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N. 19 - Luglio 2009 (L)

Un’altra Trieste asburgica

tra consapevolezza dei poveri e coscienza operaia
di Andrea Scartabellati

 

A differenza di quanto scriveva compiaciuto Eric J. Hobsbawn 25 anni orsono, la storiografia sul movimento operaio vive oggi un momento d’incertezza, se non di vero e proprio disorientamento, parallelo al declino della presenza operaia nelle società occidentali della post–modernità.

 

Non è questo il luogo per interrogarsi sulle ragioni di un tale declino. Non di meno, l’adozione di rinnovate prospettive analitiche, filtrate dai deficit più lampanti della storiografia militante, ha permesso ancora recentemente di aprire nuovi spazi di riflessione sul tema, prospettando percorsi euristici meno condizionati dall’attualità della polemica politica.

 

Il caso di Trieste, inoltre, presenta una peculiarità degna di non essere lasciata cadere.

 

Negli ultimi anni, le storie della città e del suo hinterland sono andate polarizzandosi attorno ad una serie di temi e di approcci che hanno indotto gli studiosi a trascurare opzioni di ricerca forse meno a la page, ma non meno utili per decifrare gli avvenimenti giuliani tra XIX e XX secolo. Percorsi che intendono la storia quale futuro di un passato a noi prossimo non liquidabile nelle sole vestigia della letteratura di stampo mitteleuropeo e nel più rituale e degli approcci storico–politici.

 

Per quanto legittimi ed appassionanti, infatti, tali approcci e temi – a cominciare dalla inossidabilità di un mito asburgico fagocitante gli aspetti popolareschi locali – hanno tuttavia avuto il limite d’imbrigliare sovente la storia di Trieste in immagini ossificate, se non al confine del grottesco.

 

Da questo punto di vista, a rettifica di quella sorta di villaggo Potëmkin raccontato ai lettori più sprovveduti dalla pubblicistica di grande tiratura, il recupero della pluralità delle storie sociali e delle identità triestine incoraggia gli studiosi ad integrare l’immagine ambigua (e stereotipata) della città borghese operosa ma, nello stesso tempo, interiormente malata – istantanea che caratterizza sottotraccia la Trieste della letteratura e degli attriti nazionalistici – con il volto di una metropoli altra, frequentemente misconosciuta, e della quale la memoria locale non sempre, con lodevoli eccezioni,  pare avere piena consapevolezza.

 

In questo breve saggio, trattando della povertà e del mondo del lavoro tra 1860 e 1890, cercherò di segnalare alcune piste di studio che andrebbero ulteriormente battute e approfondite.

 

Rivolgendomi ad un tema in grado, negli anni ’70, di far versare fiumi d’inchiostro, ed oggi quasi completamente abbandonato, mi propongo di indagare alcuni aspetti – e solo alcuni – del tragitto storico popolare anteriore alla formazione della classe operaia triestina, scegliendo come luogo analitico le vicende del mercato del lavoro in rapporto alle condizioni di vita quotidiane – le radici materiali – della manodopera indigente.

 

La sottovalutazione delle vicende del lumpenproletariat triestino a favore di un’onnipresente immagine borghese della città, non è una pratica limitata ai tempi recenti. Incautamente, anche il padre del movimento comunista mondiale, Karl Marx, era scivolato in un simile malinteso.

 

In un lungo articolo dedicato al Commercio marittimo dell’Austria, pubblicato in due puntate nel 1856 sul New York Daily Tribune, il pensatore di Treviri aveva osservato: 

“Come mai proprio Trieste e non Venezia diventò la culla della rifiorente marineria dell’Adriatico? Venezia era una città di ricordi; Trieste possedeva, al pari degli Stati Uniti, il vantaggio di non avere nessun passato. Costruita da una variopinta folla di commercianti e speculatori italiani, tedeschi, inglesi, francesi, greci ed ebrei, non era gravata da tradizioni come la città lagunare (…) Il prosperare di Trieste non conosce pertanto limiti, ad eccezione della sua dipendenza dallo sviluppo delle forze produttive e dei mezzi di comunicazione di quell’immenso complesso di paesi oggi soggetti all’autorità austriaca”.

 

Davvero il capoluogo del litorale austriaco – come asseriva Marx, fatte salve le esigenze di sintesi giornalistica – non aveva nessun passato o chi lo incarnasse con il proprio problematico vissuto?

 

In realtà, seppur accomunata dalla miseria e da non molto altro, tirava a campare a Trieste una moltitudine composita di pitocchi, espressione peculiare della recente storia cittadina. Una folla, descritta nelle caratteristiche pregnanti fin dall’ordinanza aulica del 1784 (Armeninstitut, 1784) e dal Rapporto sul pauperismo di otto decenni posteriore, composta da anziani impotenti al lavoro, fanciulli lasciati a se stessi, da forestieri, disoccupati, ex incarcerati, prostitute, vagabondi, braccianti stagionali, artigiani degli squeri, pescatori sul lastrico, mondatrici di caffè e, per ultimo, da donne non maritate madri "di quella miseranda caterva di bastardi i quali, se esposti, vanno a carico del comune, se cresciuti nella casa natìa, restano abbandonati o negletti" (Commissione al Pauperismo, 1864).

 

Individui dal contorno generazionale e socio–professionale sfumato. Attori non marginali – venendone influenzati e influenzandolo – di un mercato del lavoro in costruzione, che “si dedicavano a una delle tante indefinite occupazioni con le quali a Trieste si riusciva a sopravvivere quasi come con un mestiere vero”, come ricorda icastico Ivo Andrič nella Cronaca di Travnik.

