N. 19 - Luglio 2009
(L)
Un’altra Trieste asburgica
tra consapevolezza dei poveri e coscienza operaia
di Andrea Scartabellati
A
differenza
di
quanto
scriveva
compiaciuto
Eric
J.
Hobsbawn
25
anni
orsono,
la
storiografia
sul
movimento
operaio
vive
oggi
un
momento
d’incertezza,
se
non
di
vero
e
proprio
disorientamento,
parallelo
al
declino
della
presenza
operaia
nelle
società
occidentali
della
post–modernità.
Non
è
questo
il
luogo
per
interrogarsi
sulle
ragioni
di
un
tale
declino.
Non
di
meno,
l’adozione
di
rinnovate
prospettive
analitiche,
filtrate
dai
deficit
più
lampanti
della
storiografia
militante,
ha
permesso
ancora
recentemente
di
aprire
nuovi
spazi
di
riflessione
sul
tema,
prospettando
percorsi
euristici
meno
condizionati
dall’attualità
della
polemica
politica.
Il
caso
di
Trieste,
inoltre,
presenta
una
peculiarità
degna
di
non
essere
lasciata
cadere.
Negli
ultimi
anni,
le
storie
della
città
e
del
suo
hinterland
sono
andate
polarizzandosi
attorno
ad
una
serie
di
temi
e di
approcci
che
hanno
indotto
gli
studiosi
a
trascurare
opzioni
di
ricerca
forse
meno
a
la
page,
ma
non
meno
utili
per
decifrare
gli
avvenimenti
giuliani
tra
XIX
e XX
secolo.
Percorsi
che
intendono
la
storia
quale
futuro
di
un
passato
a
noi
prossimo
non
liquidabile
nelle
sole
vestigia
della
letteratura
di
stampo
mitteleuropeo
e
nel
più
rituale
e
degli
approcci
storico–politici.
Per
quanto
legittimi
ed
appassionanti,
infatti,
tali
approcci
e
temi
– a
cominciare
dalla
inossidabilità
di
un
mito
asburgico
fagocitante
gli
aspetti
popolareschi
locali
–
hanno
tuttavia
avuto
il
limite
d’imbrigliare
sovente
la
storia
di
Trieste
in
immagini
ossificate,
se
non
al
confine
del
grottesco.
Da
questo
punto
di
vista,
a
rettifica
di
quella
sorta
di
villaggo
Potëmkin
raccontato
ai
lettori
più
sprovveduti
dalla
pubblicistica
di
grande
tiratura,
il
recupero
della
pluralità
delle
storie
sociali
e
delle
identità
triestine
incoraggia
gli
studiosi
ad
integrare
l’immagine
ambigua
(e
stereotipata)
della
città
borghese
operosa
ma,
nello
stesso
tempo,
interiormente
malata
–
istantanea
che
caratterizza
sottotraccia
la
Trieste
della
letteratura
e
degli
attriti
nazionalistici
–
con
il
volto
di
una
metropoli
altra,
frequentemente
misconosciuta,
e
della
quale
la
memoria
locale
non
sempre,
con
lodevoli
eccezioni,
pare
avere
piena
consapevolezza.
In
questo
breve
saggio,
trattando
della
povertà
e
del
mondo
del
lavoro
tra
1860
e
1890,
cercherò
di
segnalare
alcune
piste
di
studio
che
andrebbero
ulteriormente
battute
e
approfondite.
Rivolgendomi
ad
un
tema
in
grado,
negli
anni
’70,
di
far
versare
fiumi
d’inchiostro,
ed
oggi
quasi
completamente
abbandonato,
mi
propongo
di
indagare
alcuni
aspetti
– e
solo
alcuni
–
del
tragitto
storico
popolare
anteriore
alla
formazione
della
classe
operaia
triestina,
scegliendo
come
luogo
analitico
le
vicende
del
mercato
del
lavoro
in
rapporto
alle
condizioni
di
vita
quotidiane
– le
radici
materiali
–
della
manodopera
indigente.
La
sottovalutazione
delle
vicende
del
lumpenproletariat
triestino
a
favore
di
un’onnipresente
immagine
borghese
della
città,
non
è
una
pratica
limitata
ai
tempi
recenti.
Incautamente,
anche
il
padre
del
movimento
comunista
mondiale,
Karl
Marx,
era
scivolato
in
un
simile
malinteso.
In
un
lungo
articolo
dedicato
al
Commercio
marittimo
dell’Austria,
pubblicato
in
due
puntate
nel
1856
sul
New
York
Daily
Tribune,
il
pensatore
di
Treviri
aveva
osservato:
“Come
mai
proprio
Trieste
e
non
Venezia
diventò
la
culla
della
rifiorente
marineria
dell’Adriatico?
Venezia
era
una
città
di
ricordi;
Trieste
possedeva,
al
pari
degli
Stati
Uniti,
il
vantaggio
di
non
avere
nessun
passato.
Costruita
da
una
variopinta
folla
di
commercianti
e
speculatori
italiani,
tedeschi,
inglesi,
francesi,
greci
ed
ebrei,
non
era
gravata
da
tradizioni
come
la
città
lagunare
(…)
Il
prosperare
di
Trieste
non
conosce
pertanto
limiti,
ad
eccezione
della
sua
dipendenza
dallo
sviluppo
delle
forze
produttive
e
dei
mezzi
di
comunicazione
di
quell’immenso
complesso
di
paesi
oggi
soggetti
all’autorità
austriaca”.
Davvero
il
capoluogo
del
litorale
austriaco
–
come
asseriva
Marx,
fatte
salve
le
esigenze
di
sintesi
giornalistica
–
non
aveva
nessun
passato
o
chi
lo
incarnasse
con
il
proprio
problematico
vissuto?
In
realtà,
seppur
accomunata
dalla
miseria
e da
non
molto
altro,
tirava
a
campare
a
Trieste
una
moltitudine
composita
di
pitocchi,
espressione
peculiare
della
recente
storia
cittadina.
Una
folla,
descritta
nelle
caratteristiche
pregnanti
fin
dall’ordinanza
aulica
del
1784
(Armeninstitut,
1784)
e
dal
Rapporto
sul
pauperismo
di
otto
decenni
posteriore,
composta
da
anziani
impotenti
al
lavoro,
fanciulli
lasciati
a se
stessi,
da
forestieri,
disoccupati,
ex
incarcerati,
prostitute,
vagabondi,
braccianti
stagionali,
artigiani
degli
squeri,
pescatori
sul
lastrico,
mondatrici
di
caffè
e,
per
ultimo,
da
donne
non
maritate
madri
"di
quella
miseranda
caterva
di
bastardi
i
quali,
se
esposti,
vanno
a
carico
del
comune,
se
cresciuti
nella
casa natìa,
restano
abbandonati
o
negletti"
(Commissione
al
Pauperismo,
1864).
Individui
dal
contorno
generazionale
e
socio–professionale
sfumato.
Attori
non
marginali
–
venendone
influenzati
e
influenzandolo
– di
un
mercato
del
lavoro
in
costruzione,
che
“si
dedicavano
a
una
delle
tante
indefinite
occupazioni
con
le
quali
a
Trieste
si
riusciva
a
sopravvivere
quasi
come
con
un
mestiere
vero”,
come
ricorda
icastico
Ivo
Andrič
nella
Cronaca
di
Travnik.
