N. 42 - Giugno 2011
(LXXIII)
TRILUSSA, POETA ROMANO
Viaggio nella poesia di una città
di Giulia Gabriele
Er
sole
che
tramonta
appoco
appoco
sparisce
fra
le
nuvole
de
maggio
gonfie
de
pioggia
e
cariche
de
foco;
cento
ricordi
brilleno
in
un
raggio,
cento
colori
sfumeno
in
un
gioco.
Sur
vecchio
campanile
der
convento
nun
c’è
la
rondinella
pellegrina
che
canta
la
canzona
der
momento:
però,
in
compenso,
romba
e
s’avvicina
un
trimotore
da
bombardamento.
(Primavera)
La
Seconda
Guerra
Mondiale
che
si
avvicina,
un’altra
lasciata
alle
spalle
e il
ricordo
di
quella
rondinella
che
cantava
alla
Primavera.
Qui
c’è
tutta
la
capacità
del
poeta
Trilussa
di
raccontare
Roma
con
i
suoi
tramonti
e
proprio
accanto,
a
dar
fastidio
a
questo
scenario
bucolico,
il
rombo
di
un
aereo
da
guerra,
che
quel
sogno
lo
distrugge,
lo
spezza
come
le
ali
di
quella
rondinella
nel
volo
iniziato
e
mai
finito.
Spunta
la
sagacia
romana,
che
rende
possibile
il
sorriso
beffardo
che
dice
guarda
sto
monno
che
t’ha
regalato:
un
paio
de
bombe
al
posto
del
canto
d’un
uccelletto.
In
pochi
versi
il
poeta
riesce
a
fotografare
precisamente
un
momento
storico
e
con
esso
il
cuore
di
Roma,
che
perde
le
sue
rondini,
i
suoi
colori
e la
sua
pace.
In
queste
parole
c’è
tutto
il
dolore
per
una
guerra
passata,
perché
l’orrore
è
sempre
quello
-
vanno
avanti
gli
anni,
ma
la
Morte
non
cambia
mai
faccia
- e
la
perplessità
per
quella
che
dovrà
venire.
Così,
intanto
le
rondini
si
perdono
nei
loro
voli
in
altri
cieli
e un
giorno,
forse,
torneranno
su
quel
campanile.
Chissà.
Carlo
Alberto
Camillo
Salustri,
in
arte
Trilussa
(anagramma
del
suo
cognome),
nasce
a
Roma
in
via
del
Babbuino,
il
26
ottobre
1871.
Il
padre
cameriere
originario
di
Albano
Laziale,
si
chiama
Vincenzo,
la
madre
Carlotta
Poldi
è di
Bologna
e fa
la
sarta.
Nel
1872
muore
di
difterite
la
sorellina
Isabella
di
tre
anni
e
nel
1874
il
padre.
Così
la
famiglia
si
trasferisce
prima
a
via
di
Ripetta
e
alla
fine
nella
casa
del
padrino
di
battesimo
di
Trilussa.
Da
ragazzo
egli
si
appassiona
ai
lavori
del
Belli
(l’altro
grande
poeta
dialettale
romano)
e
comincia
a
scrivere
per
Il
Rugantino,
poi
per
Capitan
Fracassa,
Don
Chisciotte,
Travaso
delle
Idee
e
Il
Messaggero.
Le
sue
prime
pubblicazioni
sono
L’invenzione
della
stampa,
Stelle
di
Roma,
Er
mago
de
Borgo,
Quaranta
sonetti
e
Altri
sonetti.
Da
qui
ha
inizio
quindi
la
fortuna
dell’autore
-
coronata
anche
dall’amore
per
una
ragazza
trasteverina,
che
egli
lanciò
nel
mondo
del
cinema
con
il
nome
di
Leda
Gys
-
che
vedrà
molte
collaborazioni
con
la
Mondadori
con
la
pubblicazione
di
svariati
lavori:
Lupi
e
agnelli,
Le
favole,
Ommini
e
bestie
e
Libro
muto.
Fu
antifascista,
nonostante
rifiuterà
sempre
tale
etichetta
come
l’iscrizione
ad
un
partito
politico,
in
maniera
nota
ma
silenziosa
tanto
che
verrà
paragonato
a
Benedetto
Croce,
con
il
quale
era
entrato
in
amicizia
tramite
il
drammaturgo
Roberto
Bracco.
