N. 148 - Aprile 2020
(CLXXIX)
La
peste
ateniese
del
V
secolo
a.C.
La
funesta
epidemia
nel
penetrante
racconto
di
Tucidide
di
Francesco
Biscardi
Poche
vicende
della
storia
greca
sono
così
ben
documentate
come
la
Guerra
del
Peloponneso
(431-404
a.C.),
il
“più
grande
sommovimento
che
sia
mai
avvenuto
fra
i
greci”,
secondo
le
parole
del
più
grande
storico
del
mondo
ellenico:
Tucidide,
a
cui
dobbiamo
la
dettagliata
descrizione
di
buona
parte
del
conflitto
(fino
agli
eventi
del
411),
nella
cui
fase
iniziale
si
inserisce
il
triste
episodio
della
peste
ateniese
del
430-429
a.C.
Vediamo
di
contestualizzare
l’episodio
all’interno
degli
avvenimenti
geopolitici
del
tempo:
la
Guerra
del
Peloponneso
era
scoppiata
l’anno
precedente,
nel
431,
a
seguito
di
alcuni
episodi
di
tensione
che,
alla
fine,
erano
conflagrati
nel
grande
scontro
fra
Sparta
e
Atene,
le
due,
potremmo
definirle
con
un
linguaggio
contemporaneo,
“superpotenze”
dell’epoca.
Alla
guida
di
Atene
vi
era
Pericle,
il
grande
statista
fautore
dell’egemonia
talassocratica
ed
economica
della
città.
Allo
scoppio
della
guerra
fu
lui
a
ideare
la
strategia
militare
da
adottare:
conscio
della
superiorità
spartana
sulla
terraferma,
lo
stratega
esortò
i
suoi
concittadini
a
evitare
gli
scontri
campali
per
puntare
tutto
sul
dominio
del
mare,
affidando
alla
flotta
il
compito
di
effettuare
puntuali
e
micidiali
raid
sulle
coste
del
Peloponneso,
logorando
così
il
commercio
e
gli
approvvigionamenti
dei
lacedemoni
e
dei
loro
alleati.
Presupposto
per
la
riuscita
di
questo
disegno
tattico
era
il
necessario
abbandono
delle
campagne
alle
scorribande
nemiche:
tutti
gli
abitanti
dell’Attica
furono
chiamati
a
rifugiarsi
all’interno
delle
“Lunghe
mura”,
il
grande
circuito
murario
che
univa
la
città
al
porto
del
Pireo,
fatte
costruire
da
Temistocle
all’indomani
delle
guerre
contro
i
persiani.
Il
disegno
di
Pericle
era
ben
congeniato
e
possiamo
ipotizzare
che
se
nessun
fattore
esterno
fosse
intervenuto
a
mutare
la
situazione,
alla
lunga
la
superiorità
economica
e
navale
ateniese
avrebbe
presumibilmente
fiaccato
ogni
velleità
bellica
spartana,
dando
ragione
allo
stratega
e
compensando
adeguatamente
i
sacrifici
compiuti
dalla
popolazione,
che
si
era
trovata
costretta
ad
abbandonare
le
proprie
case
e i
propri
terreni
alla
mercé
degli
avversari.
Tuttavia
questa
non
è
altro
che
un’ucronia,
mentre
quel
che
accadde
realmente
fu
che
in
soccorso
dei
lacedemoni
arrivò
al
porto
del
Pireo
dal
Vicino
Oriente
un
inaspettato
“ausilio”:
la
peste
o
più
probabilmente,
come
suggeriscono
oggi
molti
studiosi,
il
tifo
(ipotesi
che
sembra
avvalorata
da
recenti
indagini
condotte
sul
DNA
di
un
cadavere
risalente
agli
anni
dell’epidemia).