 

Sintetizzando le eredità economiche del recente passato, anche nel capoluogo litoraneo lo spazio delimitato dall’antica urbe tergestina e dai suburbi edificati dalla metà dell’Ottocento, andò costituendo un mercato del lavoro che possiamo assumere come un sistema compatto ed interdipendente a partire dai primi anni ’60 del XIX secolo.

 

Dire mercato del lavoro, in queste pagine, significa assumere una convenzione analitica la quale ha una ragione d’essere qualora non si dimentichi come, concretamente, essa equivalesse nel vissuto della miriade di pitocchi in cerca d’una occupazione, al passaparola con amici o conoscenti del rione, al girovagare tenace strada per strada, officina per officina, opificio per opificio; oppure spesso, nei casi peggiori, al prolungato bivacco sui moli in attesa di un qualche veliero da scaricare in qualità di facchini ad ore.

 

Di questa folla senza diritti e sprovvista di un’identità sociale e professionale precisa, l’originale mercato del lavoro che si realizzò non poté prescindere nella sua fase eroica. Per restare semplicemente in piedi, tale mercato del lavoro nella città in trasformazione da emporio a porto del transito, necessitava dell’esistenza di larghe fasce della popolazione esposte, senza garanzia alcuna, sia agli imperativi imprenditoriali contingenti (Commissione mista d’Inchiesta Industriale e Commerciale, 1875) – a loro volta input dei più vasti circuiti commerciali dell’economia mondo – sia al pressoché continuo rischio dell’immiserimento e della fame. Un’indigenza radicale contro la quale, al di là di certe interessate sopravvalutazioni, modesta risultava l’opera di alleviamento delle paternalistiche élite del potere.

 

Dagli anni ’60, e fino allo spartiacque rappresentato dall’accelerata industrializzazione di fine XIX secolo, le figure tipiche di questo mercato del lavoro furono il bracciante e il piccolissimo artigiano–operaio degli squeri, adibiti il primo allo scarico e carico dei bastimenti, ed il secondo alla costruzione e alla riparazione degli stessi.

 

La riconversione dell’emporio in una economia del transito – dinamica giunta a termine con i primi anni ’70 –, se da un lato vide il relativo aumento degli addetti alla costruzione e riparazione dei carri da trasporto merci, dall’altro non mutò l’orizzonte produttivo dominante. Quello composto dalla prevalenza di un insieme economico stabilmente incentrato su unità professionali semiartigianali, con bassa richiesta di tecnologia e professionalità, orientate verso la trasformazione delle materie prime in arrivo od in partenza per il porto. Del resto, l’instabile situazione del più ampio contesto commerciale internazionale non sollecitava l’imprenditoria giuliana ad incrementare la dimensione dei traffici e delle attività manifatturiere.

 

Gli stessi cantieri navali – con il commercio l’altro tradizionale core business del mondo del lavoro locale – non erano immuni da frequenti e cicliche fasi di crisi, né sfuggivano alla generalizzazione sulla semiartigianalità e su una qualificazione che, se conseguiva l’eccellenza per un ristretto numero di operai, non era certamente diffusa tra la manodopera di fatica.

 

Non solo il commercio a seguito della stasi europea, ma anche i cantieri, dal 1874, erano precipitati in una fase di grave decadenza.

 

La Grande Depressione del 1873, accelerata dal crack bancario viennese, aveva gettato pesantemente la propria ombra sulla città. Lo Stabilimento Navale Adriatico (Cantiere S.Marco) a fronte del blocco delle ordinazioni, dopo il drastico licenziamento di falegnami e carpentieri, non aveva potuto far altro che chiudere i battenti. E nel corso dell’anno successivo, toccava all’Arsenale del Lloyd – cantiere solo parzialmente esposto, data la garanzia statale, alle fluttuazioni della domanda – licenziare in blocco le maestranze.

 

In questo clima che non invitava all’ottimismo, e obbligava la Direzione Generale della Pubblica Beneficienza ad interrogarsi sulle più efficaci strategie assistenziali (ASIT Resoconti, 1860 e succ.) era compito degli uffici comunali svolgere una prima indagine per tratteggiare un volto meno impreciso, rispetto al passato, del mondo del lavoro locale.

 

La ricognizione statistica, al di là dei deficit metodologici, perveniva a due importanti conclusioni.

 

In primo luogo, dopo aver rilevato in un’ottica comparatistica il quadro professionale “tutt’affatto speciale” di Trieste, il cui profilo “non si assomiglia nel suo complesso a veruna delle città [europee] prese in esame” , constatava come 59.588 persone vivessero del proprio lavoro, 69.541 fossero a carico di altri e 12.611 appartenessero alla classe della servitù “non convivente coi padroni”.

 

In secondo luogo, accertava la sorprendente e rilevante diffusione di professioni che, oggi, assoceremmo al cosiddetto settore terziario.

 

L’incidenza del settore dei servizi, già rintracciabile nella precedente ricognizione statistica del 1869, se da un lato rivelava il ritardo del modello professionale triestino rispetto a quello di paragonabili città europee investite dal fenomeno dell’industrializzazione sul modello britannico, dall’altro, in sede di riflessione storiografica, non permette di leggere nel ritardo né la profezia di un assetto del lavoro che sarebbe sorto solo un secolo più tardi, in età di post–industrializzazione, né, capovolgendo la logica analitica, la persistenza di una struttura economica ancora intrisa di vitale corporativismo.