Sintetizzando
le
eredità
economiche
del
recente
passato,
anche
nel
capoluogo
litoraneo
lo
spazio
delimitato
dall’antica
urbe
tergestina
e
dai
suburbi
edificati
dalla
metà
dell’Ottocento,
andò
costituendo
un
mercato
del
lavoro
che
possiamo
assumere
come
un
sistema
compatto
ed
interdipendente
a
partire
dai
primi
anni
’60
del
XIX
secolo.
Dire
mercato
del
lavoro,
in
queste
pagine,
significa
assumere
una
convenzione
analitica
la
quale
ha
una
ragione
d’essere
qualora
non
si
dimentichi
come,
concretamente,
essa
equivalesse
nel
vissuto
della
miriade
di
pitocchi
in
cerca
d’una
occupazione,
al
passaparola
con
amici
o
conoscenti
del
rione,
al
girovagare
tenace
strada
per
strada,
officina
per
officina,
opificio
per
opificio;
oppure
spesso,
nei
casi
peggiori,
al
prolungato
bivacco
sui
moli
in
attesa
di
un
qualche
veliero
da
scaricare
in
qualità
di
facchini
ad
ore.
Di
questa
folla
senza
diritti
e
sprovvista
di
un’identità
sociale
e
professionale
precisa,
l’originale
mercato
del
lavoro
che
si
realizzò
non
poté
prescindere
nella
sua
fase
eroica.
Per
restare
semplicemente
in
piedi,
tale
mercato
del
lavoro
nella
città
in
trasformazione
da
emporio
a
porto
del
transito,
necessitava
dell’esistenza
di
larghe
fasce
della
popolazione
esposte,
senza
garanzia
alcuna,
sia
agli
imperativi
imprenditoriali
contingenti
(Commissione
mista
d’Inchiesta
Industriale
e
Commerciale,
1875)
– a
loro
volta
input
dei
più
vasti
circuiti
commerciali
dell’economia
mondo
–
sia
al
pressoché
continuo
rischio
dell’immiserimento
e
della
fame.
Un’indigenza
radicale
contro
la
quale,
al
di
là
di
certe
interessate
sopravvalutazioni,
modesta
risultava
l’opera
di
alleviamento
delle
paternalistiche
élite
del
potere.
Dagli
anni
’60,
e
fino
allo
spartiacque
rappresentato
dall’accelerata
industrializzazione
di
fine
XIX
secolo,
le
figure
tipiche
di
questo
mercato
del
lavoro
furono
il
bracciante
e il
piccolissimo
artigiano–operaio
degli
squeri,
adibiti
il
primo
allo
scarico
e
carico
dei
bastimenti,
ed
il
secondo
alla
costruzione
e
alla
riparazione
degli
stessi.
La
riconversione
dell’emporio
in
una
economia
del
transito
–
dinamica
giunta
a
termine
con
i
primi
anni
’70
–,
se
da
un
lato
vide
il
relativo
aumento
degli
addetti
alla
costruzione
e
riparazione
dei
carri
da
trasporto
merci,
dall’altro
non
mutò
l’orizzonte
produttivo
dominante.
Quello
composto
dalla
prevalenza
di
un
insieme
economico
stabilmente
incentrato
su
unità
professionali
semiartigianali,
con
bassa
richiesta
di
tecnologia
e
professionalità,
orientate
verso
la
trasformazione
delle
materie
prime
in
arrivo
od
in
partenza
per
il
porto.
Del
resto,
l’instabile
situazione
del
più
ampio
contesto
commerciale
internazionale
non
sollecitava
l’imprenditoria
giuliana
ad
incrementare
la
dimensione
dei
traffici
e
delle
attività
manifatturiere.
Gli
stessi
cantieri
navali
–
con
il
commercio
l’altro
tradizionale
core
business
del
mondo
del
lavoro
locale
–
non
erano
immuni
da
frequenti
e
cicliche
fasi
di
crisi,
né
sfuggivano
alla
generalizzazione
sulla
semiartigianalità
e su
una
qualificazione
che,
se
conseguiva
l’eccellenza
per
un
ristretto
numero
di
operai,
non
era
certamente
diffusa
tra
la
manodopera
di
fatica.
Non
solo
il
commercio
a
seguito
della
stasi
europea,
ma
anche
i
cantieri,
dal
1874,
erano
precipitati
in
una
fase
di
grave
decadenza.
La
Grande
Depressione
del
1873,
accelerata
dal
crack
bancario
viennese,
aveva
gettato
pesantemente
la
propria
ombra
sulla
città.
Lo
Stabilimento
Navale
Adriatico
(Cantiere
S.Marco)
a
fronte
del
blocco
delle
ordinazioni,
dopo
il
drastico
licenziamento
di
falegnami
e
carpentieri,
non
aveva
potuto
far
altro
che
chiudere
i
battenti.
E
nel
corso
dell’anno
successivo,
toccava
all’Arsenale
del
Lloyd
–
cantiere
solo
parzialmente
esposto,
data
la
garanzia
statale,
alle
fluttuazioni
della
domanda
–
licenziare
in
blocco
le
maestranze.
In
questo
clima
che
non
invitava
all’ottimismo,
e
obbligava
la
Direzione
Generale
della
Pubblica
Beneficienza
ad
interrogarsi
sulle
più
efficaci
strategie
assistenziali
(ASIT
Resoconti,
1860
e
succ.)
era
compito
degli
uffici
comunali
svolgere
una
prima
indagine
per
tratteggiare
un
volto
meno
impreciso,
rispetto
al
passato,
del
mondo
del
lavoro
locale.
La
ricognizione
statistica,
al
di
là
dei
deficit
metodologici,
perveniva
a
due
importanti
conclusioni.
In
primo
luogo,
dopo
aver
rilevato
in
un’ottica
comparatistica
il
quadro
professionale
“tutt’affatto
speciale”
di
Trieste,
il
cui
profilo
“non
si
assomiglia
nel
suo
complesso
a
veruna
delle
città
[europee]
prese
in
esame”
,
constatava
come
59.588
persone
vivessero
del
proprio
lavoro,
69.541
fossero
a
carico
di
altri
e
12.611
appartenessero
alla
classe
della
servitù
“non
convivente
coi
padroni”.
In
secondo
luogo,
accertava
la
sorprendente
e
rilevante
diffusione
di
professioni
che,
oggi,
assoceremmo
al
cosiddetto
settore
terziario.
L’incidenza
del
settore
dei
servizi,
già
rintracciabile
nella
precedente
ricognizione
statistica
del
1869,
se
da
un
lato
rivelava
il
ritardo
del
modello
professionale
triestino
rispetto
a
quello
di
paragonabili
città
europee
investite
dal
fenomeno
dell’industrializzazione
sul
modello
britannico,
dall’altro,
in
sede
di
riflessione
storiografica,
non
permette
di
leggere
nel
ritardo
né
la
profezia
di
un
assetto
del
lavoro
che
sarebbe
sorto
solo
un
secolo
più
tardi,
in
età
di
post–industrializzazione,
né,
capovolgendo
la
logica
analitica,
la
persistenza
di
una
struttura
economica
ancora
intrisa
di
vitale
corporativismo.