Prescindendo
dai
dubbi
sull’effettiva
natura
del
morbo,
quel
che
possiamo
asserire
con
certezza
è
che
esso
dilagò
con
estrema
facilità
e
virulenza,
tanto
che
il
bilancio
finale
delle
vittime
fu
catastrofico:
costò
la
vita
almeno
a un
quarto
della
popolazione
attica,
ammassata
all’interno
delle
fortificazioni
in
condizioni
igieniche
precarie,
ulteriormente
esacerbate
dalle
difficoltà
causate
dalla
guerra
in
corso
e
dal
probabile
inquinamento
delle
falde
acquifere.
Atene
visse
in
quell’anno
uno
dei
momenti
più
bui
della
sua
storia,
anche
perché
alle
vittime
in
territorio
cittadino
si
aggiunsero
quelle
di
altri
soldati
fuori
dai
suoi
confini:
infatti,
nel
430,
la
polis
era
contemporaneamente
impegnata
nell’assedio
di
Potidea,
colonia
di
Corinto,
il
cui
controllo
aveva
costituito
una
delle
cause
scatenanti
il
conflitto,
avendo
essa
rigettato
le
intimidazioni
ateniesi
di
recidere
i
rapporti
con
la
madrepatria
e di
abbattere
le
sue
mura.
Un
corpo
di
spedizione
partì
per
dar
man
forte
ai
propri
concittadini
nei
giorni
in
cui
la
peste
era
giunta
al
Pireo,
portando
così
il
morbo
fra
gli
assedianti
della
città
e
causando
anche
qui
moltissime
vittime.
Tralasciando
le
successive
vicende
della
Guerra
del
Peloponneso
e
limitandoci
a
ricordare
che
la
vittima
più
illustre
della
pestilenza
fu
Pericle,
è
arrivato
il
momento
di
soffermarci
sulla
toccante
testimonianza
di
Tucidide,
a
cui
siamo
debitori
di
una
accurata
descrizione
sintomatologica
dell’epidemia
e di
un
preciso
resoconto
del
comportamento
della
popolazione,
flagellata
dall’efferato
male.
Uno
scenario
tragico
in
cui,
riporta
lo
storico,
“più
grave
del
morbo
era
la
disperazione
che
s’impadroniva
di
coloro
che
si
accorgevano
di
essere
stati
contaminati,
perché,
presi
da
sfiducia,
si
abbandonavano
e
non
cercavano
di
opporsi
al
male,
ma
contagiandosi
nell’assistere
altri,
morivano
come
bestie:
e
questa
era
la
causa
maggiore
di
morìa”.
Orrore,
morte,
disperazione,
abbandono,
sono
i
sentimenti
che
il
male
procurava
negli
ateniesi,
portandoli
a
divenire
più
spietati
e
inclini
al
piacere
immediato,
meno
legati
ai
principi
di
onore
e
onestà
e
meno
attenti
ai
riti
e
alla
fede
religiosa:
“era
una
morìa
in
mezzo
a un
caos:
moribondi
che
rimanevano
ammucchiati
gli
uni
sugli
altri
anche
dopo
morti,
appestati
che
barcollavano
per
le
strade,
e si
affollavano,
già
mezzo
morti,
a
tutte
le
fonti
per
la
gran
sete.
[…]
Ebbe
inizio
per
Atene
l’immoralità
più
completa.
Ognuno
infatti,
vedendo
il
mutamento
repentino
di
cittadini
benestanti
che
improvvisamente
morivano,
e di
gente
che
fino
allora
non
possedeva
nulla
e ad
un
tratto
veniva
ad
avere
i
beni
di
quelli,
facilmente
ardiva
fare,
per
soddisfare
il
proprio
piacere,
ciò
che
prima
occultava.
Cosicché,
stimando
cosa
effimera
e la
vita
e i
beni
del
pari,
ricercavano
i
vantaggi
e i
piaceri
più
immediati.
[…]
Non
c’era
timor
degli
dèi
che
tenesse,
non
legge
umana”.