 

Rispetto a quest’ultima eventualità, infatti, l’effetto frenante per l’espansione economica giocato da quel che restava delle vecchie corporazioni – venuto meno da decenni il pendant rivoluzionario che le aveva connotate alla fondazione – era stato via via aggirato dall’abile imprenditorialità con l’impiego di rinnovati rapporti di subordinazione. Rapporti, dagli anni ’60 ampiamente utilizzati, come da tradizione né codificati né provvisti di norme volte alla salvaguardia degli interessi del lavoratore, e la cui matrice teorica era il più spinto laissez faire di matrice anglosassone.

 

Fonte: Archivio Storico del Comune di Trieste, Censimenti del 1869 e del 1875.

 

Nella dialettica di una regolamentazione (falsamente) egualitaria del lavoro tra impresa e manovalanza d’estrazione misera – così, almeno, sostenevano consiglieri e delegati nelle assise comunali – nuove figure professionali, in genere riconducibili alle cosiddette fasce deboli della popolazione (La popolazione 1878, pp. LXXI–LXXII) s’erano prepotentemente affacciate sul mercato del lavoro dappresso ai tradizionali ruoli maschili.

 

Proprio queste figure prive di tutele, soprattutto adolescenti e donne – tra cui spiccavano le popolari sessolotte, mondatrici di caffè, gomma, pepe, mandorle (Grassi 1971, p. 149) – risultavano caratterizzarsi contemporaneamente dal sovrapporsi incomposto di almeno tre caratteristiche estremamente eloquenti delle realtà del lavoro dell’epoca.

 

Donne e minori erano in primo luogo soggetti in forma intensamente drammatica al più classico dei ricatti connaturati alla condizione del povero: l’impossibilità, quasi assoluta, di avere margini di libertà nella scelta dell’occupazione. In secondo luogo, cristallizzavano, con il loro vissuto di fatica e sfruttamento, l’ingiustizia di un rapporto lavorativo che, pur dopo ore e ore di impegno retribuito con salari da fame, non li preservava dal rischio di un’ulteriore discesa nelle sabbie mobili dell’indigenza. Infine, terzo punto, rappresentavano considerati collettivamente quella frazione lavorativa mobile, precaria e flessibile, sulla quale si riversavano con regolare durezza le onde d’urto d’ambito locale di un’economia–mondo in progressivo assestamento.

 

Drammaticamente, donne adolescenti e bambini – figure già ai margini della convivenza sociale e familiare, se è vero che i contadini dell’hinterland, in caso di carestia, s’interrogavano sul chi fosse più proficuo sfamare, i congiunti o le bestie da soma, paradossalmente proprio per garantire l’avvenire della famiglia (VCON 1866, pp. 97–98) – risultavano così lo stadio ultimo e più penalizzato di una catena economica che, all’estremo opposto, si muoveva con rinomata destrezza nei mercati dei paesi britannici, dell’India e degli Stati Uniti. Il prezzo della concorrenzialità commerciale triestina sui mercati esteri era, insomma, un tributo che queste figure svantaggiate si accollavano quasi per intero.

 

La catena ternaria povertà/sfruttamento/povertà, intercambiabile con la successione sfruttamento/povertà/sfruttamento, si mostrava senza veli ideologici anche in un’altra forma tipica di lavoro particolarmente diffusa nell’ambito giuliano: quella domiciliare.

 

L’industria domestica, elemento non residuale ma fattore essenziale dello sviluppo emporiale, e fonte di reddito integrativo tutt’altro che trascurabile per le vulnerabili economie familiari prive di risparmi, aveva poco da spartire con le forme della proto industrializzazione studiate dalla storiografia negli ultimi quarant’anni, se non per il comune tasso di sfruttamento del salariato.

 

Utilizzando la definizione dell’epoca, l’industria domiciliare era quella attività esercitata dal lavoratore entro la propria casa, con la percezione di un salario a fattura, il cottimo, poiché formalmente il “committente non ha il controllo sulla durata di lavoro dell’operaio”. Diffuso presso i rioni popolari prospicienti il porto e, quindi, in pieno contesto urbano, tale sistema di produzione rivelava il proprio sbilanciamento a scapito del lavoratore quando si rammenti "come egli, e non già il committente, sostenga le spese del laboratorio". Ed è questo uno dei principali motivi di sussistenza dell’industria a domicilio, poiché permette all’imprenditore di riversare l’onere delle spese fisse e di quelle circolanti sull’operaio.

 

Spese, non è superfluo aggiungere, non conteggiate e rifuse nella determinazione del cottimo.

 

Il lavoratore (o la lavoratrice) a domicilio non aveva rapporti diretti col consumatore della propria fatica: ciò lo differenziava marcatamente dal tipico artigiano. Come questo, invece, scontava una forte irregolarità del reddito, spesso tendente al massimo del ribasso. “Il lavoratore a domicilio – osservava un analista economico nei primi anni ’20 del XX secolo – percepisce un salario di solito assai modesto (...) I salari che s’incontrano nell’industria a domicilio sono sempre bassissimi, inferiori a quel minimo di esistenza sotto il quale non si può immaginare che discenda una creatura umana; sono salari da fame.

 

Per queste ragioni, concludeva, “il lavoro a domicilio rappresenta l’infimo gradino del lavoro salariato”.