Rispetto
a
quest’ultima
eventualità,
infatti,
l’effetto
frenante
per
l’espansione
economica
giocato
da
quel
che
restava
delle
vecchie
corporazioni
–
venuto
meno
da
decenni
il
pendant
rivoluzionario
che
le
aveva
connotate
alla
fondazione
–
era
stato
via
via
aggirato
dall’abile
imprenditorialità
con
l’impiego
di
rinnovati
rapporti
di
subordinazione.
Rapporti,
dagli
anni
’60
ampiamente
utilizzati,
come
da
tradizione
né
codificati
né
provvisti
di
norme
volte
alla
salvaguardia
degli
interessi
del
lavoratore,
e la
cui
matrice
teorica
era
il
più
spinto
laissez
faire
di
matrice
anglosassone.
Fonte:
Archivio
Storico
del
Comune
di
Trieste,
Censimenti
del
1869
e
del
1875.
Nella
dialettica
di
una
regolamentazione
(falsamente)
egualitaria
del
lavoro
tra
impresa
e
manovalanza
d’estrazione
misera
–
così,
almeno,
sostenevano
consiglieri
e
delegati
nelle
assise
comunali
–
nuove
figure
professionali,
in
genere
riconducibili
alle
cosiddette
fasce
deboli
della
popolazione
(La
popolazione
1878,
pp.
LXXI–LXXII)
s’erano
prepotentemente
affacciate
sul
mercato
del
lavoro
dappresso
ai
tradizionali
ruoli
maschili.
Proprio
queste
figure
prive
di
tutele,
soprattutto
adolescenti
e
donne
–
tra
cui
spiccavano
le
popolari
sessolotte,
mondatrici
di
caffè,
gomma,
pepe,
mandorle
(Grassi
1971,
p.
149)
–
risultavano
caratterizzarsi
contemporaneamente
dal
sovrapporsi
incomposto
di
almeno
tre
caratteristiche
estremamente
eloquenti
delle
realtà
del
lavoro
dell’epoca.
Donne
e
minori
erano
in
primo
luogo
soggetti
in
forma
intensamente
drammatica
al
più
classico
dei
ricatti
connaturati
alla
condizione
del
povero:
l’impossibilità,
quasi
assoluta,
di
avere
margini
di
libertà
nella
scelta
dell’occupazione.
In
secondo
luogo,
cristallizzavano,
con
il
loro
vissuto
di
fatica
e
sfruttamento,
l’ingiustizia
di
un
rapporto
lavorativo
che,
pur
dopo
ore
e
ore
di
impegno
retribuito
con
salari
da
fame,
non
li
preservava
dal
rischio
di
un’ulteriore
discesa
nelle
sabbie
mobili
dell’indigenza.
Infine,
terzo
punto,
rappresentavano
considerati
collettivamente
quella
frazione
lavorativa
mobile,
precaria
e
flessibile,
sulla
quale
si
riversavano
con
regolare
durezza
le
onde
d’urto
d’ambito
locale
di
un’economia–mondo
in
progressivo
assestamento.
Drammaticamente,
donne
adolescenti
e
bambini
–
figure
già
ai
margini
della
convivenza
sociale
e
familiare,
se è
vero
che
i
contadini
dell’hinterland,
in
caso
di
carestia,
s’interrogavano
sul
chi
fosse
più
proficuo
sfamare,
i
congiunti
o le
bestie
da
soma,
paradossalmente
proprio
per
garantire
l’avvenire
della
famiglia
(VCON
1866,
pp.
97–98)
–
risultavano
così
lo
stadio
ultimo
e
più
penalizzato
di
una
catena
economica
che,
all’estremo
opposto,
si
muoveva
con
rinomata
destrezza
nei
mercati
dei
paesi
britannici,
dell’India
e
degli
Stati
Uniti.
Il
prezzo
della
concorrenzialità
commerciale
triestina
sui
mercati
esteri
era,
insomma,
un
tributo
che
queste
figure
svantaggiate
si
accollavano
quasi
per
intero.
La
catena
ternaria
povertà/sfruttamento/povertà,
intercambiabile
con
la
successione
sfruttamento/povertà/sfruttamento,
si
mostrava
senza
veli
ideologici
anche
in
un’altra
forma
tipica
di
lavoro
particolarmente
diffusa
nell’ambito
giuliano:
quella
domiciliare.
L’industria
domestica,
elemento
non
residuale
ma
fattore
essenziale
dello
sviluppo
emporiale,
e
fonte
di
reddito
integrativo
tutt’altro
che
trascurabile
per
le
vulnerabili
economie
familiari
prive
di
risparmi,
aveva
poco
da
spartire
con
le
forme
della
proto
industrializzazione
studiate
dalla
storiografia
negli
ultimi
quarant’anni,
se
non
per
il
comune
tasso
di
sfruttamento
del
salariato.
Utilizzando
la
definizione
dell’epoca,
l’industria
domiciliare
era
quella
attività
esercitata
dal
lavoratore
entro
la
propria
casa,
con
la
percezione
di
un
salario
a
fattura,
il
cottimo,
poiché
formalmente
il
“committente
non
ha
il
controllo
sulla
durata
di
lavoro
dell’operaio”.
Diffuso
presso
i
rioni
popolari
prospicienti
il
porto
e,
quindi,
in
pieno
contesto
urbano,
tale
sistema
di
produzione
rivelava
il
proprio
sbilanciamento
a
scapito
del
lavoratore
quando
si
rammenti
"come
egli,
e
non
già
il
committente,
sostenga
le
spese
del
laboratorio".
Ed è
questo
uno
dei
principali
motivi
di
sussistenza
dell’industria
a
domicilio,
poiché
permette
all’imprenditore
di
riversare
l’onere
delle
spese
fisse
e di
quelle
circolanti
sull’operaio.
Spese,
non
è
superfluo
aggiungere,
non
conteggiate
e
rifuse
nella
determinazione
del
cottimo.
Il
lavoratore
(o
la
lavoratrice)
a
domicilio
non
aveva
rapporti
diretti
col
consumatore
della
propria
fatica:
ciò
lo
differenziava
marcatamente
dal
tipico
artigiano.
Come
questo,
invece,
scontava
una
forte
irregolarità
del
reddito,
spesso
tendente
al
massimo
del
ribasso.
“Il
lavoratore
a
domicilio
–
osservava
un
analista
economico
nei
primi
anni
’20
del
XX
secolo
–
percepisce
un
salario
di
solito
assai
modesto
(...)
I
salari
che
s’incontrano
nell’industria
a
domicilio
sono
sempre
bassissimi,
inferiori
a
quel
minimo
di
esistenza
sotto
il
quale
non
si
può
immaginare
che
discenda
una
creatura
umana;
sono
salari
da
fame.
Per
queste
ragioni,
concludeva,
“il
lavoro
a
domicilio
rappresenta
l’infimo
gradino
del
lavoro
salariato”.
Come
si
comprende
da
queste
poche
righe
d’annata,
siamo
ben
lontani
da
un
rapporto
di
lavoro
nel
senso
della
modernità
industriale.
