.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

contemporanea


N. 42 - Giugno 2011 (LXXIII)

TRILUSSA, POETA ROMANO
Viaggio nella poesia di una città

di Giulia Gabriele

 

Er sole che tramonta appoco appoco

sparisce fra le nuvole de maggio

gonfie de pioggia e cariche de foco;

cento ricordi brilleno in un raggio,

cento colori sfumeno in un gioco.

Sur vecchio campanile der convento

nun c’è la rondinella pellegrina

che canta la canzona der momento:

però, in compenso, romba e s’avvicina

un trimotore da bombardamento.

(Primavera)

 

La Seconda Guerra Mondiale che si avvicina, un’altra lasciata alle spalle e il ricordo di quella rondinella che cantava alla Primavera. Qui c’è tutta la capacità del poeta Trilussa di raccontare Roma con i suoi tramonti e proprio accanto, a dar fastidio a questo scenario bucolico, il rombo di un aereo da guerra, che quel sogno lo distrugge, lo spezza come le ali di quella rondinella nel volo iniziato e mai finito. Spunta la sagacia romana, che rende possibile il sorriso beffardo che dice guarda sto monno che t’ha regalato: un paio de bombe al posto del canto d’un uccelletto.

 

In pochi versi il poeta riesce a fotografare precisamente un momento storico e con esso il cuore di Roma, che perde le sue rondini, i suoi colori e la sua pace.

 

In queste parole c’è tutto il dolore per una guerra passata, perché l’orrore è sempre quello - vanno avanti gli anni, ma la Morte non cambia mai faccia - e la perplessità per quella che dovrà venire. Così, intanto le rondini si perdono nei loro voli in altri cieli e un giorno, forse, torneranno su quel campanile. Chissà.

 

Carlo Alberto Camillo Salustri, in arte Trilussa (anagramma del suo cognome), nasce a Roma in via del Babbuino, il 26 ottobre 1871.

 

Il padre cameriere originario di Albano Laziale, si chiama Vincenzo, la madre Carlotta Poldi è di Bologna e fa la sarta. Nel 1872 muore di difterite la sorellina Isabella di tre anni e nel 1874 il padre. Così la famiglia si trasferisce prima a via di Ripetta e alla fine nella casa del padrino di battesimo di Trilussa.

 

Da ragazzo egli si appassiona ai lavori del Belli (l’altro grande poeta dialettale romano) e comincia a scrivere per Il Rugantino, poi per Capitan Fracassa, Don Chisciotte, Travaso delle Idee e Il Messaggero.

 

Le sue prime pubblicazioni sono L’invenzione della stampa, Stelle di Roma, Er mago de Borgo, Quaranta sonetti e Altri sonetti. Da qui ha inizio quindi la fortuna dell’autore - coronata anche dall’amore per una ragazza trasteverina, che egli lanciò nel mondo del cinema con il nome di Leda Gys - che vedrà molte collaborazioni con la Mondadori con la pubblicazione di svariati lavori: Lupi e agnelli, Le favole, Ommini e bestie e Libro muto.

 

Fu antifascista, nonostante rifiuterà sempre tale etichetta come l’iscrizione ad un partito politico, in maniera nota ma silenziosa tanto che verrà paragonato a Benedetto Croce, con il quale era entrato in amicizia tramite il drammaturgo Roberto Bracco.

 

Il poeta romano ebbe quindi una grande fortuna letteraria, ma non visse mai nella ricchezza, anzi le sue condizioni economiche erano molto modeste e non poté nemmeno godere del titolo di senatore a vita "per altissimi meriti nel campo letterario e artistico" che l’allora Presidente della Repubblica Luigi Einaudi gli conferì il 1 dicembre 1950.

 

Infatti si spense 20 giorni dopo, il 21 dicembre, senza nemmeno aver potuto vedere la realizzazione del suo più grande desiderio: l’uscita della raccolta in un solo volume delle sue poesie (1951). Un finale particolare per un uomo e un artista altrettanto particolare e forse quasi beffardo e ironico, un po’ come le sue poesie.

 

Sfogliando due vecchi libri, che sanno di tempo e di occhi curiosi, con la raccolta delle sue poesie (proprio quella che egli non vide mai) si respira tutto quello che Roma e la romanità sono.

 

C’è il furbetto di turno, c’è il bonaccione e il cinico. C’è la moglie fedele e quella un po’ meno. C’è il prete di quartiere e il politico improvvisato. E da sfondo l’osteria dell’amico, la panchina di due innamorati e i giochi della Luna e delle Nuvole. Ci sono anche gli animali con la loro saggezza e il loro antropomorfismo, ma soprattutto c’è una Roma di altri tempi che si specchia ancora nel biondo Tevere, che sorride timida per un bacio rubato e che non ha il cuore per portarti via una convinzione... proprio a te che sei solo e non hai altro che quella a legarti a una speranza.