 

Come si comprende da queste poche righe d’annata, siamo ben lontani da un rapporto di lavoro nel senso della modernità industriale. Irregolarità dei ritmi, alterna fornitura della materia prima da manipolare, scarsa o nulla richiesta di qualificazione, assoluta flessibilità d’impiego, ridottissima remunerazione del fattore lavoro, presenza di un’agguerrita concorrenza e inesistenza di una legislazione ad hoc che ne regolasse lo svolgimento: queste, in definitiva, le caratteristiche salienti dell’industria a domicilio.

 

Il sistema di produzione domestico, riflesso e molla dell’affermazione dell’imprenditorialità emporiale giuliana, solo con la grande industrializzazione degli anni ’90 esaurirà la propria necessità economica.

 

E tuttavia, malgrado l’alto tasso di sfruttamento e lo scarso prezzo del lavoro, esso spiegava nel contesto socio–economico del tempo una duplice e progressiva funzionalità. Sia, come anticipato, col fornire una fonte di reddito addizionale ai magri bilanci delle famiglie triestine; una quota integrativa essenziale della scarsa ed irregolare mercede guadagnata dal capofamiglia generalmente impiegato nelle attività portuali. Sia, ancora, con lo spalancare facilmente – la facilità d’ingresso era funzione proporzionale del grado di sfruttamento – le porte del mondo del lavoro alle fasce più svantaggiate e meno qualificate della popolazione.

 

Immigrati di recente urbanizzazione sfuggiti alle trasformazioni intervenute nelle campagne dell’hinterland dopo l’abolizione della servitù della gleba; donne sole o vedove con figli a carico; anziani deboli e malaticci: per questi uomini e donne l’industria a domicilio rappresentò una via di fuga importante, seppur gravosa umanamente, dalla fame e dall’indigenza.

   

Con le donne ed i minori attivi nella produzione domiciliare, un gradino infimo nella scala del mercato del lavoro era di regola occupato da individui di origine slovena e croata  provenienti dall’Istria, dalla Dalmazia, dalla Carniola e dal Goriziano, la cui massiccia immigrazione in città aveva suscitato l’irritazione popolare e introdotto un forte elemento di disturbo sul già precario equilibrio dell’occupazione e dei livelli salariali urbani.

 

La suddivisione del mercato occupazionale, oltre che lungo linee di genere, lungo distinzioni di appartenenza nazionale, non faceva che esaltare e, nello stesso tempo, esasperare, quella che Friedrich Engels aveva chiamato ne La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845) la guerra dei poveri.

 

In un contesto lavorativo soggetto a cicliche crisi, dove insufficiente era l’intervento di lotta alla povertà degli uffici municipali, la presenza slovena o croata rappresentò, vista dal basso, solo relativamente e solo per una frazione minoritaria della cittadinanza, quell’intimidazione nazionalista favorita a monte dal governo austriaco che avrebbe fatto scrivere pagine e pagine ai pubblicisti filo–italiani.

 

Per la popolazione povera da tempo residente a Trieste, sia che essa parlasse il dialetto con perfetta inflessione veneta oppure balcanica, la cosiddetta intrusione slava in una città dalla rivendicata ascendenza culturale italiana significò, in primo luogo e soprattutto, la formalizzazione di una supplementare minaccia economica all’instabile equilibrio raggiunto dai redditi familiari. Un vùlnus suppletivo per una dignità popolare già messa a repentaglio dalle trasformazioni economiche succedutesi dalla fine degli anni ’70.

 

Il sospetto o il disprezzo dei lavoratori triestini verso i nuovi operai generici sloveni e, più in generale, le irruenti reazioni della dequalificata manodopera locale alla concorrenza rappresentata dai lavoratori stranieri giunti in città anche dal Regno, come i genovesi a fronte di certa mitologia patriottarda, più che i timori per la minacciata identità nazionale, ne portavano in superficie la spiacevole consapevolezza circa i rischi della potenziale, oltre che probabile, ulteriore decadenza sociale.

 

Nelle prime ore dell’accelerata industrializzazione cittadina, che attirò migliaia di immigrati, non fu il refrain nazionalistico a giocare la partita. Fu il discorso identitario–localistico della piccola patria triestina, nutrito dal secolare sentimento autonomistico comune a elite del potere e massa povera, a fornire a questi ultimi l’occasione e lo strumento per la rivendicazione della conservazione degli assetti socioeconomici del presente.

 

La crescente percezione d’insicurezza materiale diffusasi nelle fasi d’implementazione della grande industria, fu affrontata dalla popolazione povera non tanto con lo sviluppo di organizzazioni sindacali o club politici – questi sarebbero sistematicamente sorti soltanto il decennio successivo. Bensì con la illusoria soluzione della riproposta di un senso di appartenenza territoriale che mirava ad almeno tre obiettivi. Primo, identificare senza incertezze i veri triestini; secondo, piantare quei paletti che permettevano di escludere, anche giuridicamente, dal diritto all’occupazione  e dal godimento della carità i forestieri; terzo, e non da ultimo, preservare concretamente il diritto alla dignitosa sopravvivenza degli indigenti locali assicurato dal doveroso impegno delle classi possidenti.

 

Solo i veri triestini, per quanto fumosa potesse risultare la formula della triestinità, potevano legittimamente reclamare la protezione connessa col legame sociale che aveva storicamente stabilito una reciprocità d’interessi tra poveri ed élite. Un vincolo, se non di fortune di comuni destini, la cui origine apparteneva ad una topologia mentale da Ancien régime, ma che, paradossalmente, e seppur come suggestione residuale, si caricava di pressante attualità nello stadio transitorio che osservava Trieste sostituire alla centenaria economia emporiale una perfezionata struttura industriale (1880–1890).

