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N. 13 - Giugno 2006

TRIORA, LA SALEM D'ITALIA

Storia del più grande processo per stregoneria svoltosi in Italia nel 1587

di Ippolito Edmondo Ferrario

 

Sul finire dell’estate del 1587 a Triora,  millenario borgo di montagna del Ponente ligure, tirava una brutta aria; da circa due anni la gente non aveva più di che sfamarsi e nel giro di pochi giorni alcune donne che abitavano alla periferia del paese furono ritenute responsabili di questa presunta carestia. L’accusa? Essere streghe, o meglio bagiué, secondo il dialetto locale.

 

Queste sono le premesse con le quali ha inizio uno dei  più feroci processi alle streghe in Italia, per nulla inferiore in quanto a drammaticità a quelli di Loudun e di Salem, rispettivamente in Francia e in America. All’epoca dei fatti, Triora era un borgo fortificato al centro di intensi traffici commerciali tra il Piemonte, la costa e la vicinissima Francia. Politicamente dipendeva da Genova, di cui era podesteria, difesa da ben cinque fortezze al cui interno era di stanza una guarnigione di soldati della Repubblica.

 

Nell’ottobre del 1587  il Parlamento locale, composto per lo più da persone rozze e ignoranti, con il beneplacito del Consiglio degli Anziani e del Podestà, stanziò cinquecento scudi per imbastire un processo; una cifra enorme in relazione alla condizione economica del borgo stesso. L’autorità ecclesiastica non tardò a intervenire; giunsero infatti il vicario dell’Inquisitore di Genova e il vicario dell’Inquisitore di Albenga, Gerolamo Del Pozzo. La prassi del tempo consisteva nel celebrare messa nella chiesa parrocchiale, invitando il popolo alla delazione.

 

Il processo di Triora non stupisce inizialmente per il suo corso che ricalca nella sostanza molti altri con tutte le ripercussioni del caso. Si confiscarono alcune abitazioni private da adibire a prigione e non tardarono ad arrivare le prime vittime della giustizia: tra le prime venti donne incarcerate morirono la sessantenne Isotta Stella e un’altra donna, quest’ultima nel tentativo di calarsi da una delle finestre del carcere. Di streghe morte la storia ne è piena, ma ciò che lascia perplessi è l’evolversi della situazione.

 

Il Consiglio degli Anziani, essenzialmente composto dai proprietari terrieri, mostrò le sue perplessità verso il processo quando le prime “matrone” di Triora furono incarcerate. La delazione, gli odi e le invidie personali stavano dilagando a tal punto da mettere sullo stesso piano, di fronte alla macchina della giustizia, le nobildonne come le prostitute e  le emarginate  che “sopravvivevano” alla Cabotina, un quartiere composto da misere abitazioni, vista precipizio, che si ergeva all’esterno delle mura del paese.

I due inquisitori non riuscirono a concludere il processo causa il  repentino allargamento delle accuse a tutto il tessuto sociale.

 

Il dramma di Triora era solo all’inizio. Il governo di Genova intervenne personalmente nella questione. Il vescovo di  Albenga, Mons. Luca Fieschi chiese spiegazioni al Del Pozzo sul suo operato attraverso una missiva. Tra i due iniziò  un breve rapporto epistolare che  non cambiò la sorte delle donne incarcerate ancora in attesa di giudizio.

 

Il Del Pozzo sosteneva la presenza del Maligno come elemento portante della sua difesa; contemporaneamente anche il Consiglio degli Anziani ritirò le proprie perplessità precedentemente espresse riaffermando il proprio appoggio all’operato degli inquisitori.

Gli storici ipotizzano una rassicurazione verbale da parte di Del Pozzo sulla sorte delle nobildonne e su una sua promessa di non estendere le accuse ai notabili del posto.

Nel frattempo però il processo subì un rallentamento; nel gennaio del 1588 i due inquisitori partirono da Triora, lasciando dietro di sé una situazione drammatica. Da qui in poi è un susseguirsi di lettere al governo genovese e richieste di aiuto che cadono inascoltate.