Il
poeta
romano
ebbe
quindi
una
grande
fortuna
letteraria,
ma
non
visse
mai
nella
ricchezza,
anzi
le
sue
condizioni
economiche
erano
molto
modeste
e
non
poté
nemmeno
godere
del
titolo
di
senatore
a
vita
"per
altissimi
meriti
nel
campo
letterario
e
artistico"
che
l’allora
Presidente
della
Repubblica
Luigi
Einaudi
gli
conferì
il 1
dicembre
1950.
Infatti
si
spense
20
giorni
dopo,
il
21
dicembre,
senza
nemmeno
aver
potuto
vedere
la
realizzazione
del
suo
più
grande
desiderio:
l’uscita
della
raccolta
in
un
solo
volume
delle
sue
poesie
(1951).
Un
finale
particolare
per
un
uomo
e un
artista
altrettanto
particolare
e
forse
quasi
beffardo
e
ironico,
un
po’
come
le
sue
poesie.
Sfogliando
due
vecchi
libri,
che
sanno
di
tempo
e di
occhi
curiosi,
con
la
raccolta
delle
sue
poesie
(proprio
quella
che
egli
non
vide
mai)
si
respira
tutto
quello
che
Roma
e la
romanità
sono.
C’è
il
furbetto
di
turno,
c’è
il
bonaccione
e il
cinico.
C’è
la
moglie
fedele
e
quella
un
po’
meno.
C’è
il
prete
di
quartiere
e il
politico
improvvisato.
E da
sfondo
l’osteria
dell’amico,
la
panchina
di
due
innamorati
e i
giochi
della
Luna
e
delle
Nuvole.
Ci
sono
anche
gli
animali
con
la
loro
saggezza
e il
loro
antropomorfismo,
ma
soprattutto
c’è
una
Roma
di
altri
tempi
che
si
specchia
ancora
nel
biondo
Tevere,
che
sorride
timida
per
un
bacio
rubato
e
che
non
ha
il
cuore
per
portarti
via
una
convinzione...
proprio
a te
che
sei
solo
e
non
hai
altro
che
quella
a
legarti
a
una
speranza.
Non
è la
Roma
dei
nomi
altisonanti
e
dei
Cesari,
ma
di
quell’Ape
che
se
posa
/ su
un
bottone
de
rosa:
/ lo
succhia
e se
ne
va...
e
che
fa
riflettere,
perché
Tutto
sommato,
la
felicità
/ è
una
piccola
cosa.
(Felicità).
Di
particolare
interesse,
poi,
sono
le
poesie
che
vedono
gli
animali
(che
altro
non
sono
che
uomini)
come
protagonisti
dei
suoi
versi,
quale
ad
esempio,
la
seguente:
Mentre,
una
notte,
se
n’avvava
a
spasso,
la
vecchia
Tartaruga
fece
er
passo
più
lungo
de
la
gamba
e
cascò
giù
co’
la
casa
vortata
sottinsù.
Un
Rospo
je
strillò:
-
Scema
che
sei!
Queste
so’
scappatelle
che
costeno
la
pelle...
- Lo
so:
-
rispose
lei
-
ma,
prima
de
morì
vedo
le
stelle.
(La
Tartaruga)
C’è
chi
direbbe
che
non
vale
la
pena
di
morire
per
vedere
le
stelle.
Ma
non
è la
fine
della
poesia
il
fulcro
del
componimento,
bensì
quel
passo
più
lungo
de
la
gamba
che
ti
permette
di
realizzare
un
sogno
o
almeno
di
provarci,
che
ti
fa
sentire
degno
del
soffio
vitale
che
hai
in
corpo
e
che
ti
rende
uomo.
Vivo.
Poi
c’è
il
Rospo
con
la
saggezza
di
chi
preferisce
camminare
sicuro
per
le
solite
strade,
lasciando
da
parte
le
smancerie
di
un
desiderio
e la
fantasia
di
respirare
un
po’
di
libertà...
è la
voce
della
gente
che
ti
avverte
di
stare
attento
perché
i
sogni
sono
per
pochi
eletti
e se
non
stai
accorto
quei
sogni
ti
portano
via
tutto
quello
che
hai.
Quella
gente
che
si
abbandona
all’istinto
animale
di
sopravvivenza,
che
non
sa
aprire
le
ali,
buttata
lì,
in
un
angolo,
nella
massa
degli
sconfitti,
con
gli
occhi
bassi
e la
lingua
tagliente,
invidiosa
del
tuo
coraggio,
del
tuo
sogno.