 

Riattualizzare l’idea della doverosa difesa dei veri triestini poveri da parte dei ceti possidenti, permetteva, inoltre, ai primi di muoversi nei terreni minati del sociale, dell’economia e finanche del politico senza suscitare le paure classiste dei secondi. La ferita, oltre che lo smarrimento generato dalla grande paura della Comune di Parigi (1871), erano ancora un fresco ricordo.

 

La perdita del primato dell’economia commerciale a Trieste – economia precocemente proiettata verso il libero scambismo, con una pratica di mercato secolare alle spalle – sotto i colpi del capitalismo industriale, coincideva con un massimo di aspettative di sessolotte, lavoratori e lavoratrici a domicilio, braccianti, facchini e manodopera degli squeri, diretta a non andar oltre il ripristino delle antiche consuetudini. I poveri triestini, non ancora classe operaia, non domandavano una compartecipazione al controllo del mercato del lavoro, come invece avveniva nelle più mature realtà industriali dell’epoca.

 

All’opposto, reclamavano si individuasse nel pomerio della città il limite del benessere comune, e nella residenza comprovata da decenni la discriminante per accedere o meno al pubblico soccorso.

 

Un aspetto dell’economia morale che decenni di laissez faire avevano relegato tra i ferri vecchi della dinamica sociale, ora, saldandosi con un tratto vetusto del pensiero delle élite imprenditoriali e amministrative concernente la sostanzialità di una cittadinanza triestina, si riattivava non estendendosi indefinitamente alla comunità dei bisognosi – figlia nemmeno troppo velata degli oltre 40.000 nuovi abitanti registrati dalla città in soli 34 anni –, ma avendo nell’appartenenza alla piccola patria cittadina l’elemento di distinguo.

 

Nemmeno con le trasformazioni socioeconomiche seguite al trasferimento delle risorse attive dal settore portuale–commerciale a quello industriale questo dato psicologico di lungo periodo, pur esprimendo nel tempo minor compattezza, fino quasi a sparire negli anni anteriori la Grande guerra, perderà la propria carica di richiamo per una larga fetta di triestini ricchi e poveri.

 

La triestinità – artificio identitario della massima efficacia nella cornice plurietnica della Trieste asburgica – aveva poi il merito di assorbire a priori intestini contrasti etnici, favorendo, da opposte tribune, singolari convergenze.

 

Fotografando la situazione del lavoro nel 1885, il consigliere comunale Nabergoi, rappresentante della minoranza slovena urbana, dopo aver invitato le autorità a far fronte all’incerto momento economico con l’auspicio che “venissero assunti operai di qui”, puntualizzava: “Sarà generalmente noto che diversi cittadini e territoriali si trovano privi di mezzi per mancanza di lavoro. Essi vanno giornalmente in cerca di lavoro, ma non ne trovano. Io ho avuto occasione di vedere e persuadermi che sono occupati nei lavori pubblici comunali diversi individui i quali non sono pertinenti al Comune, ma forestieri. È vero che anche questi saranno bisognosi, ma con tutto ciò è dovere del Comune di pensare prima per i propri”.

 

Non diversamente tuonava la voce nel consesso comunale del consigliere Edgardo Rascovich, borghese illuminato già presidente della Società Operaia (I sessant’anni di apostolato 1929). Rascovich, al pari del Nabergoi, deprecava come alla Ferrovia e alla Dogana vi fossero impiegati a centinaia tedeschi, boemi, slavi, ungheresi, croati e di tutte le altre provincie dello Stato, meno che di Trieste.

 

Da fronti politici inconciliabili, la messa in valore della triestinità assimilava il pensiero del consigliere di origine slovena – proteso a stigmatizzare l’eccessiva presenza della manodopera regnicola – a quello del portabandiera dell’italianità, che utilizzava le medesime lagnanze per sottolineare, all’opposto, la sproporzionata presenza nel mondo professionale indigeno di estranei non pertinenti al comune.

 

Fonte: Comune di Trieste, Sviluppo storico della popolazione di Trieste dalle origini della città al 1954, Stamperia Comunale, Trieste 1955.

 

Né la trasversalità etnica, né il consenso di cui godette presso le classi povere l’idea–guida della triestinità, con il suo sottinteso immobilismo sociale, possono essere interpretati quali semplici sovrastrutture oppure manipolazioni borghesi del pensiero popolare.

 

Anzi, l’imprenditoria non aveva molto da guadagnare da un mercato del lavoro statico e ripiegato su se stesso. In realtà, al tramonto della Trieste mercantile, una consapevolezza autonoma e declinata al passato dei doveri e dei diritti dei poveri, sostanzialmente approvata dall’intera comunità, restava la bussola orientativa di quella folla incomposta – qualora di veri triestini – che non aveva ancora assunto le caratteristiche sociologiche della classe operaia in formazione.

 

E lo sviluppo successivo di una coscienza operaia, parallelamente all’impianto delle grandi industrie cantieristiche, non sarebbe avvenuto come mero processo cumulativo.

 

La coscienza operaia si sarebbe certo giovata della persistenza di una consapevolezza sociale dei poveri ricca di complesse proiezioni culturali e di multiformi vissuti determinati dal peculiare mercato del lavoro giuliano. Ma la linea di continuità e la saldatura tra le due non si sarebbe storicamente data come elemento di fatto stabilmente acquisito e partecipato dalla popolazione lavoratrice, piuttosto, invece, nei termini di una negoziazione continua rispetto alle singole evenienze dell’economia e della politica chiamate, volta per volta, in gioco.

