N. 148 - Aprile 2020
(CLXXIX)
Tucidide
come
modello
letterario
La
peste
d’Atene
nei
grandi
classici
della
letteratura
antica
di
Matteo
Picconi
Al
ripresentarsi
di
una
epidemia
l’uomo
ha
sempre
guardato
al
suo
passato,
cercando
delle
risposte.
Nelle
ultime
settimane
si è
assistito
a
una
continua
“riscoperta”
mediatica
delle
pestilenze
che
hanno
colpito
l’umanità
nel
corso
della
storia.
Ed
ecco
che,
tra
le
tante,
si
rievoca
la
testimonianza
di
Tucidide,
militare
e
storico
ateniese,
che
nella
sua
straordinaria
opera
La
guerra
del
Peloponneso
descrisse
nei
minimi
particolari
la
peste
che
afflisse
la
sua
città
nel
430
a.C.
durante
l’assedio
degli
eserciti
alleati
di
Sparta.
L’opera
di
Tucidide
ha
fatto
scuola
per
moltissimi
secoli.
Considerato
insieme
a
Erodoto
il
capostipite
della
storiografia
occidentale,
nel
II
libro
della
sua
opera,
l’ateniese
narrò
l’avvento
della
peste
(recenti
studi
ipotizzano
una
febbre
tifoide)
con
un
“pragmatismo”
storico
impressionante
per
l’epoca,
scevro
da
esigenze
estetiche
e da
visioni
religiose
e
metafisiche
(in
tal
senso
superò
lo
stesso
Erodoto):
“(…)
non
bastavano
i
medici,
che
in
sulle
prime
la
curavano
senza
conoscerla,
anzi
tanto
più
morivano
quanto
più
si
accostavano
agli
infetti;
né
giovava
altra
arte
umana;
il
supplicare
nei
templi,
il
ricorrere
agli
oracoli,
e
simili,
tutto
tornò
vano,
e
tutto
finalmente
abbandonarono
vinti
dal
morbo
(…)”.
Il
suo
stile
monografico,
i
tecnicismi
presi
in
prestito
dalla
contemporanea
scuola
medica
ippocratica,
la
sua
attenzione
ai
risvolti
psicologici
riscontrati
sulla
popolazione
al
dilagare
dell’epidemia,
sono
stati
ampiamente
ripresi
(in
alcuni
casi
addirittura
“copiati”)
da
altri
grandi
scrittori
dell’età
antica.
Nella
vastissima
“letteratura
delle
pestilenze”,
un
primo
richiamo
al
testo
tucidideo
si
ravvisa
in
Diodoro
Siculo
che
dedica
alla
peste
di
Atene
due
capitoli
della
sua
Bibliotheca
Historica,
pubblicata
tra
il
40 e
il
30
a.C.
Annoverarlo
però
tra
gli
“imitatori”
di
Tucidide
sarebbe
scorretto
in
quanto
lo
storico
di
Agira
affronta
la
tematica
dell’epidemia
ateniese
con
uno
stile
e un
taglio
storico
differente,
probabilmente
raccogliendo
informazioni
anche
da
altre
fonti.
Ipotesi
avanzata
anche
da
Giuseppe
Compagnoni
che
tradusse
l’opera
del
siciliano
nel
1820:
“Generalmente
nella
esposizione
delle
cose
appartenenti
alla
guerra
del
Peloponneso
apparisce
non
avere
egli
preferito
sempre
Tucidide,
(…)
e
salve
quelle
che
possono
essersi
introdotte
per
colpa
de’
copisti,
pel
resto
dee
supporsi,
che
al
tempo
di
Diodoro
s’avessero
scritture
sulla
guerra
del
Peloponneso,
o
sui
fatti
qua
e là
seguiti
in
quel
periodo
di
tempo,
riputate
tanto
autentiche,
quanto
per
avventura
riputiamo
noi
la
storia
di
Tucidide”.
Passando
alla
letteratura
latina,
tra
i
primi
“debitori”
dello
storico
ateniese
figura
indubbiamente
Lucrezio.
Nel
suo
celebre
De
Rerum
Natura
il
grande
poeta
ripropone
e,
in
alcuni
passaggi
addirittura
traduce,
la
peste
“tucididea”
e la
sceglie
come
atto
conclusivo
del
suo
capolavoro.