Irregolarità
dei
ritmi,
alterna
fornitura
della
materia
prima
da
manipolare,
scarsa
o
nulla
richiesta
di
qualificazione,
assoluta
flessibilità
d’impiego,
ridottissima
remunerazione
del
fattore
lavoro,
presenza
di
un’agguerrita
concorrenza
e
inesistenza
di
una
legislazione
ad
hoc
che
ne
regolasse
lo
svolgimento:
queste,
in
definitiva,
le
caratteristiche
salienti
dell’industria
a
domicilio.
Il
sistema
di
produzione
domestico,
riflesso
e
molla
dell’affermazione
dell’imprenditorialità
emporiale
giuliana,
solo
con
la
grande
industrializzazione
degli
anni
’90
esaurirà
la
propria
necessità
economica.
E
tuttavia,
malgrado
l’alto
tasso
di
sfruttamento
e lo
scarso
prezzo
del
lavoro,
esso
spiegava
nel
contesto
socio–economico
del
tempo
una
duplice
e
progressiva
funzionalità.
Sia,
come
anticipato,
col
fornire
una
fonte
di
reddito
addizionale
ai
magri
bilanci
delle
famiglie
triestine;
una
quota
integrativa
essenziale
della
scarsa
ed
irregolare
mercede
guadagnata
dal
capofamiglia
generalmente
impiegato
nelle
attività
portuali.
Sia,
ancora,
con
lo
spalancare
facilmente
– la
facilità
d’ingresso
era
funzione
proporzionale
del
grado
di
sfruttamento
– le
porte
del
mondo
del
lavoro
alle
fasce
più
svantaggiate
e
meno
qualificate
della
popolazione.
Immigrati
di
recente
urbanizzazione
sfuggiti
alle
trasformazioni
intervenute
nelle
campagne
dell’hinterland
dopo
l’abolizione
della
servitù
della
gleba;
donne
sole
o
vedove
con
figli
a
carico;
anziani
deboli
e
malaticci:
per
questi
uomini
e
donne
l’industria
a
domicilio
rappresentò
una
via
di
fuga
importante,
seppur
gravosa
umanamente,
dalla
fame
e
dall’indigenza.
Con
le
donne
ed i
minori
attivi
nella
produzione
domiciliare,
un
gradino
infimo
nella
scala
del
mercato
del
lavoro
era
di
regola
occupato
da
individui
di
origine
slovena
e
croata
provenienti
dall’Istria,
dalla
Dalmazia,
dalla
Carniola
e
dal
Goriziano,
la
cui
massiccia
immigrazione
in
città
aveva
suscitato
l’irritazione
popolare
e
introdotto
un
forte
elemento
di
disturbo
sul
già
precario
equilibrio
dell’occupazione
e
dei
livelli
salariali
urbani.
La
suddivisione
del
mercato
occupazionale,
oltre
che
lungo
linee
di
genere,
lungo
distinzioni
di
appartenenza
nazionale,
non
faceva
che
esaltare
e,
nello
stesso
tempo,
esasperare,
quella
che
Friedrich
Engels
aveva
chiamato
ne
La
situazione
della
classe
operaia
in
Inghilterra
(1845)
la
guerra
dei
poveri.
In
un
contesto
lavorativo
soggetto
a
cicliche
crisi,
dove
insufficiente
era
l’intervento
di
lotta
alla
povertà
degli
uffici
municipali,
la
presenza
slovena
o
croata
rappresentò,
vista
dal
basso,
solo
relativamente
e
solo
per
una
frazione
minoritaria
della
cittadinanza,
quell’intimidazione
nazionalista
favorita
a
monte
dal
governo
austriaco
che
avrebbe
fatto
scrivere
pagine
e
pagine
ai
pubblicisti
filo–italiani.
Per
la
popolazione
povera
da
tempo
residente
a
Trieste,
sia
che
essa
parlasse
il
dialetto
con
perfetta
inflessione
veneta
oppure
balcanica,
la
cosiddetta
intrusione
slava
in
una
città
dalla
rivendicata
ascendenza
culturale
italiana
significò,
in
primo
luogo
e
soprattutto,
la
formalizzazione
di
una
supplementare
minaccia
economica
all’instabile
equilibrio
raggiunto
dai
redditi
familiari.
Un
vùlnus
suppletivo
per
una
dignità
popolare
già
messa
a
repentaglio
dalle
trasformazioni
economiche
succedutesi
dalla
fine
degli
anni
’70.
Il
sospetto
o il
disprezzo
dei
lavoratori
triestini
verso
i
nuovi
operai
generici
sloveni
e,
più
in
generale,
le
irruenti
reazioni
della
dequalificata
manodopera
locale
alla
concorrenza
rappresentata
dai
lavoratori
stranieri
giunti
in
città
anche
dal
Regno,
come
i
genovesi
a
fronte
di
certa
mitologia
patriottarda,
più
che
i
timori
per
la
minacciata
identità
nazionale,
ne
portavano
in
superficie
la
spiacevole
consapevolezza
circa
i
rischi
della
potenziale,
oltre
che
probabile,
ulteriore
decadenza
sociale.
Nelle
prime
ore
dell’accelerata
industrializzazione
cittadina,
che
attirò
migliaia
di
immigrati,
non
fu
il
refrain
nazionalistico
a
giocare
la
partita.
Fu
il
discorso
identitario–localistico
della
piccola
patria
triestina,
nutrito
dal
secolare
sentimento
autonomistico
comune
a
elite
del
potere
e
massa
povera,
a
fornire
a
questi
ultimi
l’occasione
e lo
strumento
per
la
rivendicazione
della
conservazione
degli
assetti
socioeconomici
del
presente.
La
crescente
percezione
d’insicurezza
materiale
diffusasi
nelle
fasi
d’implementazione
della
grande
industria,
fu
affrontata
dalla
popolazione
povera
non
tanto
con
lo
sviluppo
di
organizzazioni
sindacali
o
club
politici
–
questi
sarebbero
sistematicamente
sorti
soltanto
il
decennio
successivo.
Bensì
con
la
illusoria
soluzione
della
riproposta
di
un
senso
di
appartenenza
territoriale
che
mirava
ad
almeno
tre
obiettivi.
Primo,
identificare
senza
incertezze
i
veri
triestini;
secondo,
piantare
quei
paletti
che
permettevano
di
escludere,
anche
giuridicamente,
dal
diritto
all’occupazione
e
dal
godimento
della
carità
i
forestieri;
terzo,
e
non
da
ultimo,
preservare
concretamente
il
diritto
alla
dignitosa
sopravvivenza
degli
indigenti
locali
assicurato
dal
doveroso
impegno
delle
classi
possidenti.
Solo
i
veri
triestini,
per
quanto
fumosa
potesse
risultare
la
formula
della
triestinità,
potevano
legittimamente
reclamare
la
protezione
connessa
col
legame
sociale
che
aveva
storicamente
stabilito
una
reciprocità
d’interessi
tra
poveri
ed
élite.
Un
vincolo,
se
non
di
fortune
di
comuni
destini,
la
cui
origine
apparteneva
ad
una
topologia
mentale
da
Ancien
régime,
ma
che,
paradossalmente,
e
seppur
come
suggestione
residuale,
si
caricava
di
pressante
attualità
nello
stadio
transitorio
che
osservava
Trieste
sostituire
alla
centenaria
economia
emporiale
una
perfezionata
struttura
industriale
(1880–1890).