 

Negoziazione la cui dialettica poteva dar adito a risposte sia progressive e di lungo respiro strategico, sia a feedback di natura eminentemente tattica e di mera difesa dell’esistente. Sfavorevolmente, lo sviluppo della coscienza operaia – scontati i persistenti tratti rurali della popolazione immigrata e una multiculturalità solo per le élite arricchimento e non estraneità – risentì fortemente dell’intrinseco conservatorismo congenito ad una mentalità figlia dell’Ancien régime.

 

Mentre, positivamente e con curiosa coincidenza cronologica, la stessa coscienza operaia poté giungere al graduale superamento dell’arcaica consapevolezza dei pitocchi per merito della palestra di discussione che quest’ultima le offrì nel dibattere, sovente sotto l’assillo dei nefasti effetti delle epidemie di vaiolo e di colera di materie d’interesse pubblico quali l’igiene, la sanità, l’alimentazione e l’annona.

 

Prima ancora che nello spazio–laboratorio della grande fabbrica, che ne accelerò la dinamica di formazione, e ne portò alle conseguenze terminali il processo di maturazione, fu infatti nella quotidianità che la consapevolezza antica degli indigenti, tra passi avanti e ritirate precipitose, doveva autoriformarsi, virando verso nuove forme di rappresentazione e partecipazione operaia maggiormente edotte degli enormi livelli di disuguaglianza radicati in città. Livelli non più guardati con distaccato fatalismo e scettica passività.

 

Indubbiamente, né la questione della nascita della coscienza operaia nei suoi legami con la cognizione dell’ingiustizia della massa povera preindustriale, né la piena comprensione di quel vuoto interpretativo stabilitosi tra l’esistenza plurisecolare dei miserabili e la formazione del proletariato urbano, possono essere colmati in queste poche pagine.

 

Storicamente degna di nota è, tuttavia, la corrispondenza temporale in ambito giuliano tra l’ennesimo immiserimento popolare, registratosi tra 1875 e 1881–83 con la chiusura di vari opifici, i numerosi licenziamenti e l’abbattimento delle paghe degli scaricatori come unico meccanismo per il rilancio portuale, e quel primo scatto che, rileggendo, non senza ripensamenti successivi, l’idea di una triestinità da difendere ad oltranza, introduceva nell’orizzonte locale nuove opzioni del pensiero sociale.

 

Uno scatto non suscitato bensì guidato dalle prime prove politiche di un gruppo di attivisti non borghesi, il cui comun denominatore fu l’impiego nel settore tipografico, e dei quali fu precipuo merito sia il superamento delle vecchie modalità associative, sia la conduzione di una politica progettata dal basso capace di emanciparsi dalla tradizionale inerzia conservatrice delle masse miserabili.

 

“I movimenti operai”, come ha sottolineato Eric J. Hobsbawn “erano, oltre a tutto il resto, anche rivoluzioni culturali”.

 

L’associazionismo professionale vantava a Trieste una non lunga storia. Solo nel 1834 s’erano costituite embrionali forme di moderno mutuo soccorso, con la Fratellanza fra Cappellai in prima fila. Dalla metà del secolo, un frammentato associazionismo proto–operaio si ramificò risollevando parzialmente le sorti delle famiglie indigenti, e agendo di concerto con le organizzazioni filantropiche a controllo borghese quali la Società del Progresso e la Previdenza (1870).

 

Sostanzialmente diretta da borghesi illuminati era anche la già nominata Società Operaia Triestina, nata nel 1869 come prima organizzazione a riunire formalmente i lavoratori senza far valere settari criteri di discriminazione professionale.

 

Dal seno della S.O.T. si sarebbe staccata nel 1873 una sezione femminile; mentre il 1874 sanciva la significativa costituzione nella città di una società riservata esclusivamente agli individui di lingua slovena, la Edinost.

 

Per quanto infaticabili nel lavoro di assistenza svolto giornalmente, le associazioni menzionate – una sorta di anello di raccordo tra le vecchie corporazioni e le future rappresentanze sindacali – restavano sorde e impermeabili alle parole d’ordine che giungevano da Londra con la fondazione della Prima Internazionale (1864).

 

A cagione dell’affiliazione borghese dei loro direttivi, il tema centrale dell’autonomia operaia permaneva un approdo da scongiurare, se non un tabù.

 

Il Manifesto programmatico della Società Operaia Triestina era fin troppo esplicito in questo senso. Alla concessione delle indispensabili provvidenze materiali per le famiglie operaie (AST, Imperial Regia Direzione di Polizia 1869–1883), attanagliate dalle ristrettezze economiche, coniugava la pretesa di tutela generalizzata e di rappresentanza degli associati da parte di quelle élite le quali, contemporaneamente, controllavano le leve del mercato del lavoro.

 

E del resto, non accidentalmente la Società Operaia aveva ricevuto il placet del padronato locale. Sintomatico però che, nel confronto a distanza con le primitive rivendicazioni autonome dei lavoratori, l’élite giuliana rispondesse, almeno in prima istanza, attivando quegli stessi meccanismi comportamentali che avevano patrocinato le reazioni alla modernità industriale dei poveri. In sostanza, inseguendo una soluzione che affondava la sua ragion d’essere nel passato, e riproponendo quello stile relazionale autoreferenziale e di distaccata estraneità umana che aveva retto il confronto del dominus con le folle pauperistiche fin dalla fine del XVI secolo.