Secondo
Amedeo
Peyron,
che
tradusse
l’opera
di
Tucidide
nel
1861,
Lucrezio:
“volendo
riferire
questa
stessa
pestilenza,
non
contento
all’imitazione,
copiò
le
stesse
frasi
di
Tucidide
per
quanto
il
verso
glielo
acconsentiva”.
Il
filologo
torinese,
forse
con
eccessiva
malizia,
usa
il
termine
“copiare”
piuttosto
che
“tradurre”.
Un
esempio
è
costituito
da
alcuni
versi
iniziali
di
Lucrezio,
tradotto
da
Jacopo
Sartori
nel
1876,
che
rimandano
chiaramente
al
testo
dell’ateniese:
“Non
vi
fu
uomo
che
ricordasse
si
mortifera
pestilenza;
e
tale
fu
da
non
valere
a
curarla
né
virtù
di
medicina,
né
consiglio
di
medici,
i
quali
anzi
nell’usar
cogl’infermi
soggiacquero
più
che
gli
altri
all’irreparabile
morbo.
Umili
supplicazioni
non
una
ma
più
volte
si
fecero
ai
templi
degl’Iddii,
invocati
furono
i
loro
oracoli,
ed
in
tutte
le
usate
guise
si
cercò
di
placarli:
di
maniera
che,
non
valendo
alcun
senno
né
uman
provvedimento,
vinti
tutti
dalla
grandezza
del
male,
se
ne
rimasero
senza
far
più
cosa
alcuna”.
“Lucrezio
imita
Tucidide;
e
Virgilio
nel
III
della
Georgica
descrivendo
la
peste
imitò
Lucrezio”
scrive
lo
stesso
Sartori
chiamando
in
causa
un
altro
“big”
della
letteratura
classica
come
Publio
Virgilio
Marone.
Nel
terzo
libro
delle
Georgiche,
infatti,
il
vate
descrisse
ampiamente
la
peste
del
Norico,
un’epidemia
che
colpì
gli
animali
nelle
regioni
comprese
tra
le
Alpi
e il
Danubio.
Pur
venendo
meno
l’intento
prettamente
storiografico,
l’ispirazione
al
testo
lucreziano
appare
evidente
se
si
guarda
alla
particolareggiata
descrizione
del
“morbo”
e
della
relativa
sintomatologia
riscontrata
sugli
animali:
“(…)
questi
sintomi
mostrano
nei
primi
giorni,
prima
della
morte.
Quando
poi
il
male
comincia
a
infierire
nel
suo
decorso,
allora
gli
occhi
sono
infiammati
e il
respiro
tratto
su
dal
profondo,
talora
appesantito
da
un
gemito,
e
tendono
con
un
lungo
singulto
il
basso
ventre;
esce
per
le
narici
nero
sangue
e la
lingua
scabra
comprime
le
fauci
otturandole”.
In
linea
col
dettato
tucidideo,
anche
Virgilio
cerca
le
ragioni
circa
l’avvento
dell’epidemia
secondo
deduzioni
scientifico
naturali,
escludendo
soluzioni
di
natura
divina.
Rimanendo
in
quel
“prolifico”
I
secolo
a.C.,
alcuni
storici
hanno
individuato
tracce
della
descrizione
tucididea
anche
nelle
Metamorfosi
di
Ovidio.
Riprendendo
ancora
l’analisi
di
Peyron:
“In
Virgilio,
che
volle
ritrarre
la
peste
degli
armenti,
non
m’avvidi
d’imitazione
alcuna;
ma
Ovidio
evidentemente
tradusse
tre
o
quattro
passi
di
Tucidide”.
Un
giudizio
probabilmente
severo
e
ingeneroso
da
parte
del
filologo
torinese,
in
quanto
il
poeta
nativo
di
Sulmo,
l’attuale
Sulmona,
nel
descrivere
il
mito
della
peste
di
Egina
(isola
greca
del
Golfo
Saronico)
si
allontana
molto
dallo
stile
dell’ateniese,
sia
per
il
fine
letterario
(è
del
tutto
assente
lo
scopo
storiografico),
sia,
soprattutto,
per
le
conclusioni
che
ne
trae
da
un
punto
di
vista
mistico-religioso
(individuando
l’origine
dell’epidemia
nel
volere
degli
dei).
Ciononostante,
sembra
di
leggere
sempre
la
stessa
introduzione
di
Tucidide:
“Una
terribile
pestilenza,
dovuta
all’ira
di
Giunone,
spietata
contro
questa
terra
(…),
si
abbatté
sulla
popolazione.