Riattualizzare
l’idea
della
doverosa
difesa
dei
veri
triestini
poveri
da
parte
dei
ceti
possidenti,
permetteva,
inoltre,
ai
primi
di
muoversi
nei
terreni
minati
del
sociale,
dell’economia
e
finanche
del
politico
senza
suscitare
le
paure
classiste
dei
secondi.
La
ferita,
oltre
che
lo
smarrimento
generato
dalla
grande
paura
della
Comune
di
Parigi
(1871),
erano
ancora
un
fresco
ricordo.
La
perdita
del
primato
dell’economia
commerciale
a
Trieste
–
economia
precocemente
proiettata
verso
il
libero
scambismo,
con
una
pratica
di
mercato
secolare
alle
spalle
–
sotto
i
colpi
del
capitalismo
industriale,
coincideva
con
un
massimo
di
aspettative
di
sessolotte,
lavoratori
e
lavoratrici
a
domicilio,
braccianti,
facchini
e
manodopera
degli
squeri,
diretta
a
non
andar
oltre
il
ripristino
delle
antiche
consuetudini.
I
poveri
triestini,
non
ancora
classe
operaia,
non
domandavano
una
compartecipazione
al
controllo
del
mercato
del
lavoro,
come
invece
avveniva
nelle
più
mature
realtà
industriali
dell’epoca.
All’opposto,
reclamavano
si
individuasse
nel
pomerio
della
città
il
limite
del
benessere
comune,
e
nella
residenza
comprovata
da
decenni
la
discriminante
per
accedere
o
meno
al
pubblico
soccorso.
Un
aspetto
dell’economia
morale
che
decenni
di
laissez
faire
avevano
relegato
tra
i
ferri
vecchi
della
dinamica
sociale,
ora,
saldandosi
con
un
tratto
vetusto
del
pensiero
delle
élite
imprenditoriali
e
amministrative
concernente
la
sostanzialità
di
una
cittadinanza
triestina,
si
riattivava
non
estendendosi
indefinitamente
alla
comunità
dei
bisognosi
–
figlia
nemmeno
troppo
velata
degli
oltre
40.000
nuovi
abitanti
registrati
dalla
città
in
soli
34
anni
–,
ma
avendo
nell’appartenenza
alla
piccola
patria
cittadina
l’elemento
di
distinguo.
Nemmeno
con
le
trasformazioni
socioeconomiche
seguite
al
trasferimento
delle
risorse
attive
dal
settore
portuale–commerciale
a
quello
industriale
questo
dato
psicologico
di
lungo
periodo,
pur
esprimendo
nel
tempo
minor
compattezza,
fino
quasi
a
sparire
negli
anni
anteriori
la
Grande
guerra,
perderà
la
propria
carica
di
richiamo
per
una
larga
fetta
di
triestini
ricchi
e
poveri.
La
triestinità
–
artificio
identitario
della
massima
efficacia
nella
cornice
plurietnica
della
Trieste
asburgica
–
aveva
poi
il
merito
di
assorbire
a
priori
intestini
contrasti
etnici,
favorendo,
da
opposte
tribune,
singolari
convergenze.
Fotografando
la
situazione
del
lavoro
nel
1885,
il
consigliere
comunale
Nabergoi,
rappresentante
della
minoranza
slovena
urbana,
dopo
aver
invitato
le
autorità
a
far
fronte
all’incerto
momento
economico
con
l’auspicio
che
“venissero
assunti
operai
di
qui”,
puntualizzava:
“Sarà
generalmente
noto
che
diversi
cittadini
e
territoriali
si
trovano
privi
di
mezzi
per
mancanza
di
lavoro.
Essi
vanno
giornalmente
in
cerca
di
lavoro,
ma
non
ne
trovano.
Io
ho
avuto
occasione
di
vedere
e
persuadermi
che
sono
occupati
nei
lavori
pubblici
comunali
diversi
individui
i
quali
non
sono
pertinenti
al
Comune,
ma
forestieri.
È
vero
che
anche
questi
saranno
bisognosi,
ma
con
tutto
ciò
è
dovere
del
Comune
di
pensare
prima
per
i
propri”.
Non
diversamente
tuonava
la
voce
nel
consesso
comunale
del
consigliere
Edgardo
Rascovich,
borghese
illuminato
già
presidente
della
Società
Operaia
(I
sessant’anni
di
apostolato
1929).
Rascovich,
al
pari
del
Nabergoi,
deprecava
come
alla
Ferrovia
e
alla
Dogana
vi
fossero
impiegati
a
centinaia
tedeschi,
boemi,
slavi,
ungheresi,
croati
e di
tutte
le
altre
provincie
dello
Stato,
meno
che
di
Trieste.
Da
fronti
politici
inconciliabili,
la
messa
in
valore
della
triestinità
assimilava
il
pensiero
del
consigliere
di
origine
slovena
–
proteso
a
stigmatizzare
l’eccessiva
presenza
della
manodopera
regnicola
– a
quello
del
portabandiera
dell’italianità,
che
utilizzava
le
medesime
lagnanze
per
sottolineare,
all’opposto,
la
sproporzionata
presenza
nel
mondo
professionale
indigeno
di
estranei
non
pertinenti
al
comune.
Fonte:
Comune
di
Trieste,
Sviluppo
storico
della
popolazione
di
Trieste
dalle
origini
della
città
al
1954,
Stamperia
Comunale,
Trieste
1955.
Né
la
trasversalità
etnica,
né
il
consenso
di
cui
godette
presso
le
classi
povere
l’idea–guida
della
triestinità,
con
il
suo
sottinteso
immobilismo
sociale,
possono
essere
interpretati
quali
semplici
sovrastrutture
oppure
manipolazioni
borghesi
del
pensiero
popolare.
Anzi,
l’imprenditoria
non
aveva
molto
da
guadagnare
da
un
mercato
del
lavoro
statico
e
ripiegato
su
se
stesso.
In
realtà,
al
tramonto
della
Trieste
mercantile,
una
consapevolezza
autonoma
e
declinata
al
passato
dei
doveri
e
dei
diritti
dei
poveri,
sostanzialmente
approvata
dall’intera
comunità,
restava
la
bussola
orientativa
di
quella
folla
incomposta
–
qualora
di
veri
triestini
–
che
non
aveva
ancora
assunto
le
caratteristiche
sociologiche
della
classe
operaia
in
formazione.
E lo
sviluppo
successivo
di
una
coscienza
operaia,
parallelamente
all’impianto
delle
grandi
industrie
cantieristiche,
non
sarebbe
avvenuto
come
mero
processo
cumulativo.
La
coscienza
operaia
si
sarebbe
certo
giovata
della
persistenza
di
una
consapevolezza
sociale
dei
poveri
ricca
di
complesse
proiezioni
culturali
e di
multiformi
vissuti
determinati
dal
peculiare
mercato
del
lavoro
giuliano.
Ma
la
linea
di
continuità
e la
saldatura
tra
le
due
non
si
sarebbe
storicamente
data
come
elemento
di
fatto
stabilmente
acquisito
e
partecipato
dalla
popolazione
lavoratrice,
piuttosto,
invece,
nei
termini
di
una
negoziazione
continua
rispetto
alle
singole
evenienze
dell’economia
e
della
politica
chiamate,
volta
per
volta,
in
gioco.