 

In questa riproposizione di un contegno non solo soggettivamente inadatto a far fronte alle richieste provenienti dalla massa povero–operaia, ma oggettivamente obsoleto stante le esigenze di stabilità sociale connaturate al funzionamento dei nuovi apparati produttivi, un ruolo angolare esprimeva la sconfessione dell’indipendenza individuale e collettiva popolare. Sconfessione che, se da un lato, mirava a mantenere in piedi i tradizionali steccati stabiliti nei rapporti di fiducia tra la folla bisognosa e i gruppi benestanti, dall’altro aveva, come contraltare pratico, la pretesa di soccorrere i poveri–operai sulla base della loro accettazione dello statu quo e delle prerogative loro riconosciute, octroyée, dalle rappresentanze padronali e degli agenti di commercio, gli ultimi indefessi difensori del sistema dell’industria domiciliare.

 

Scioperi inattesi dai ceti possidenti, oppure spontanei come quello dei pistori (panettieri) o dei bottai – represso dall’intimidatorio intervento della gendarmeria – ravvivavano i timori classisti delle élite giuliane, incapaci di reagire prescindendo dalle tradizionali pulsioni paternalistico–autoritarie.

 

In virtù di ciò, tuttavia, il cortocircuito generatosi tra la pretesa rappresentanza dei poveri–operai rivendicata dalle élite, e le reali concessioni materiali di ridistribuzione della ricchezza a cui erano disposte, portava a compimento l’irreversibile tramonto del pensiero sociale della borghesia emporiale.

 

Tramonto doppiamente accelerato sia dai responsi di un quadro di miseria urbana entro il quale l’intervento filantropico di vecchio conio si rivelava inadatto a conseguire risultati accettabili; sia dalle prime puntuali critiche di una contro–élite operaia all’esordio, più credibile nei panni di araldo delle istanze popolari, abile nel giocare la carta della propria insostituibilità nei meccanismi industriali per tacitare l’opinione che una borghesia d’antan aveva dei poveri: “gente ignorante e improduttiva”.

 

Dal biennio 1882–83 anche a Trieste, la nascita clandestina di un circolo di studi socialisti (BGU 1970, p. 117), segnalava, non solo simbolicamente, il successo dei fermenti internazionalisti che avevano precedentemente contagiato settori estesi della classe operaia viennese e praghese. Pure, nel capoluogo litoraneo, la diffusione delle nuove idee non comportava come inevitabile sottoprodotto l’immediata e convinta adesione popolare.

 

La subalternità ai desiderata delle classi ricche, elemento fino ad allora qualificante l’agire delle organizzazioni di mutuo soccorso urbane, era sì scalfita ma non certo azzerata.

 

La predisposta opera di repressione poliziesca, repentinamente avviata dalla luogotenenza imperiale, fu sicuramente un motivo valido nello scoraggiare l’affiliazione di molti ai circoli socialisti al debutto. Ma la paura della repressione non fu l’unica ragione del modesto consenso raccolto dai fermenti ideali internazionalisti.

 

Tutto sommato, se l’estrinsecarsi di un sentimento di appartenenza operaia aveva tratto stimolo alla discussione dalle miserabili condizioni entro le quali era costretta a vivere la popolazione, non per questo esso sfuggiva ai pesanti retaggi materiali e culturali di tale situazione.

 

Era vano illudersi che l’opinione popolare potesse risultare influenzata da un testo come il Memoriale della Confederazione Operaia socialista, inviato alle autorità nel 1889 con pubblico scandalo dei benpensanti che denunciavano il “precedente pericolosissimo”, quando, secondo i rilevamenti dell’ultimo censimento, ben il 43,05% degli abitanti (54.520 individui) risultava analfabeta.

 

In fondo, non era per un mero accidente della storia che il nucleo dell’élite operaia giuliana fosse sorto tra le file della professione tipografica, la quale presupponeva, con la capacità di leggere e scrivere, il farsi parte attiva del soggetto.

 

La miseria materiale non servita da un minimo d’istruzione non facilitava ma anzi indeboliva il proselitismo socialista, benché il Memoriale segnasse, con il suo lessico gradualista e nel raggiungimento dell’autonomia politica proletaria, un punto teorico e pratico memorabile. Il primo socialismo, in definitiva, con le sue parole d’ordine ed i suoi progetti di riforma della società, restava un’enclave in un panorama mentale fortemente orientato dalle esperienze di un passato ancora vitale.

 

Il reticolo di comportamenti e atteggiamenti propri di un mondo del lavoro sopravvivenza degli antichi tempi, non avrebbe però retto a lungo né alle nuove esigenze dell’attività industrializzata, né alla riflessione critica della dirigenza operaia, la quale, al di fuori di ogni sudditanza psicologica, porgeva ormai l’orecchio con regolarità ai dibattiti della Seconda Internazionale. Dibattiti e discussioni non più condannati a cadere in un vuoto pneumatico triestino.

 

Un complesso intreccio di antico e nuovo descrive allora la città, e il suo mondo professionale, al declinare degli anni ’80 del secolo. "Le irregolari giornate lavorative di 12 o 15 ore in ambienti degradati per condizioni igieniche e la presenza di fanciulli abbandonati nelle vie cittadine per difetto di vigilanza dei genitori che si recano al lavoro" (Relazioni e documenti 1867); e gli arcaici comportamenti che, presto o tardi, avrebbero perso la loro ragion d’essere ed il loro carico simbolico, poterono coesistere ancora per anni con la spinta riorganizzatrice del lavoro industriale e del suo rinnovato mercato, dipendente oramai dai trend produttivi delle grandi fabbriche cantieristiche, mentre il settore commerciale era progressivamente ma inevitabilmente sospinto a ruoli di pura complementarietà.