Finché
parve
un
male
naturale,
finché
era
oscuro
cosa
nuocesse,
quale
fosse
la
causa
dell’immane
sciagura,
si
combatté
con
le
armi
della
medicina.
Ma
il
flagello
era
tale
che
ogni
soccorso
era
vano,
e
arrendersi
bisognava”
(trad.
Bernardini
Marzolla).
Facendo
un
salto
di
ben
nove
secoli,
merita
di
essere
citato
l’indiscusso
legame
letterario
tra
Tucidide
e
Procopio
di
Cesarea.
Nella
sua
raccolta
Storia
delle
guerre
(scritta
tra
il
551
e il
553
d.C.)
lo
storico
bizantino,
divenuto
senatore
e
prefetto
alla
corte
giustinianea
dopo
aver
fatto
da
consigliere
al
generale
Belisario,
raccontò
l’epidemia
che
dal
541
colpì
la
città
di
Costantinopoli,
passata
alla
storia
come
la
“peste
di
Giustiniano”.
Come
l’ateniese,
anche
Procopio
fu
testimone
diretto
dei
fatti
e la
sua
trattazione
descrive
con
lucida
oggettività
l’avanzare
della
pestilenza
che,
secondo
le
sue
stime,
costò
la
vita
al
10%
della
popolazione
bizantina.
Sono
soprattutto
le
nozioni
di
tipo
medico-scientifico
ad
aver
posto
il
dubbio
tra
gli
storici
dell’Ottocento
circa
l’autenticità
della
sua
opera,
come
si
evince
dal
“Dizionario
Generale”
del
1864:
“L’altro
dubbio
è
assai
strano.
Dall’aver
Procopio
fatto
una
descrizione
accuratissima
della
peste
che
desolò
nel
543
Costantinopoli
con
particolari
medici
e
scientifici,
fu
arguito
da
alcuni
ch’ei
fosse
medico,
e
come
tale
apparisce
in
alcuni
dizionarii
medici
francesi.
Ciò
è un
ire
troppo
innanzi.
Procopio
rivela,
in
tutte
le
sue
opere,
molte
cognizioni
miste,
e
mentre
stava
descrivendo
la
peste
attinse
probabilmente
qualche
informazione
da
amici
medici
(…)”.
Che
Procopio
si
sia
ispirato
a
Tucidide
in
molte
delle
sue
opere
è
fatto
ormai
accertato
dagli
storici
ma,
prendendo
spunto
da
Pia
Carolla
in
Atene
e
Roma,
ciò
non
intacca
il
suo
indiscusso
spessore
letterario:
“Procopio
attinge
ampiamente
in
Tucidide,
non
solo
per
singole
frasi
o
espressioni
ma
anche
per
interi
periodi,
come
è
stato
documentato
dalla
critica
di
fine
Ottocento.
(…)
va
anche
precisato
che
Procopio
vuole
pensare
se
stesso,
gli
avvenimenti
che
ha
vissuto
e la
propria
opera
proiettati
sullo
sfondo
della
grande
storiografia
di
stampo
soprattutto
tucidideo”.
Si
potrebbe
concludere
con
un’immagine
ironica:
Tucidide
come
il
“primo
della
classe”
e
tutti
dietro
a
copiare.
Fermo
restando
il
suo
primato
storiografico,
anche
l’ateniese
probabilmente
ha
preso
spunto
dai
classici
del
suo
tempo.
Sarebbe
ovvio
aspettarsi
un
riferimento
alle
liriche
di
Omero,
oppure
un
richiamo
al
drammaturgo
Sofocle,
invece
no
o,
almeno,
non
solo.
Recenti
studi
dimostrano
come
parte
del
testo
tucidideo,
oltre
ad
essere
chiaramente
influenzato
dal
linguaggio
della
medicina
ippocratica,
presenti
“letteralmente”
delle
analogie
con
le
opere
di
Saffo,
poetessa
greca
vissuta
a
cavallo
tra
il
VII
e il
VI
secolo
a.C.
Prezioso,
al
riguardo,
il
contributo
di
Pietro
Maria
Liuzzo
per
la
rivista
storiografica
inglese
“Histos”,
pubblicato
nel
2016:
“(…)
rileggere
il
testo
tucidideo
e
cercare
di
capire
i
materiali
letterari
con
cui
lo
storico
lavorava,
per
giungere
a
un’ipotesi
rispetto
a
come,
tramite
le
fonti
mediche,
il
testo
di
Saffo
sia
più
o
meno
coscientemente
filtrato
nella
narrazione
tucididea”.