Negoziazione
la
cui
dialettica
poteva
dar
adito
a
risposte
sia
progressive
e di
lungo
respiro
strategico,
sia
a
feedback
di
natura
eminentemente
tattica
e di
mera
difesa
dell’esistente.
Sfavorevolmente,
lo
sviluppo
della
coscienza
operaia
–
scontati
i
persistenti
tratti
rurali
della
popolazione
immigrata
e
una
multiculturalità
solo
per
le
élite
arricchimento
e
non
estraneità
–
risentì
fortemente
dell’intrinseco
conservatorismo
congenito
ad
una
mentalità
figlia
dell’Ancien
régime.
Mentre,
positivamente
e
con
curiosa
coincidenza
cronologica,
la
stessa
coscienza
operaia
poté
giungere
al
graduale
superamento
dell’arcaica
consapevolezza
dei
pitocchi
per
merito
della
palestra
di
discussione
che
quest’ultima
le
offrì
nel
dibattere,
sovente
sotto
l’assillo
dei
nefasti
effetti
delle
epidemie
di
vaiolo
e di
colera
di
materie
d’interesse
pubblico
quali
l’igiene,
la
sanità,
l’alimentazione
e
l’annona.
Prima
ancora
che
nello
spazio–laboratorio
della
grande
fabbrica,
che
ne
accelerò
la
dinamica
di
formazione,
e ne
portò
alle
conseguenze
terminali
il
processo
di
maturazione,
fu
infatti
nella
quotidianità
che
la
consapevolezza
antica
degli
indigenti,
tra
passi
avanti
e
ritirate
precipitose,
doveva
autoriformarsi,
virando
verso
nuove
forme
di
rappresentazione
e
partecipazione
operaia
maggiormente
edotte
degli
enormi
livelli
di
disuguaglianza
radicati
in
città.
Livelli
non
più
guardati
con
distaccato
fatalismo
e
scettica
passività.
Indubbiamente,
né
la
questione
della
nascita
della
coscienza
operaia
nei
suoi
legami
con
la
cognizione
dell’ingiustizia
della
massa
povera
preindustriale,
né
la
piena
comprensione
di
quel
vuoto
interpretativo
stabilitosi
tra
l’esistenza
plurisecolare
dei
miserabili
e la
formazione
del
proletariato
urbano,
possono
essere
colmati
in
queste
poche
pagine.
Storicamente
degna
di
nota
è,
tuttavia,
la
corrispondenza
temporale
in
ambito
giuliano
tra
l’ennesimo
immiserimento
popolare,
registratosi
tra
1875
e
1881–83
con
la
chiusura
di
vari
opifici,
i
numerosi
licenziamenti
e
l’abbattimento
delle
paghe
degli
scaricatori
come
unico
meccanismo
per
il
rilancio
portuale,
e
quel
primo
scatto
che,
rileggendo,
non
senza
ripensamenti
successivi,
l’idea
di
una
triestinità
da
difendere
ad
oltranza,
introduceva
nell’orizzonte
locale
nuove
opzioni
del
pensiero
sociale.
Uno
scatto
non
suscitato
bensì
guidato
dalle
prime
prove
politiche
di
un
gruppo
di
attivisti
non
borghesi,
il
cui
comun
denominatore
fu
l’impiego
nel
settore
tipografico,
e
dei
quali
fu
precipuo
merito
sia
il
superamento
delle
vecchie
modalità
associative,
sia
la
conduzione
di
una
politica
progettata
dal
basso
capace
di
emanciparsi
dalla
tradizionale
inerzia
conservatrice
delle
masse
miserabili.
“I
movimenti
operai”,
come
ha
sottolineato
Eric
J.
Hobsbawn
“erano,
oltre
a
tutto
il
resto,
anche
rivoluzioni
culturali”.
L’associazionismo
professionale
vantava
a
Trieste
una
non
lunga
storia.
Solo
nel
1834
s’erano
costituite
embrionali
forme
di
moderno
mutuo
soccorso,
con
la
Fratellanza
fra
Cappellai
in
prima
fila.
Dalla
metà
del
secolo,
un
frammentato
associazionismo
proto–operaio
si
ramificò
risollevando
parzialmente
le
sorti
delle
famiglie
indigenti,
e
agendo
di
concerto
con
le
organizzazioni
filantropiche
a
controllo
borghese
quali
la
Società
del
Progresso
e la
Previdenza
(1870).
Sostanzialmente
diretta
da
borghesi
illuminati
era
anche
la
già
nominata
Società
Operaia
Triestina,
nata
nel
1869
come
prima
organizzazione
a
riunire
formalmente
i
lavoratori
senza
far
valere
settari
criteri
di
discriminazione
professionale.
Dal
seno
della
S.O.T.
si
sarebbe
staccata
nel
1873
una
sezione
femminile;
mentre
il
1874
sanciva
la
significativa
costituzione
nella
città
di
una
società
riservata
esclusivamente
agli
individui
di
lingua
slovena,
la
Edinost.
Per
quanto
infaticabili
nel
lavoro
di
assistenza
svolto
giornalmente,
le
associazioni
menzionate
–
una
sorta
di
anello
di
raccordo
tra
le
vecchie
corporazioni
e le
future
rappresentanze
sindacali
–
restavano
sorde
e
impermeabili
alle
parole
d’ordine
che
giungevano
da
Londra
con
la
fondazione
della
Prima
Internazionale
(1864).
A
cagione
dell’affiliazione
borghese
dei
loro
direttivi,
il
tema
centrale
dell’autonomia
operaia
permaneva
un
approdo
da
scongiurare,
se
non
un
tabù.
Il
Manifesto
programmatico
della
Società
Operaia
Triestina
era
fin
troppo
esplicito
in
questo
senso.
Alla
concessione
delle
indispensabili
provvidenze
materiali
per
le
famiglie
operaie
(AST,
Imperial
Regia
Direzione
di
Polizia
1869–1883),
attanagliate
dalle
ristrettezze
economiche,
coniugava
la
pretesa
di
tutela
generalizzata
e di
rappresentanza
degli
associati
da
parte
di
quelle
élite
le
quali,
contemporaneamente,
controllavano
le
leve
del
mercato
del
lavoro.
E
del
resto,
non
accidentalmente
la
Società
Operaia
aveva
ricevuto
il
placet
del
padronato
locale.
Sintomatico
però
che,
nel
confronto
a
distanza
con
le
primitive
rivendicazioni
autonome
dei
lavoratori,
l’élite
giuliana
rispondesse,
almeno
in
prima
istanza,
attivando
quegli
stessi
meccanismi
comportamentali
che
avevano
patrocinato
le
reazioni
alla
modernità
industriale
dei
poveri.
In
sostanza,
inseguendo
una
soluzione
che
affondava
la
sua
ragion
d’essere
nel
passato,
e
riproponendo
quello
stile
relazionale
autoreferenziale
e di
distaccata
estraneità
umana
che
aveva
retto
il
confronto
del
dominus
con
le
folle
pauperistiche
fin
dalla
fine
del
XVI
secolo.
