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N. 100 - Aprile 2016 (CXXXI)

A Trent’anni dal maxiprocesso
IN RICORDO DI un evento cruciale per la storia del nostro paese

di Riccardo Pieroni

 

Il 10 marzo si è celebrato un anniversario cruciale per la storia del nostro paese. Il 10 febbraio del 1986, infatti, nell’aula bunker (allestita per l’occasione) confinante con il carcere dell’Ucciardone di Palermo, si aprì il procedimento giudiziario contro “Abbate Giovanni + 708”, più comunemente noto come maxiprocesso. L’oggetto del contendere riguardava le attività di numerosi esponenti (tra i quali spiccavano alcuni boss mafiosi come Pippo Calò e Michele Greco) appartenenti a Cosa Nostra, la criminalità organizzata siciliana. I reati contestati erano vari: ad esempio, si passava dall’estorsione al riciclaggio di denaro, dal traffico di stupefacenti al reato di “associazione di tipo mafioso”. Quest’ultima fattispecie penale fece il suo ingresso all’interno del codice penale grazie alla legge n-646, 13 settembre 1982 (“La Torre - Rognoni”), approvata 10 giorni dopo l’uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, giunto in Sicilia per contrastare il fenomeno mafioso.  Il lavoro inquisitorio preliminare, necessario allo sviluppo del procedimento. venne realizzato dal cosiddetto pool antimafia, costituito dai magistrati Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Giovanni Falcone e Leonardo Guarnotta, incaricati a svolgere tale compito dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto, succeduto a Rocco Chinnici, una delle innumerevoli vittime colpite dall’azione di Cosa Nostra.  L’esito del maxiprocesso è abbastanza noto. Il processo di primo grado si concluse con pesanti condanne: 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. Dopo un articolato iter processale, tali condanne furono in gran parte confermate dalla Corte di Cassazione.

 

A distanza di trent’anni, ritengo sia utile soffermarsi su alcune questioni che emergono all’interno del maxiprocesso. Innanzitutto, al di là delle condanne emesse, perché questo processo è da ritenersi cruciale per la storia d’Italia? Il maxiprocesso è fondamentale perché mette la parola fina sui possibili dubbi riguardanti la natura di Cosa Nostra. Nel corso degli anni ’70, era diffusa, sia tra le autorità investigative che all’interno del mondo accademico, la tendenza a considerare l’attività mafiosa come un comportamento sociale derivabile da un “innato carattere siciliano”. L’ipotesi che dietro determinati reati o eventi vi fosse una struttura gerarchica dotata di proprie specificità, per molti, risultava erronea e poco plausibile. Il pool antimafia coordinato da Falcone, con il suo operato, riuscì a dimostrare sul piano giudiziario la dimensione organizzativa e verticistica della mafia siciliana, dotata di un proprio “autogoverno” (la commissione) e strutture territoriali di base come le famiglie, comprendenti decine di singoli mafiosi (gli “uomini d’onore”).  Dopo il maxiprocesso, cambierà il metodo di indagini. Dato che si presuppone l’esistenza di una sorta di governo interno, le autorità giudiziarie non si preoccuperanno soltanto di individuare i vari esecutori di un determinato reato: l’attenzione verrà posta anche sui presunti mandanti, cioè coloro che hanno stabilito se commettere o meno il reato oggetto d’inchiesta.

 

Un aspetto del maxiprocesso che possiamo definire inedito per la sua portata è l’utilizzo dei pentiti. I magistrati palermitani si sono serviti delle dichiarazioni di alcuni di essi, in primis Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. Le rivelazioni di entrambi, possono essere inscritte all’interno della “seconda guerra di mafia”, un violento scontro interno scoppiato sul finire degli anni ’70,  tra due schieramenti di Cosa Nostra rivali. Da una parte, abbiamo la famiglia di Corleone e i suoi alleati palermitani, guidati da Salvatore Riina. Dall’altra parte, la mafia urbana palermitana, identificabile nelle figure di boss dal calibro di Gaetano Badalamenti, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, coinvolta in misura maggiore nel traffico internazionale di stupefacenti. Lo scontro interno, provocò quasi 1000 morti, nel giro del biennio ’81-’83, condito da numerosi lutti, aventi come protagonisti figure dedite al contrasto del fenomeno mafioso. Buscetta e Contorno, in questo scontro, rientravano perfettamente: entrambi, risultavano legati in vario modo a Stefano Bontate, uno dei boss avverso ai corleonesi, ucciso da quest’ultimi il 23 aprile del 1981, giorno del suo quarantaduesimo compleanno.

 

Lo schieramento della mafia urbana palermitana uscì sconfitto sul piano prettamente militare dello scontro. Ecco che entrano in gioco le dichiarazioni dei pentiti. Gran parte delle informazioni portate al pool antimafia, infatti, riguardavano le famiglia corleonese. Un modo per colpire gli avversari, continuando lo scontro all’interno del processo, su un piano diverso (quello giudiziario). Torniamo alla questione del carattere inedito del pentitismo di Buscetta e Contorno.  Non è la prima volta che all’interno della storia di Cosa Nostra incontriamo delatori, desiderosi di svelare notizie provenienti dal mondo mafioso. La novità introdotta dai pentiti del maxiprocesso consiste nel portare le loro affermazioni all’interno di un tribunale. In precedenza, numerosi mafiosi, per sviare le indagini su di essi o colpire nemici interni, fornirono informazioni alle autorità investigative, in rapporti alquanto nebulosi e confidenziali. È il caso di Leonardo Vitale. Uomo d’onore di Cosa Nostra, decise di collaborare con le autorità investigative nel 1973. Le sue affermazioni, riguardanti i traffici di stupefacenti allora in atto e le mire egemoniche interne della famiglia di Corleone, furono sottovalutate e passate nel dimenticatoio, benchè in seguito ricevettero importanti conferme da Contorno e Buscetta.