 

Il Parlamento locale, iniziale fautore del processo,  mutò rapidamente opinione, incaricando il notaio triorese Basadonne di scrivere a Genova per chiedere una rapida revisione del processo. Si attese fino a maggio per ottenere la visita inconcludente del padre inquisitore Alberto Fragarolo che dopo qualche interrogatorio lasciò Triora senza risolvere la situazione, esattamente come i suoi predecessori.

 

Nel mese di giugno  arrivò l’autentica svolta della vicenda, quella che nessuno però si sarebbe augurato. Il giorno 8 giunse a Triora, mandato da Genova, il commissario speciale Giulio Scribani, già  Pretore a San Romolo, paese dell’entroterra di San Remo. Un mese dopo, in una sua lettera a Genova, lo Scribani affermava in maniera inquietante di essere giunto a Triora “per smorbar di quella diabolica setta questo paese che resta quasi per tal conto tutto desolato”. Nel frattempo avvenne un avvicendamento di podestà; Stefano Carrega lasciò il posto a Gio Batta Lerice. Lo Scribani per prima cosa inviò nelle carceri genovesi tredici donne e il solo uomo  che giacevano nelle prigioni trioresi al suo arrivo. Da qui in poi sarà un escalation di arresti e torture.

 

Nei mesi successivi lo Scribani imperversò in tutta la zona aprendo nuovi casi e facendo morire donne innocenti. Per l’ennesima volta si verificò un colpo di scena: di fronte alla richiesta del via libera per decine di condanne a morte, il Doge iniziò a nutrire i primi dubbi sull’operato del commissario. Perplessità che sfociarono in una richiesta allo Scribani di attenersi alle confessioni e soprattutto di provarne la veridicità con riscontri reali e plausibili. Il richiamo cadde nel vuoto.

 

Lo Scribani era ormai un cane sciolto. Genova affidò la revisione del processo all’uditore e consultore Serafino Petrozzi che sottolineò come lo Scribani si  fosse interessato a reati connessi alla stregoneria, materia di esclusiva competenza dell’Inquisizione. Ma anche il Petrozzi concluse la sua relazione dicendo che la questione era troppo delicata e la possibilità di commettere errori elevata. In pratica se ne lavò le mani. Lo Scribani nel frattempo continuava a incarcerare donne e a difendersi dalla critiche con numerose lettere.

 

Genova, seguendo una tragica prassi burocratica, affiancò al Petrozzi due giureconsulti: Giuseppe Torre e  Pietro Allaria Caracciolo.

La situazione divenne paradossale: i due nuovi revisori dopo una breve analisi del caso si dichiararono concordi con lo Scribani e convinsero anche il Petrozzi.

Lo Scribani si sentì così autorizzato a proseguire; a Triora e nei borghi confinanti come Andagna, Bajardo, Montalto Ligure si registrarono le morti di tante innocenti.

 

Prima di vedere uno spiraglio si dovranno attendere mesi. Lo Scribani per il suo scellerato operato subì la scomunica da parte dell’Inquisizione stessa, rimessagli poi, per intervento del Doge, il 15 agosto 1589.

 

Il 28 aprile 1589 fu la Chiesa a dare un segnale di speranza concreto: i cardinale Sauli e quello di Santa Severina, fecero giungere l’ordine di chiudere i processi e per la prima volta, come si legge nella loro missiva, le streghe di Triora vennero chiamate “sudditi della Signoria” restituendo, almeno a parole, dignità alle innocenti. Nel frattempo altre due donne passarono a miglior vita; il 27 maggio toccò al  Doge  lamentarsi con il Cardinale Sauli del fatto che ancora non si fosse fatto niente. Solo il 28 agosto il Cardinale di Santa Caterina confermò la volontà dell’Inquisizione di chiudere i processi. E così la parola fine fu posta a sigillo dell’intera vicenda.

 

Che fine fecero le streghe di Triora? Morirono in carcere o furono liberate?

Da qui in poi il loro triste destino sprofonda nell’oblio del tempo per la mancanza di documenti.