In
questa
riproposizione
di
un
contegno
non
solo
soggettivamente
inadatto
a
far
fronte
alle
richieste
provenienti
dalla
massa
povero–operaia,
ma
oggettivamente
obsoleto
stante
le
esigenze
di
stabilità
sociale
connaturate
al
funzionamento
dei
nuovi
apparati
produttivi,
un
ruolo
angolare
esprimeva
la
sconfessione
dell’indipendenza
individuale
e
collettiva
popolare.
Sconfessione
che,
se
da
un
lato,
mirava
a
mantenere
in
piedi
i
tradizionali
steccati
stabiliti
nei
rapporti
di
fiducia
tra
la
folla
bisognosa
e i
gruppi
benestanti,
dall’altro
aveva,
come
contraltare
pratico,
la
pretesa
di
soccorrere
i
poveri–operai
sulla
base
della
loro
accettazione
dello
statu
quo
e
delle
prerogative
loro
riconosciute,
octroyée,
dalle
rappresentanze
padronali
e
degli
agenti
di
commercio,
gli
ultimi
indefessi
difensori
del
sistema
dell’industria
domiciliare.
Scioperi
inattesi
dai
ceti
possidenti,
oppure
spontanei
come
quello
dei
pistori
(panettieri)
o
dei
bottai
–
represso
dall’intimidatorio
intervento
della
gendarmeria
–
ravvivavano
i
timori
classisti
delle
élite
giuliane,
incapaci
di
reagire
prescindendo
dalle
tradizionali
pulsioni
paternalistico–autoritarie.
In
virtù
di
ciò,
tuttavia,
il
cortocircuito
generatosi
tra
la
pretesa
rappresentanza
dei
poveri–operai
rivendicata
dalle
élite,
e le
reali
concessioni
materiali
di
ridistribuzione
della
ricchezza
a
cui
erano
disposte,
portava
a
compimento
l’irreversibile
tramonto
del
pensiero
sociale
della
borghesia
emporiale.
Tramonto
doppiamente
accelerato
sia
dai
responsi
di
un
quadro
di
miseria
urbana
entro
il
quale
l’intervento
filantropico
di
vecchio
conio
si
rivelava
inadatto
a
conseguire
risultati
accettabili;
sia
dalle
prime
puntuali
critiche
di
una
contro–élite
operaia
all’esordio,
più
credibile
nei
panni
di
araldo
delle
istanze
popolari,
abile
nel
giocare
la
carta
della
propria
insostituibilità
nei
meccanismi
industriali
per
tacitare
l’opinione
che
una
borghesia
d’antan
aveva
dei
poveri:
“gente
ignorante
e
improduttiva”.
Dal
biennio
1882–83
anche
a
Trieste,
la
nascita
clandestina
di
un
circolo
di
studi
socialisti
(BGU
1970,
p.
117),
segnalava,
non
solo
simbolicamente,
il
successo
dei
fermenti
internazionalisti
che
avevano
precedentemente
contagiato
settori
estesi
della
classe
operaia
viennese
e
praghese.
Pure,
nel
capoluogo
litoraneo,
la
diffusione
delle
nuove
idee
non
comportava
come
inevitabile
sottoprodotto
l’immediata
e
convinta
adesione
popolare.
La
subalternità
ai
desiderata
delle
classi
ricche,
elemento
fino
ad
allora
qualificante
l’agire
delle
organizzazioni
di
mutuo
soccorso
urbane,
era
sì
scalfita
ma
non
certo
azzerata.
La
predisposta
opera
di
repressione
poliziesca,
repentinamente
avviata
dalla
luogotenenza
imperiale,
fu
sicuramente
un
motivo
valido
nello
scoraggiare
l’affiliazione
di
molti
ai
circoli
socialisti
al
debutto.
Ma
la
paura
della
repressione
non
fu
l’unica
ragione
del
modesto
consenso
raccolto
dai
fermenti
ideali
internazionalisti.
Tutto
sommato,
se
l’estrinsecarsi
di
un
sentimento
di
appartenenza
operaia
aveva
tratto
stimolo
alla
discussione
dalle
miserabili
condizioni
entro
le
quali
era
costretta
a
vivere
la
popolazione,
non
per
questo
esso
sfuggiva
ai
pesanti
retaggi
materiali
e
culturali
di
tale
situazione.
Era
vano
illudersi
che
l’opinione
popolare
potesse
risultare
influenzata
da
un
testo
come
il
Memoriale
della
Confederazione
Operaia
socialista,
inviato
alle
autorità
nel
1889
con
pubblico
scandalo
dei
benpensanti
che
denunciavano
il
“precedente
pericolosissimo”,
quando,
secondo
i
rilevamenti
dell’ultimo
censimento,
ben
il
43,05%
degli
abitanti
(54.520
individui)
risultava
analfabeta.
In
fondo,
non
era
per
un
mero
accidente
della
storia
che
il
nucleo
dell’élite
operaia
giuliana
fosse
sorto
tra
le
file
della
professione
tipografica,
la
quale
presupponeva,
con
la
capacità
di
leggere
e
scrivere,
il
farsi
parte
attiva
del
soggetto.
La
miseria
materiale
non
servita
da
un
minimo
d’istruzione
non
facilitava
ma
anzi
indeboliva
il
proselitismo
socialista,
benché
il
Memoriale
segnasse,
con
il
suo
lessico
gradualista
e
nel
raggiungimento
dell’autonomia
politica
proletaria,
un
punto
teorico
e
pratico
memorabile.
Il
primo
socialismo,
in
definitiva,
con
le
sue
parole
d’ordine
ed i
suoi
progetti
di
riforma
della
società,
restava
un’enclave
in
un
panorama
mentale
fortemente
orientato
dalle
esperienze
di
un
passato
ancora
vitale.
Il
reticolo
di
comportamenti
e
atteggiamenti
propri
di
un
mondo
del
lavoro
sopravvivenza
degli
antichi
tempi,
non
avrebbe
però
retto
a
lungo
né
alle
nuove
esigenze
dell’attività
industrializzata,
né
alla
riflessione
critica
della
dirigenza
operaia,
la
quale,
al
di
fuori
di
ogni
sudditanza
psicologica,
porgeva
ormai
l’orecchio
con
regolarità
ai
dibattiti
della
Seconda
Internazionale.
Dibattiti
e
discussioni
non
più
condannati
a
cadere
in
un
vuoto
pneumatico
triestino.
Un
complesso
intreccio
di
antico
e
nuovo
descrive
allora
la
città,
e
il
suo
mondo
professionale,
al
declinare
degli
anni
’80
del
secolo.
"Le
irregolari
giornate
lavorative
di
12 o
15
ore
in
ambienti
degradati
per
condizioni
igieniche
e
la
presenza
di
fanciulli
abbandonati
nelle
vie
cittadine
per
difetto
di
vigilanza
dei
genitori
che
si
recano
al
lavoro"
(Relazioni
e
documenti
1867);
e
gli
arcaici
comportamenti
che,
presto
o
tardi,
avrebbero
perso
la
loro
ragion
d’essere
ed
il
loro
carico
simbolico,
poterono
coesistere
ancora
per
anni
con
la
spinta
riorganizzatrice
del
lavoro
industriale
e
del
suo
rinnovato
mercato,
dipendente
oramai
dai
trend
produttivi
delle
grandi
fabbriche
cantieristiche,
mentre
il
settore
commerciale
era
progressivamente
ma
inevitabilmente
sospinto
a
ruoli
di
pura
complementarietà.