 

La natura stessa del maxiprocesso, che vide numerose persone processate per uno stesso reato (l’appartenenza a Cosa Nostra), ci pone una riflessione finale. Il processo, apparentemente, non ha un “antenato” all’interno della storia d’Italia. Solo se ci riferiamo alla storia repubblicana. Infatti, in diversi processi del periodo fascista, all’interno della cosiddetta Operazione Mori – tentativo (fallito) di debellare il fenomeno mafioso definitivamente – diverse migliaia di persone erano state giudicate e condannate tra il 1928 e il 1932 per il reato di associazione a delinquere (come abbiamo visto, quello di associazione mafiosa fu introdotto solamente nel 1982).

 

Alcuni contemporanei di Falcone, temevano che col maxiprocesso tornassero in vigori metodi inquisitori, concetti antigiuridici tipici di un regime fascista. Si pensava che l’accusa si sarebbe ridotta ad attribuire agli imputati una specie di colpa collettiva, risparmiandosi l’onere di dimostrare la colpevolezza dei singoli. Peraltro, il reato associativo era malvisto da una cultura giuridica democratica per la memoria del suo uso propriamente politico e liberticida, già prima del fascismo, contro socialisti e anarchici. Tra i maggiori critici dell’impostazione che si sarebbe delineata all’interno del maxiprocesso, figurava lo scrittore e letterato Leonardo Sciascia. Il grande letterato, vedeva nell’impostazione del processo possibile derive liberticide, accodandosi sulle posizioni “garantiste” del partito radicale, all’epoca impegnato in una forte battaglia propagandistica. Sarebbe sbagliato limitare a questa semplificazione le posizioni del grande letterato.

 

È giusto spendere qualche parola su un articolo che ancora oggi fa discutere: “I professionisti dell’antimafia”. Pubblicato il 10 gennaio 1987 sul “Corriere della Sera”, tale scritto di Sciascia contribuì a rendere il clima che ruotava attorno al maxiprocesso ancora più teso. L’articolo, dotato di una struttura decisamente inusuale, parte con una recensione di un testo redatto da Cristopher Duggan, studioso inglese occupatosi della già citata Operazione Mori. L’autore del testo sostiene che le attività di contrasto mafioso portate avanti da Cesare Mori siano da inquadrare in una lotta di fazione all’interno del PNF (partito nazionale fascista). Il prefetto avrebbe utilizzato l’accusa di mafiosità in maniera del tutto strumentale, in modo da eliminare persone ritenute sgradite dalla scena politica. Sciascia ne deduce che l’antimafia può rappresentare un “strumento di potere”, all’interno di un regime fascista ma anche in un sistema democratico, “retorica aiutando e spirito critico mancando”.

 

L’articolo prosegue con un attacco che potremmo definire “soft” a chi cercava nell’antimafia la legittimazione per una carriera politica – il riferimento al sindaco palermitano dell’epoca (Orlando) è evidente – e una decisa “offensiva” esplicita a chi ne faceva uno strumento di carriera all’interno degli apparati giudiziari. Quest’ultimo aspetto, si rivela di maggiore interesse per noi. Sciascia, accusa di carrierismo Paolo Borsellino, uno dei magistrati del pool antimafia. Lo scrittore si riferisce alla sua nomina a procuratore capo della repubblica di Marsala, avvenuta nel settembre 1986. Borsellino, grazie all’impegno nel contrastare la criminalità organizzata siciliana, avrebbe sopravanzato i suoi avversari nell’assegnazione dell’incarico. Da questa evento, Sciascia arrivò a concludere, nel suo articolo: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”.  Prima di morire (20 novembre 1989), Sciascia riconobbe la validità del maxiprocesso e giunse a un chiarimento con Borsellino. L’articolo, si rivelò fallaceo nell’individuazione del magistrato come “professionista dell’antimafia”. Allo stesso tempo, però, contiene una questione che non va del tutto sottovalutata, nemmeno nel nostro presente: l’utilizzo dell’antimafia come strumento di potere.

 

Arrivato alla conclusione delle mie riflessioni, ritengo sia utile consigliare una lettura per chi desidera approfondire il contenuto specifico del maxiprocesso, il miglior modo per avere un’idea del lavoro ingente svolto dai magistrati palermitani. Una selezione critica di brani inerenti all’ordinanza redatta del pool si trova in Mafia. L'atto d'accusa dei giudici di Palermo, a cura di C. Stajano, testo pubblicato per la prima volta nel 1986 e ancora disponibile in alcune riedizioni. Invece, per chi volesse consultare in maniera “integrale” (ben 8608 pagine raccolte in 40 volumi!) l’ordinanza, esiste un modo abbastanza semplice. I ragazzi di Wikimafia, infatti, qualche mese fa hanno caricato sul web la corposa documentazione alla base del maxiprocesso. Iniziativa lodevole.

 

Di seguito, pubblico il link per la consultazione del materiale, presente alla sezione “Atti giudiziari” della voce “Maxiprocesso di Palermo” http://www.wikimafia.it/wiki/index.php?title=Maxiprocesso_di_Palermo.



 

 

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