 

Sulla fine della vicenda gli storici si sono espressi in maniera differente. Alcuni sostengono che le donne rinchiuse a Genova furono liberate: la prova sarebbe leggibile nei registri parrocchiali di San Martino di Struppa, paese della Val Bisagno, a quel tempo colonia penale di Genova. Dal 1600 in poi compare il cognome Bazoro e Bazura che richiama inequivocabilmente bagiua, termine con il quale sono chiamate le streghe  a Triora.

 

Su quelle incarcerate a Triora si sa ben poco. Alcuni ipotizzano che siano state liberate e che abbiano partecipato alla costruzione di quel convento di San Francesco i cui lavori iniziarono nel 1592 e terminarono nel 1595.

Al di là della drammaticità della vicenda le ipotesi più recenti sul processo hanno portato all’esame di alcune grandi anomalie che farebbero pensare che dietro all’accusa di stregoneria, il grande processo  servì a nascondere situazioni al limite della legalità che vedevano il coinvolgimento delle stesse famiglie nobili di Triora.

 

Ecco qui di seguito alcuni punti sui quali gli storici si sono soffermati in questi anni:

 

- Per anni la causa del processo fu imputata ad una carestia che perdurava dal 1585; ciò sembrerebbe improbabile, vista la nomea  di “granaio della repubblica” che Triora godeva a quei tempi. Si è pensato quindi ad una manovra speculativa dei latifondisti trioresi interessati all’innalzamento del prezzo delle derrate alimentari da rivendere a Genova, derrate però che non riuscivano più ad essere acquistate dai propri concittadini. In questo caso le streghe sarebbero state un capro espiatorio perfetto.

 

- Tra le accuse mosse alle streghe compare spesso quella di infanticidio. Dall’analisi del Liber Mortuorum et Baptizatorum di quegli anni non si rileva un innalzamento della mortalità infantile. L’ipotesi più credibile è quella della presenza di esperte levatrici che spesso si vedevano costrette a somministrare battesimi non ufficiali prima di dare sepoltura ai bambini nati morti, a loro volta sepolti sul sagrato della chiesa di S. Bernardino. Questa  diffusa pratica, mal tollerata dalla religione ufficiale, potrebbe essere una delle cause dell’odio scatenato verso queste donne che conoscevano le proprietà curative delle erbe medicinali.

 

- Significativa è  la figura del medico di Triora, tale Luca Borelli, che  fino alla fine del processo sostenne l’operato degli Inquisitori, anche quando a finire negli ingranaggi della giustizia fu la sua parente Franchetta Borelli. Lo stesso medico, dopo la vicenda, fu accusato nel 1608 di essere il fautore di una cospirazione filosabauda ai danni di Genova.

 

- Il processo alle streghe potrebbe essere servito a distrarre l’attenzione da un processo che in quegli anni riguardò il canonico di Triora Marco Faraldi, giudicato in contumacia e accusato di falsa monetazione e ricerche alchemiche.

 

In definitiva un’oscura trama di rapporti politici, economici e interessi personali fa da sfondo ad una delle pagine più nere della nostra storia.

 

Il caso di Franchetta Borelli

 

In questo dramma collettivo rimane viva negli atti, conservati presso l’Archivio di Stato di Genova, la testimonianza di Franchetta Borelli sottoposta dallo stesso Scribani a più di un giorno di tortura al cavalletto.

 

Franchetta apparteneva a una delle famiglie nobili di Triora; le cronache del tempo parlano di lei come di una donna bella e ricca, non sposata, e che in gioventù era stata una prostituta. Chiamata in causa da altre donne, Franchetta  venne torturata una prima volta per Senonche una notte durante la quale confessò alcune accuse, ma successivamente si chiuse nel silenzio. Grazie all’intervento del suo avvocato e alla parola del fratello Quilico, pronto a sborsare una somma di mille scudi come cauzione, le furono concessi gli arresti domiciliari.

 

Lo Scribani non era sicuro dell’innocenza della donna, ma accettò il compromesso. Senonchè  Franchetta tentò la fuga da Triora, costringendo il fratello a versare la somma e facendo rischiare il carcere a un tale di nome Buzzacarino che aveva garantito per lei. Franchetta decise allora di tornare a Triora per affrontare il proprio destino. La sua dolorosa odissea nelle mani dello Scribani ebbe inizio; ore e ore di continui tormenti durante cui la presunta strega dirà emblematicamente “Io stringo i denti e poi diranno che rido”.