 

L’eredità del passato – quel lascito di vissuti individuali e di esperienze collettive misconosciuto anche da Marx – non si dissolse definitivamente. Per tutti gli anni ’80 la tradizionale vita popolare seppe mantenere ragioni e ritmi propri, pur all’interno di un contesto che andava sensibilmente trasformandosi, proiettando Trieste tra i grandi poli industriali della duplice monarchia.

 

Una certa insofferenza per la disciplina di fabbrica percepita come negazione dell’estro dei migliori operai; la propensione a considerare solo il soddisfacimento delle esigenze materiali immediate; la scelta di lavorare le ore strettamente necessarie a raccogliere il salario minimo per sopravvivere in una cornice individuale e familiare dalle aspettative quasi inesistenti; e, infine, l’usanza di manifestare la propria “illusione di ricchezza” attraversando le vie cittadine in carrozza con seguito di galline erano tutti atteggiamenti che persistettero non solo come riflessi condizionati di una lunga storia, pur mostrando col trascorrere del tempo il loro carico di anacronismo e inopportunità.

 

Dopo l’affermazione delle grandi fabbriche cantieristiche, della carta, della pilatura del riso e degli oli minerali, solo il canto, il vino e le cosiddette bevande spiritose, occasioni di una socializzazione ristretta non oltre l’ambito dell’officina e del rione, sarebbero sopravvissuti come testimonianze tradizionali di stili di vita presto derubricati a puro folklore.

 

Con i primi anni ’90, sul proscenio della lunga agonia della città emporiale, l’inarrestabile forza livellatrice della fabbrica capitalistica non investì solo il mondo del lavoro, ricomponendo in tipologie operaie più definite quella folla composita e quel ventaglio di caratteristiche professionali, “distorsioni fisiche” ed intellettuali che abbiamo visto agire nella Trieste dei primi anni ’60 dell’Ottocento. I quadri culturali e comportamentali ne risultarono altrettanto vincolati.

 

L’imprinting alla povertà condizionante le giovani generazioni cresciute in un ambito relazionale privo della minima aspirazione all’ascesa sociale, in famiglie dove il padre era spesso un facchino a giornata e la madre una sfruttata lavoratrice a domicilio, andò dissolvendosi non meno di quella sottocultura della miseria che sembrava nei tempi nuovi sostituita da stili di vita propri all’universo operaio.

 

Certo, tali processi non furono né lineari né privi di incertezze.

 

La complessità e la frammentarietà del mondo del lavoro triestino restarono un dato di fatto vitale ben oltre lo spartiacque del decennio 1890–1900.

 

Così come la condanna dello sfruttamento non cessò d’imbrigliare una notevole fetta della popolazione. Gli stessi consistenti progressi registrati nella quotidianità materiale dei poveri–operai impiegati nel comparto navale – progressi che si dovevano al successo cantieristico fondato sulla regolarità delle commesse militari viennesi – non si distribuirono a cascata.

 

La cittadinanza industriale acquisita da alcuni, comportò l’esclusione di altri per mezzo di congegni selettivi perfezionati in seguito dalle scelte di politica economica fascista. Una parte considerevole della popolazione urbana, tra cui, di nuovo ed in prima fila, le donne ed i minori, solo per via indiretta fu beneficiata dal decollo industriale.

 

La radicale insicurezza economica, l’instabilità professionale, la marginalità sociale e culturale, l’angoscia di vivere una vita in bilico e al limite della sussistenza, la rabbiosa consapevolezza di subire infondate discriminazioni, non erano esperienze destinate a scemare coll’ascesa dell’industria triestina, dell’operaismo e dell’austromarxismo.

 

Nella città degli Svevo, dei Joyce e dei Saba; nel capoluogo irredento simbolo delle lotte nazionali; nella culla italiana e centro d’irradiazione della psicoanalisi mercé Edoardo Weiss; nella stessa Trieste italianissima di un onnipresente fascismo di confine, violentemente ignaro della pluralità dei volti e della ricchezza delle storie cittadine, vaste porzioni della popolazione continuarono a sopravvivere in condizioni miserabili, e ad essere sfruttate in forme crudeli. Non avrebbe scritto nulla di nuovo, il 31 agosto 1925, il medico dell’Ufficio Igiene del comune relazionando i superiori gerarchici dopo un’ispezione presso lo Jutificio Triestino:

 

"Ho avuto quest’oggi l’occasione di visitare certa Guatin Cecilia. Informatomi delle sue condizioni di vita venni a sapere che essa lavora dalle 6 alle 17,30 all’Jutificio triestino con una interruzione di 20 minuti, dalle 11,30–11,50 (…) Il risultato del lavoro troppo lungo, troppo faticoso ed antigienico, è che la ragazza dopo un breve periodo di lavoro ha già bisogno di essere accolta all’ospedale. Industriali poco scrupolosi sfruttano in questo momento l’estrema miseria di una parte della popolazione per imporre delle condizioni di lavoro addirittura inumane. Primeggiano in questo riguardo il Jutificio e i magazzini di tabacco ed è impressionante il numero delle ragazze e donne ammalate che erano e sono tuttora occupate in queste aziende."

 

Oltre la cartapesta della città immaginata, indigenza e sfruttamento erano tarli destinati a scavare ancora a lungo nelle esistenze di molti triestini.

 

 

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