidi dagli strati più poveri
della popolazione, che sono anche quelli
più volubili a convincimenti di natura
politica contro il suo operato. Questo
per quanto riguarda l’approvazione del
basso.
Per quella dall’alto invece Saied è
ancora più al sicuro. Infatti l’unico
organo che potrebbe andargli contro è la
Corte Costituzionale, organo super
partes per quanto riguarda le questioni
di “emergenze dello stato”. Tuttavia
essa non si è mai formata da quando è
stato cacciato Ben Ali proprio per lo
stallo politico di cui è stata
protagonista la Tunisia nell’ultimo
decennio. Quindi, in questo momento, non
vi è nessuno più in alto di Saied nella
catena di comando o decisionale dello
stato.
Il momento storico in cui si colloca
questo “colpo di stato costituzionale” è
tra i più delicati e difficili
dell’intera storia tunisina. Al di là
della ben nota pandemia, criminalità
diffusa, prezzi dei beni fondamentali
altalenanti, corruzione endemica e
debiti con i vari enti di credito
internazionali (Fondo Monetario
Internazionale fra tutti) stanno
portando la popolazione tunisina
sull’orlo del baratro. Tutta questa
serie di motivazioni ha condotto negli
anni alla crescita di consensi di
Ennahda, la quale oggi può fare la voce
grossa nella politica tunisina.
Vista in prospettiva, le mancate
rimostranze internazionali sull’operato
di Saied potrebbero altro non essere che
un silenzioso assenso da parte della
comunità internazionale alla sua
politica di mettere stabilità, anche con
una piccola dose di autoritarismo, alla
Tunisia. Infatti all’estero i partiti
tunisini sono visti da anni come un
insieme di formazioni senza alcun
progetto a lungo termine né tanto meno
affidabilità in sede nazionale e
internazionale. Motivo per cui qualche
membro della comunità internazionale in
particolare (Francia? Italia? chissà)
forse hanno dato un placet più o
meno esplicito a Saied prima che
quest’ultimo si muovesse.
Da recenti sondaggi è emerso che, nel
caso in cui si andasse alle elezioni
settimana prossima, la vittoria sarebbe
di Abir Moussi, leader del Partito dei
costituzionalisti liberi, il quale si
rifà senza nasconderlo troppo al regime
di Ben Ali. È singolare come in tutti
gli stati che sono stati sottoposti alla
primavera araba presto o tardi riemerga
questa nostalgia di un passato sicuro
seppur meno libero.
Ciò che è emerso a 10 anni dalle
rivoluzioni è stato fallimento su tutta
la linea dei movimenti creatisi durante
e all’indomani delle proteste, sia da un
punto di vista politico sia da quello
sociale. La Tunisia è stata l’unico
paese che a fatica è riuscita a mediare
in qualche maniera tra spinte
revansciste e islamiste conservatrici,
per arrivare infine alla situazione
tutto fuorché stabile di oggi.
In merito al versante estero, per quanto
la comunità internazionale non abbia
mosso rimostranze esplicite, al momento
ciò non significa che non stia
monitorando la situazione con estrema
attenzione. Francia e Italia in primis
sono molto preoccupate delle dinamiche
in Tunisia, sia per le storiche
relazioni che i due stati europei hanno
sempre intrattenuto con il vicino arabo
sia per una preoccupazione più che
fondata riguardante i flussi migratori.
Infatti l’interesse da parte
dell’Occidente alla faccenda tunisina
non è frutto di pura bontà di cuore, ma
solo ed esclusivamente finalizzato a un
monitoraggio dei possibili punti di
partenza dei migranti, che già ora
riempiono la costa libica e che, in caso
di fallimento dello stato tunisino,
potrebbero insediare anche le coste di
quest’ultimo.
Al momento attuale l’obiettivo
principale delle cancellerie europee è
quello di evitare che il frammentarismo
settario tunisino prenda il sopravvento
e che il caos venutosi a creare in Libia
dopo la caduta di Gheddafi si riproponga
parimenti qui. Dall’altro lato della
barricata vi sono forze esterne che
premono invece affichè questo avvenga, e
in particolar modo la Turchia. Cercando
di espandere la propria influenza in
ogni angolo di Mediterraneo e Medio
Oriente dove si crei l’opportunità,
Ankara cerca di far leva sin dalla
caduta di Ben Ali sulle radici culturali
islamiche della Tunisia, sovvenzionando
finanziariamente il partito Ennahda.
Sebbene l’obiettivo in Tunisia sia
quello di ottenere un qualcosa di
politicamente più stabile di quanto
presente oggi in Libia, ciò non toglie
che la Turchia sia disposta a tutto pur
di mettere le mani su un altro paese del
Mediterraneo.
In conclusione, la Tunisia che fino a
ora aveva brillato di luce propria
all’indomani delle primavere arabe
rischia oggi di spegnersi. A seguito
dell’instabilità ormai incontrollabile
che regna da qualche mese a questa
parte, il paese che ha costituito un
modello di riferimento di democrazia per
il mondo arabo rischia di perdere tutto
ciò che ha guadagnato in questi anni.
Le conseguenze di questi eventi avranno
potenziali ripercussioni su tutta l’area
del Mediterraneo allargato, ed è per
questo che vanno trattati con la massima
attenzione e prudenza. Le manovre di
Saied potrebbero essere all’atto pratico
risolutive per sbloccare una paralisi
che è durata per troppo tempo e che ha
già portato a dei danni non
indifferenti. Tuttavia solo le sue
azioni nelle prossime settimane potranno
dirci se passerà alla storia come un
politico previdente e responsabile o
solo come l’ennesimo incapace, abietto
dittatore. |