Ma
l’uomo
si
sa,
tende
sempre
a
volere
quello
che
non
ha,
così
si
fa
Tartaruga
e si
ribalta,
consapevole
che
quello
potrebbe
essere
l’ultimo
gesto
d’amore
per
la
vita,
ma
almeno
ha
visto
le
stelle.
Ed è
grazie
a
quel
passo,
in
bilico
tra
gloria
e
oblio,
che
ora
l’Universo
ci
sembra
meno
ignoto
e
che
le
Colonne
d’Ercole
rimangono
nella
nostra
memoria
come
poco
più
di
una
leggenda
di
un
mondo
antico
e
lontano.
Chissà,
invece,
il
sogno
di
Trilussa
qual
era...
forse
cascare
giù
co
la
casa
vortata
sottinsù
per
vedere
il
Firmamento
o
magari
raccontare
Roma
nei
suoi
vicoli,
nei
suoi
segreti
e
nelle
sue
notti.
Chissà.
Il
viaggio
in
queste
pagine
antiche
(e
così
vere!)
giunge
al
termine
con
un’ultima
poesia,
forse
una
delle
più
famose,
che,
ancora
una
volta,
come
se
fosse
una
favola,
parla
di
uomini
e
donne
come
solo
questo
grande
autore
romano
ha
saputo
fare.
La
Luna
piena
minchionò
la
Lucciola:
-
Sarà
l’effetto
de
l’economia,
ma
quel
lume
che
porti
è
debboluccio...
-
Sì,
-
disse
quella
- ma
la
luce
è
mia!
(La
Lucciola)
Nei
versi
si
legge
un
po’
di
invidia
fatta
passare
per
snobismo
da
parte
della
Luna,
che
sa
che
se
risplende
così
non
è
merito
suo,
e la
franchezza
e
l’orgoglio
della
Lucciola
che
sa
di
essere
piccola,
ma
almeno
non
deve
ringraziare
nessuno:
quello
che
ha è
frutto
di
quel
che
è.
Sembra
quasi
di
vederle,
la
Luna
e la
Lucciola,
che
si
‘rimbeccano’
a
vicenda
dando
al
lettore
un
sorriso
complice
e la
consapevolezza
che
l’uomo,
che
lo
chiami
Tartaruga,
Lucciola
o
Rospo,
è
sempre
uguale.
È
sognatore,
è
orgoglioso
a
volte
fino
alla
cecità,
cinico
o
come
scrive
lo
stesso
poeta,
l’Omo
è
sempre
quello:
/
prèdica
la
bontà,
ma
all’atto
pratico
/
nun
è
che
un
lupo:
un
lupo
dipromatico
/
che
specula
sul
sangue
de
l’agnello!
(L’Omo
e el
Lupo).
Ci
affanniamo
a
essere
tanto
diversi
da
quel
che
siamo,
ma,
in
realtà,
non
siamo
molto
distanti
da
quello
che
non
vogliamo.
Trilussa
lo
sapeva
bene,
lui,
da
uomo,
più
di
tutti
aveva
capito
l’animo
nostro.
Da
poeta
non
ha
dovuto
far
altro
che
mettere
tutto
in
versi.
E
l’ha
fatto
da
maestro.
La
sua
città
l’ha
raccontata
così,
con
le
sue
contraddizioni
e i
suoi
splendori,
per
più
di
50
anni.
È
una
poesia
diversa
da
quella
del
Belli,
ben
più
aspra
e
‘politica’,
ma
altrettanto
suggestiva
e
veritiera.
La
dialettica
è
semplificata
anche
dall’uso
di
un
romano
meno
‘stretto’
che
ha
permesso
di
aprire
a
tutti
le
porte
del
cuore
della
città
eterna
e
delle
sue
tradizioni,
dei
suoi
colori.
Senza
vergogna
o
misticismi
ha
saputo
portare
alla
luce
un’epoca,
una
città
e un
popolo...
quello
romano,
ma
non
solo.
E
camminando
per
i
suoi
vicoli,
alla
luce
della
sua
Luna,
con
il
profumo
dei
suoi
fiori
sembra
che
tutto
parli
di
quei
versi
in
una
dolce
eco.
Da
romano
ha
raccontato
Roma.
E da
uomo
ha
raccontato
gli
uomini.