L’eredità
del
passato
–
quel
lascito
di
vissuti
individuali
e di
esperienze
collettive
misconosciuto
anche
da
Marx
–
non
si
dissolse
definitivamente.
Per
tutti
gli
anni
’80
la
tradizionale
vita
popolare
seppe
mantenere
ragioni
e
ritmi
propri,
pur
all’interno
di
un
contesto
che
andava
sensibilmente
trasformandosi,
proiettando
Trieste
tra
i
grandi
poli
industriali
della
duplice
monarchia.
Una
certa
insofferenza
per
la
disciplina
di
fabbrica
percepita
come
negazione
dell’estro
dei
migliori
operai;
la
propensione
a
considerare
solo
il
soddisfacimento
delle
esigenze
materiali
immediate;
la
scelta
di
lavorare
le
ore
strettamente
necessarie
a
raccogliere
il
salario
minimo
per
sopravvivere
in
una
cornice
individuale
e
familiare
dalle
aspettative
quasi
inesistenti;
e,
infine,
l’usanza
di
manifestare
la
propria
“illusione
di
ricchezza”
attraversando
le
vie
cittadine
in
carrozza
con
seguito
di
galline
erano
tutti
atteggiamenti
che
persistettero
non
solo
come
riflessi
condizionati
di
una
lunga
storia,
pur
mostrando
col
trascorrere
del
tempo
il
loro
carico
di
anacronismo
e
inopportunità.
Dopo
l’affermazione
delle
grandi
fabbriche
cantieristiche,
della
carta,
della
pilatura
del
riso
e
degli
oli
minerali,
solo
il
canto,
il
vino
e le
cosiddette
bevande
spiritose,
occasioni
di
una
socializzazione
ristretta
non
oltre
l’ambito
dell’officina
e
del
rione,
sarebbero
sopravvissuti
come
testimonianze
tradizionali
di
stili
di
vita
presto
derubricati
a
puro
folklore.
Con
i
primi
anni
’90,
sul
proscenio
della
lunga
agonia
della
città
emporiale,
l’inarrestabile
forza
livellatrice
della
fabbrica
capitalistica
non
investì
solo
il
mondo
del
lavoro,
ricomponendo
in
tipologie
operaie
più
definite
quella
folla
composita
e
quel
ventaglio
di
caratteristiche
professionali,
“distorsioni
fisiche”
ed
intellettuali
che
abbiamo
visto
agire
nella
Trieste
dei
primi
anni
’60
dell’Ottocento.
I
quadri
culturali
e
comportamentali
ne
risultarono
altrettanto
vincolati.
L’imprinting
alla
povertà
condizionante
le
giovani
generazioni
cresciute
in
un
ambito
relazionale
privo
della
minima
aspirazione
all’ascesa
sociale,
in
famiglie
dove
il
padre
era
spesso
un
facchino
a
giornata
e la
madre
una
sfruttata
lavoratrice
a
domicilio,
andò
dissolvendosi
non
meno
di
quella
sottocultura
della
miseria
che
sembrava
nei
tempi
nuovi
sostituita
da
stili
di
vita
propri
all’universo
operaio.
Certo,
tali
processi
non
furono
né
lineari
né
privi
di
incertezze.
La
complessità
e la
frammentarietà
del
mondo
del
lavoro
triestino
restarono
un
dato
di
fatto
vitale
ben
oltre
lo
spartiacque
del
decennio
1890–1900.
Così
come
la
condanna
dello
sfruttamento
non
cessò
d’imbrigliare
una
notevole
fetta
della
popolazione.
Gli
stessi
consistenti
progressi
registrati
nella
quotidianità
materiale
dei
poveri–operai
impiegati
nel
comparto
navale
–
progressi
che
si
dovevano
al
successo
cantieristico
fondato
sulla
regolarità
delle
commesse
militari
viennesi
–
non
si
distribuirono
a
cascata.
La
cittadinanza
industriale
acquisita
da
alcuni,
comportò
l’esclusione
di
altri
per
mezzo
di
congegni
selettivi
perfezionati
in
seguito
dalle
scelte
di
politica
economica
fascista.
Una
parte
considerevole
della
popolazione
urbana,
tra
cui,
di
nuovo
ed
in
prima
fila,
le
donne
ed i
minori,
solo
per
via
indiretta
fu
beneficiata
dal
decollo
industriale.
La
radicale
insicurezza
economica,
l’instabilità
professionale,
la
marginalità
sociale
e
culturale,
l’angoscia
di
vivere
una
vita
in
bilico
e al
limite
della
sussistenza,
la
rabbiosa
consapevolezza
di
subire
infondate
discriminazioni,
non
erano
esperienze
destinate
a
scemare
coll’ascesa
dell’industria
triestina,
dell’operaismo
e
dell’austromarxismo.
Nella
città
degli
Svevo,
dei
Joyce
e
dei
Saba;
nel
capoluogo
irredento
simbolo
delle
lotte
nazionali;
nella
culla
italiana
e
centro
d’irradiazione
della
psicoanalisi
mercé
Edoardo
Weiss;
nella
stessa
Trieste
italianissima
di
un
onnipresente
fascismo
di
confine,
violentemente
ignaro
della
pluralità
dei
volti
e
della
ricchezza
delle
storie
cittadine,
vaste
porzioni
della
popolazione
continuarono
a
sopravvivere
in
condizioni
miserabili,
e ad
essere
sfruttate
in
forme
crudeli.
Non
avrebbe
scritto
nulla
di
nuovo,
il
31
agosto
1925,
il
medico
dell’Ufficio
Igiene
del
comune
relazionando
i
superiori
gerarchici
dopo
un’ispezione
presso
lo
Jutificio
Triestino:
"Ho
avuto
quest’oggi
l’occasione
di
visitare
certa
Guatin
Cecilia.
Informatomi
delle
sue
condizioni
di
vita
venni
a
sapere
che
essa
lavora
dalle
6
alle
17,30
all’Jutificio
triestino
con
una
interruzione
di
20
minuti,
dalle
11,30–11,50
(…)
Il
risultato
del
lavoro
troppo
lungo,
troppo
faticoso
ed
antigienico,
è
che
la
ragazza
dopo
un
breve
periodo
di
lavoro
ha
già
bisogno
di
essere
accolta
all’ospedale.
Industriali
poco
scrupolosi
sfruttano
in
questo
momento
l’estrema
miseria
di
una
parte
della
popolazione
per
imporre
delle
condizioni
di
lavoro
addirittura
inumane.
Primeggiano
in
questo
riguardo
il
Jutificio
e i
magazzini
di
tabacco
ed è
impressionante
il
numero
delle
ragazze
e
donne
ammalate
che
erano
e
sono
tuttora
occupate
in
queste
aziende."
Oltre
la
cartapesta
della
città
immaginata,
indigenza
e
sfruttamento
erano
tarli
destinati
a
scavare
ancora
a
lungo
nelle
esistenze
di
molti
triestini.
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fase
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