Il
penetrante
racconto
di
Tucidide
diviene
ancora
più
toccante
ai
nostri
giorni
in
cui
stiamo
affrontando
una
pandemia,
quale
il
COVID-19,
che
ha
messo
in
ginocchio
il
mondo:
la
disperazione
della
gente,
il
timore,
l’immagine
di
morte
e di
desolazione
che
promana
dalla
narrazione
del
grande
storico
antico
ci
porta
a
sentire
come
vicino
e
attuale,
per
i
suoi
tristi
effetti,
quell’evento
invece
così
lontano
nel
tempo.
C’è
un’immagine
che
mi
ha
colpito
particolarmente
nel
rileggere
di
recente
questo
episodio
della
peste
ateniese:
l’abbandono
e
l’incuranza
dei
cadaveri.
Così
riporta
Tucidide:
“tutte
le
consuetudini
osservate
in
passato
per
i
riti
funebri,
a un
certo
momento
non
vennero
più
rispettate:
si
seppelliva
alla
meglio.
Molti,
trovandosi
a
corto
di
mezzi
per
le
continue
morti
dei
loro
cari,
rinunziavano
ad
ogni
decoro
nei
loro
funerali;
taluni
deposero
su
pire
non
proprie
i
propri
morti
[…],
e
quindi
vi
appiccarono
il
fuoco;
altri,
mentre
già
bruciava
un
cadavere,
vi
gettarono
su
quello
che
portavano,
e
poi
se
n’andarono”.
Questo
passo
mi
ha
richiamato
alla
mente
la
scena
secondo
me
più
scioccante
e
paradigmatica
del
male
che
stiamo
affrontando:
quella
dei
mezzi
militari
che,
come
carri
funebri,
hanno
portato
via
da
Bergamo,
nella
notte
del
18
marzo
2020,
i
feretri
dei
defunti
dalla
città,
il
cui
cimitero
non
era
più
in
grado
di
assorbire
l’esorbitante
e
continuo
numero
di
morti.
Anche
in
questo
caso,
come
accaduto
nell’Atene
nel
V
secolo
a.C.,
per
quanto
con
le
dovute
e
ovvie
differenze,
la
tragicità
dell’epidemia
non
ha
concesso
a
molti
familiari
di
rendere
l’estremo,
dignitoso
e
dovuto
saluto
ai
propri
cari,
lasciandoseli
vedere
portar
via,
magari
senza
sapere
dove,
a
riprova
della
precarietà
della
vita
e di
come,
in
fondo,
non
siamo
che
foglie
in
balia
del
vento
dinnanzi
a
questi
martorianti
flagelli
epidemici.
Una
cosa
non
deve
venire
meno:
la
speranza.
La
storia
ateniese
ci
offre
una
lezione:
per
quanto
la
Guerra
del
Peloponneso
si
concluse
in
maniera
rovinosa
per
Atene,
la
polis
dapprincipio
seppe
risollevarsi
dalle
sciagure
del
morbo,
andando
in
più
di
una
circostanza
vicina
a
scrivere
a
suo
favore
la
parola
fine
al
grande
conflitto,
e
riuscendo
a
rivestire,
ancora
a
lungo,
un
ruolo
da
protagonista
nelle
vicende
della
Grecia.
In
fin
dei
conti,
per
quanto
non
siamo
in
guerra
con
nessun’altra
potenza,
anche
a
noi
è
richiesto
qualcosa
di
simile:
riprenderci
e
lasciarci
alle
spalle
questo
nefasto
periodo.
Riferimenti
bibliografici:
Tucidide,
La
peste
in
Atene,
da
La
guerra
del
Peloponneso,
II,
in
Il
libro
di
epica,
di
Gazich
R.,
Manzoni
G.E.,
Melzani
G.,
La
Scuola,
Brescia
1991,
pp.
144-46.
Valzania
S.,
Sparta
e
Atene.
Il
racconto
di
una
guerra,
Sellerio,
Palermo
2006.