 

In ventuno ore e più di supplizio Franchetta alternò momenti di sconforto e di silenzio a pensieri innocenti, rivolti al suo amato borgo e ai suoi familiari. Si offrì di riparare le scarpe rotte a un suo parente che la assisteva e si preoccupò del vento freddo che soffiava fuori dalla prigione, nocivo alla maturazione delle castagne.

 

L’epilogo della vicenda di Franchetta diventa oscuro per mancanza di documenti certi. Un solo dato fa sperare bene sulla sua sorte. La presunta strega morì il 2 gennaio 1595, diversi anni dopo il processo. Fu seppellita in terra consacrata, nella chiesa dei SS. Pietro e Marziano, fuori dalle mura, edificio che già allora però iniziava ad essere abbandonato in favore della chiesa della Collegiata.

 

Un processo sepolto nella storia

 

Il processo di Triora venne per la prima volta riesumato dallo storico Michele Rosi nel suo libro “Le streghe di Triora in Liguria” pubblicato nel 1898 e successivamente da Siro Attilio Nulli ne “I processi alle streghe” del 1939. I due studiosi ebbero il merito di analizzare gli atti del processo conservati all’Archivio di Stato di Genova.

 

Si dovettero aspettare alcuni anni per avere nuovi saggi, più ampi e approfonditi. Primo fra tutti a riportare il processo alla ribalta, intuendone anche le potenzialità turistiche, fu Padre Francesco Ferraironi, parroco di Triora, e suo insigne studioso. Nel 1955 pubblicò “Le streghe e l’inquisizione” e nel 1973, insieme alla nipote Amabile, il volume “Streghe o maliarde”. Costui, prima del 1945, ebbe l’opportunità di consultare l’archivio comunale di Triora nel quale si conservavano le testimonianze del processo. Nello stesso anno l’archivio fu dato alle fiamme dai nazisti che fecero saltare parte del paese durante la loro ritirata.

 

Da segnalare l’influsso che Triora, con le sue vicende, ha esercitato in campo letterario: ai fatti del 1587 si ispirarono gli scrittori Remo Guerrini (La strega) e Minnie Alzona (La strega).

 

Negli ultimi anni diversi saggi hanno scandito le ricerche sul processo: da ricordare quelli di Gian Maria Panizza, Sandro Oddo, Stefano Moriggi. A breve, nel cuore di Triora, in quello che fu Palazzo Stella, aprirà i battenti il Centro Studi Internazionale sulla Stregoneria. Dal 1988 il borgo ligure ospita ogni quattro anni il Convegno Nazionale sulla Stregoneria.

 

Curiosità e misteri

 

Il nome Triora deriverebbe dal latino “tria ora”, cioè “tre bocche”, esattamente come le tre bocche di cerbero, il cane infernale posto a guardia degli inferi e raffigurato sullo stemma comunale di Triora.

 

Secondo la tradizione la chiesa della Collegiata sorgerebbe su un precedente “fanum”  pagano.

 

Nei pressi di Triora, al passo della Mezzaluna, si erge un antichissimo “menhir”, testimonianza di precedenti culti pagani.

 

Nella chiesa romanica di S. Bernardino è visibile un affresco di Giovanni Canavesio raffigurante un Giudizio Universale con tanto di streghe ed eretici fatti a pezzi e bambini, morti senza ricevere il battesimo, posti sotto le gigantesche ali da pipistrello di un demone.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

F. Ferraironi “Le streghe e l’inquisizione”, 1955

S.Oddo “Bagiué. Le streghe di Triora. Fantasia e realtà”, Pro Triora editore, 1994

C.Coppo, G.M.Panizza “La pace impossibile. Indagini ed ipotesi per una ricerca sulle accuse di stregoneria a Triora”, 1990

S.Moriggi “Le tre bocche di Cerbero”,2004

I.E. Ferrario “Triora, Anno Domini 1587. Storia della stregoneria nel Ponente Ligure”, 2005



 

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