Ma
cosa
può
aver
filtrato
l’inventore
del
metodo
storiografico
dalle
liriche
della
poetessa
di
Eresos?
Liuzzo
traccia
alcuni
punti
in
comune
tra
i
due:
la
forte
dimensione
visiva,
l’osservazione,
e la
descrizione
dei
“sintomi”.
È
proprio
in
quest’ultimi
che,
sorprendentemente,
risultano
numerose
analogie
linguistiche.
Come
se
l’ateniese,
nel
descrivere
gli
effetti
(fisici
e
psicologici)
della
peste,
avesse
preso
spunto
dagli
effetti
dell’amore
e
dell’innamoramento,
descritti
da
Saffo
come
una
vera
e
propria
malattia
per
la
psiche
umana.
Si
potrebbe
quindi
ipotizzare
che
le
liriche
saffiche
ebbero
funzione
complementare,
di
supporto,
laddove
il
pragmatismo
storico
di
Tucidide
e
l’osservazione
medica
ippocratica
non
potevano
arrivare.
Il
concetto
viene
ribadito
dallo
stesso
Liuzzo:
“Ma
nel
momento
in
cui
è
necessario
scegliere
le
parole
da
impiegare
per
fare
ciò,
il
bagaglio
dei
concetti
che
possono
dare
vita
alla
realtà
nel
testo
storico
o
scientifico,
ecco
che
il
medico,
come
lo
storico,
si
serve
di
quei
luoghi
che
hanno
costruito
il
suo
lessico:
l’epica
e la
poesia
lirica”.
Che
si
tratti
di
imitazioni,
traduzioni,
ispirazioni
a
modelli
letterari,
la
sostanza
non
cambia:
stiamo
sempre
parlando
di
storia.
L’insegnamento
più
grande
di
quest’ultima
consiste,
appunto,
nell’imparare
a
conoscere
noi
stessi,
a
non
ripetere
gli
stessi
errori.
L’ateniese
concepiva
la
storia
come
“maestra
di
vita”,
come
un
“possesso
perenne”
a
disposizione
degli
uomini.
E il
racconto
della
peste
di
Atene
ne
rappresenta
un
sommo
esempio,
che
merita
un’ultima
citazione:
“Di
tal
pestilenza
lascio
che
ognuno
o
perito
od
inesperto
di
medicina
ragioni
come
sente,
divisando
donde
probabilmente
sia
stata
originata,
e
quali
cause
sieno
state
capaci
di
produrre
tanto
rivolgimento;
io
per
me
dirò
qual
fu,
e
quei
i
sintomi,
per
cui,
se
mai
altra
volta
ritornerà,
altri
possa
avvertito
riconoscerla,
esporrò
io,
che
fui
appestato
e
vidi
altri
infetti”
(trad.
Peyron).
Riferimenti
bibliografici:
Cenni
sopra
le
cagioni
della
peste,
trad.
De
Rolandis,
tipog.
Speibanti
e
Co.,
Torino
1838.
Luciano
Canfora,
Le
vie
del
classicismo:
Storia.
Tradizione.
Propaganda,
Ed.
Dedalo,
2004
Virgilio,
La
peste
del
Nòrico
(Georgiche,
3,
vv.
478-566),
Mondadori
Education.
Pia
Carolla,
Punti
tucididei
nelle
epistole
di
Procopio,
in
“Atene
e
Roma”,
1997.
Pietro
Maria
Liuzzo,
Saffo,
Tucidide,
Plutarco
e la
peste
d’Atene,
in “Histos”,
n.
10,
2016.
Nuova
enciclopedia
popolare
italiana.
Dizionario
Generale,
L’Unione
Tipografico
Editrice,
Torino
1864.
Tito
Lucrezio
Caro.
La
natura
delle
Cose,
trad.
Jacopo
Sartori,
tipog.
Cesira
Noris,
Verona
1861.
Tucidide.
Della
guerra
del
Peloponneso,
trad.
Amedeo
Peyron,
Stamperia
Reale
Torino
1864.
Biblioteca
storica
di
Diodoro
Siculo,
trad.
Giuseppe
Compagnoni,
tipog.
Sonzogno,
Milano
1820.