 

Non è la Roma dei nomi altisonanti e dei Cesari, ma di quell’Ape che se posa / su un bottone de rosa: / lo succhia e se ne va... e che fa riflettere, perché Tutto sommato, la felicità / è una piccola cosa. (Felicità).

 

Di particolare interesse, poi, sono le poesie che vedono gli animali (che altro non sono che uomini) come protagonisti dei suoi versi, quale ad esempio, la seguente:

 

Mentre, una notte, se n’avvava a spasso,

la vecchia Tartaruga fece er passo

più lungo de la gamba e cascò giù

co’ la casa vortata sottinsù.

Un Rospo je strillò: - Scema che sei!

Queste so’ scappatelle

che costeno la pelle...

- Lo so: - rispose lei -

ma, prima de morì vedo le stelle.

(La Tartaruga)

 

C’è chi direbbe che non vale la pena di morire per vedere le stelle. Ma non è la fine della poesia il fulcro del componimento, bensì quel passo più lungo de la gamba che ti permette di realizzare un sogno o almeno di provarci, che ti fa sentire degno del soffio vitale che hai in corpo e che ti rende uomo. Vivo.

 

Poi c’è il Rospo con la saggezza di chi preferisce camminare sicuro per le solite strade, lasciando da parte le smancerie di un desiderio e la fantasia di respirare un po’ di libertà... è la voce della gente che ti avverte di stare attento perché i sogni sono per pochi eletti e se non stai accorto quei sogni ti portano via tutto quello che hai.

 

Quella gente che si abbandona all’istinto animale di sopravvivenza, che non sa aprire le ali, buttata lì, in un angolo, nella massa degli sconfitti, con gli occhi bassi e la lingua tagliente, invidiosa del tuo coraggio, del tuo sogno. Ma l’uomo si sa, tende sempre a volere quello che non ha, così si fa Tartaruga e si ribalta, consapevole che quello potrebbe essere l’ultimo gesto d’amore per la vita, ma almeno ha visto le stelle.

 

Ed è grazie a quel passo, in bilico tra gloria e oblio, che ora l’Universo ci sembra meno ignoto e che le Colonne d’Ercole rimangono nella nostra memoria come poco più di una leggenda di un mondo antico e lontano. Chissà, invece, il sogno di Trilussa qual era... forse cascare giù co la casa vortata sottinsù per vedere il Firmamento o magari raccontare Roma nei suoi vicoli, nei suoi segreti e nelle sue notti. Chissà.

 

Il viaggio in queste pagine antiche (e così vere!) giunge al termine con un’ultima poesia, forse una delle più famose, che, ancora una volta, come se fosse una favola, parla di uomini e donne come solo questo grande autore romano ha saputo fare.

 

La Luna piena minchionò la Lucciola:

- Sarà l’effetto de l’economia,

ma quel lume che porti è debboluccio...

- Sì, - disse quella - ma la luce è mia!

(La Lucciola)

 

Nei versi si legge un po’ di invidia fatta passare per snobismo da parte della Luna, che sa che se risplende così non è merito suo, e la franchezza e l’orgoglio della Lucciola che sa di essere piccola, ma almeno non deve ringraziare nessuno: quello che ha è frutto di quel che è.

 

Sembra quasi di vederle, la Luna e la Lucciola, che si ‘rimbeccano’ a vicenda dando al lettore un sorriso complice e la consapevolezza che l’uomo, che lo chiami Tartaruga, Lucciola o Rospo, è sempre uguale.

 

È  sognatore, è orgoglioso a volte fino alla cecità, cinico o come scrive lo stesso poeta, l’Omo è sempre quello: / prèdica la bontà, ma all’atto pratico / nun è che un lupo: un lupo dipromatico / che specula sul sangue de l’agnello! (L’Omo e el Lupo).

 

Ci affanniamo a essere tanto diversi da quel che siamo, ma, in realtà, non siamo molto distanti da quello che non vogliamo.

 

Trilussa lo sapeva bene, lui, da uomo, più di tutti aveva capito l’animo nostro. Da poeta non ha dovuto far altro che mettere tutto in versi. E l’ha fatto da maestro.

 

La sua città l’ha raccontata così, con le sue contraddizioni e i suoi splendori, per più di 50 anni.

 

È una poesia diversa da quella del Belli, ben più aspra e ‘politica’, ma altrettanto suggestiva e veritiera. La dialettica è semplificata anche dall’uso di un romano meno ‘stretto’ che ha permesso di aprire a tutti le porte del cuore della città eterna e delle sue tradizioni, dei suoi colori.

 

Senza vergogna o misticismi ha saputo portare alla luce un’epoca, una città e un popolo... quello romano, ma non solo.

 

E camminando per i suoi vicoli, alla luce della sua Luna, con il profumo dei suoi fiori sembra che tutto parli di quei versi in una dolce eco.

 

Da romano ha raccontato Roma. E da uomo ha raccontato gli uomini.



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.